Ponte Sant’Angelo: il palcoscenico di pietra sul Tevere

A Roma, dove ogni pietra ha una storia da raccontare, pochi luoghi riescono a condensare la complessità e la grandiosità della storia della città come Ponte Sant’Angelo. Non è un semplice attraversamento, né un mero manufatto di ingegneria; è un palcoscenico di marmo che da quasi duemila anni riflette le glorie, le tragedie, la fede e l’arte della Città Eterna. Nato come accesso monumentale a una tomba imperiale, trasformatosi in via di pellegrinaggio e macabro monito, e infine sublimato in un’eterea processione di angeli barocchi, il ponte è un libro di storia a cielo aperto. La sua vicenda architettonica e artistica è un viaggio che ci conduce dal rigore ingegneristico degli antichi romani alla teatralità spirituale del Barocco, unendo indissolubilmente il potere temporale degli imperatori a quello spirituale dei papi, il tutto sotto lo sguardo silente delle ali di marmo che lo adornano.

Le origini imperiali: la superbia del Pons Aelius

La storia del ponte ha inizio nel II secolo d.C., in un periodo di apogeo per l’Impero Romano. L’imperatore Publio Elio Adriano, figura colta, viaggiatore instancabile e appassionato di architettura, decise di erigere sulla sponda destra del Tevere, negli Horti Domitiae (i Giardini di Domizia), un mausoleo dinastico che per magnificenza avrebbe dovuto rivaleggiare, se non superare, quello di Augusto nel vicino Campo Marzio. Questo colossale sepolcro, iniziato intorno al 123 d.C., era destinato ad accogliere le sue spoglie e quelle dei suoi successori della dinastia antonina.

Per connettere questa imponente edificio funerario al cuore pulsante di Roma, il Campo Marzio, era necessario un accesso altrettanto grandioso. Adriano commissionò quindi la costruzione di un nuovo ponte, allineato perfettamente con l’ingresso del mausoleo. I lavori, diretti forse dall’architetto Demetriano, si conclusero nel 134 d.C. e il ponte fu battezzato Pons Aelius, dal nomen dell’imperatore.

La struttura originaria era un capolavoro di funzionalità e maestosità romana. Lunga circa 135 metri e larga 9, era costruita in opera quadrata, con un nucleo in calcestruzzo e peperino interamente rivestito da blocchi di travertino. Poggiava su otto arcate, di cui le tre centrali, a tutto sesto, erano le più ampie e sono quelle che ancora oggi costituiscono il nucleo antico del ponte. Queste arcate maggiori erano intervallate da piloni forati da piccole aperture ad arco, o “sfiatatoi”, progettati per diminuire la spinta dell’acqua durante le piene del Tevere, una soluzione ingegneristica tanto semplice quanto efficace. Le rampe di accesso erano sostenute da altre cinque arcate minori, tre sulla riva sinistra e due sulla destra, che nel corso dei secoli sono state interrate o modificate, soprattutto durante la costruzione dei muraglioni del Tevere alla fine del XIX secolo. Il piano stradale era ampio e delimitato da alte spallette, anch’esse in travertino, forse sormontate da statue. Alcune testimonianze lasciano ipotizzare che alle due estremità del ponte si ergessero degli archi trionfali in bronzo o marmo, a sottolinearne ulteriormente la funzione monumentale di soglia tra la città dei vivi e la necropoli imperiale.

Il medioevo: tra pellegrini, miracoli e supplizi

Con la caduta dell’Impero d’Occidente, il destino del ponte e del mausoleo cambiò radicalmente. Il mausoleo, per la sua massiccia struttura, fu trasformato in una fortezza, un avamposto strategico per il controllo della città e del Vaticano, assumendo il nome di Castellum. Il ponte, di conseguenza, ne divenne l’accesso fortificato.

L’evento che ne segnò per sempre l’identità avvenne nel 590. Roma era stremata da una violenta epidemia di peste. Papa Gregorio I, detto Magno, per implorare la clemenza divina, organizzò una solenne processione penitenziale che attraversò la città per giungere fino alla Basilica di San Pietro. Secondo la tradizione agiografica, riportata da Gregorio di Tours e poi dalla Leggenda Aurea di Jacopo da Varazze, mentre la processione attraversava il Pons Aelius, il papa ebbe una visione celestiale. Sulla sommità del mausoleo di Adriano vide un angelo, identificato con l’Arcangelo Michele, che ringuainava la sua spada fiammeggiante. Il gesto fu interpretato come un presagio della fine imminente del morbo, cosa che puntualmente avvenne. In memoria del prodigio, il mausoleo fu ribattezzato Castel Sant’Angelo e il ponte, di riflesso, assunse la sua denominazione attuale: Ponte Sant’Angelo. Una cappella dedicata all’angelo fu eretta sul castello, e più tardi sostituita da una statua.

Durante tutto il Medioevo e il Rinascimento, il ponte consolidò la sua importanza come principale via d’accesso alla Basilica Vaticana per le migliaia di pellegrini (romei) che affluivano a Roma da tutta Europa. Divenne la via sacra per eccellenza, un passaggio obbligato per ottenere l’indulgenza sulla tomba dell’Apostolo Pietro. Questo flusso ininterrotto lo rese un luogo di grande attività economica, fiancheggiato da botteghe e bancarelle.

Ma questa centralità fu anche causa di una terribile sciagura. Durante il Giubileo del 1450, indetto da Papa Niccolò V, una folla immensa si accalcò sul ponte. Il cedimento di una balaustra, forse aggravato dall’imbizzarrirsi di un mulo, scatenò il panico. Nella calca che ne seguì, circa duecento persone morirono schiacciate o annegate nel Tevere. L’evento sconvolse la città e spinse il successivo papa, Sisto IV, a costruire un nuovo ponte a valle – Ponte Sisto – proprio per decongestionare il traffico dei pellegrini da Ponte Sant’Angelo.

A partire dal XVI secolo, il ponte assunse anche una funzione più sinistra. Per volontà dei papi, divenne il luogo dove venivano esposte, appese a dei ganci, le teste dei condannati a morte, come macabro e potente monito contro il crimine. Per oltre tre secoli, figure come Beatrice Cenci e Giordano Bruno “salutarono” per l’ultima volta la città da questo ponte, che divenne così un luogo ambiguo, sospeso tra la speranza della salvezza per i pellegrini e la dannazione della giustizia papale per i criminali.

La trasformazione barocca: il ‘teatro’ di Bernini

Il volto del ponte come lo conosciamo oggi è il frutto di una straordinaria operazione artistica e urbanistica voluta da Papa Clemente IX Rospigliosi (1667-1669). Il pontefice, uomo di grande cultura e sensibilità artistica, desiderava trasformare l’antico ponte in un preludio scenografico e spirituale alla Basilica di San Pietro. L’idea era quella di creare una sorta di Via Crucis monumentale, un percorso catechetico che preparasse l’anima del pellegrino all’incontro con il sacro.

Per questo incarico epocale, la scelta non poteva che cadere su Gian Lorenzo Bernini, l’artista che più di ogni altro aveva plasmato il volto della Roma barocca. Bernini, ormai anziano ma ancora nel pieno del suo vigore creativo, concepì un progetto di una straordinaria teatralità. Immaginò una processione di dieci angeli senza ali (perché già in Paradiso) che portassero gli strumenti e i simboli della Passione di Cristo. Un corteo celeste che si muove in direzione opposta al pellegrino, quasi a venirgli incontro dal Castel Sant’Angelo, per accompagnarlo nel suo cammino di fede.

Il progetto fu avviato nel 1668. Bernini, coadiuvato da una consistente équipe di scultori, creò i disegni per tutte le statue, garantendo una coerenza stilistica e iconografica all’intero ciclo. Egli stesso mise mano al marmo per due delle statue: l’Angelo con la corona di spine e l’Angelo con il cartiglio, quest’ultimo recante la scritta “INRI” (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum). Queste due opere, pervase da una grazia, un pathos e un dinamismo straordinari, furono considerate dal papa stesso dei capolavori talmente sublimi da non poter essere lasciati all’aperto, esposti alle ingiurie del tempo. Clemente IX le acquistò per la sua collezione privata. Oggi, gli originali berniniani sono ammirati nella vicina basilica di Sant’Andrea delle Fratte, mentre sul ponte si trovano delle copie eseguite sotto la direzione dello stesso Bernini, rispettivamente da Paolo Naldini (per l’Angelo con la corona) e da Giulio Cartari (per l’Angelo con il cartiglio).

La realizzazione delle altre otto statue fu affidata ai più talentuosi allievi e collaboratori della sua bottega. Il risultato è un insieme di rara armonia, dove ogni scultura, pur mantenendo una propria individualità, dialoga con le altre in un crescendo di tensione drammatica e spirituale.

La processione celeste: analisi delle sculture

Percorrendo il ponte dal centro di Roma verso Castel Sant’Angelo, si incontrano gli angeli in questo ordine:

  1. Angelo con la colonna (Antonio Raggi): Iniziando dal lato sinistro, il primo angelo, opera del “Raggione”, uno dei più fedeli allievi di Bernini, abbraccia con fatica e devozione la colonna della flagellazione. La figura è curva sotto il peso dello strumento di tortura, il corpo è in torsione, il panneggio turbinoso accentua il dramma e lo sforzo fisico, che diventa metafora del peso del peccato che Cristo ha preso su di sé.
  2. Angelo con i flagelli (Lazzaro Morelli): Quest’angelo mostra con uno sguardo dolente i flagelli usati per percuotere Gesù. La composizione è più contenuta rispetto alla precedente, ma l’espressione del volto e il gesto delicato con cui tiene gli strumenti trasmettono un profondo senso di compassione. Il vento muove le vesti, creando un’impressione di movimento sospeso.
  3. Angelo con la corona di spine (Copia di Paolo Naldini dall’originale di Bernini): Questo è uno dei due angeli originariamente scolpiti dal maestro. La figura, di una grazia struggente, contempla con infinita tristezza la corona di spine che tiene tra le mani. Il suo volto, incorniciato da riccioli mossi, è un capolavoro di introspezione psicologica. Il corpo, avvolto in un panneggio leggero e vorticoso, sembra quasi danzare nel dolore.
  4. Angelo con il sudario (o Volto Santo) (Cosimo Fancelli): L’angelo dispiega con un gesto teatrale il velo della Veronica, su cui, secondo la tradizione, rimase impresso il volto di Cristo. La statua cattura l’attimo in cui il sacro lino viene mostrato al fedele. Il panneggio, ampio e rigonfio, funge da quinta scenica per la reliquia, creando un forte impatto emotivo.
  5. Angelo con la veste e i dadi (Paolo Naldini): Opera dello stesso autore della copia dell’Angelo con la corona, questa statua rappresenta un momento di umiliazione. L’angelo guarda con mestizia la tunica di Cristo e i dadi con cui i soldati romani se la giocarono ai piedi della croce. La composizione è un equilibrio tra la massa della veste e la delicatezza del gesto con cui l’angelo la sorregge.

Attraversando il ponte e tornando indietro sul lato opposto, la processione continua:

  1. Angelo con i chiodi (Girolamo Lucenti): Quest’angelo, dall’espressione concentrata e dolente, mostra i tre chiodi della crocifissione. Il corpo è in una posa elegante, quasi classica, ma il pathos è tutto concentrato nel volto e nel gesto delle mani, che presentano gli strumenti del supplizio come se fossero gioielli sacri.
  2. Angelo con la croce (Ercole Ferrata): Forse la statua più imponente del gruppo per il peso simbolico del suo attributo. Ferrata, altro grande scultore della cerchia berniniana, raffigura l’angelo mentre sorregge con possanza un pezzo della Santa Croce. Il corpo è robusto, quasi eroico, e lo sguardo è rivolto verso l’alto, in un misto di fatica e trionfo, a simboleggiare la croce come strumento di morte ma anche di redenzione.
  3. Angelo con il cartiglio (Copia di Giulio Cartari dall’originale di Bernini): Questa è la copia del secondo capolavoro scolpito da Bernini. L’angelo, con un movimento sinuoso ed elegante, quasi aereo, regge il titulus crucis. Il suo sguardo è rivolto verso la scritta, e un velo di malinconia ne adombra la bellezza ideale. Il panneggio, scolpito con un virtuosismo ineguagliabile nell’originale, sembra gonfiato da una brezza divina.
  4. Angelo con la spugna (Antonio Giorgetti): L’angelo regge la spugna imbevuta di aceto che fu offerta a Gesù sulla croce. La figura si ritrae quasi con orrore e tristezza, il volto contratto in una smorfia di dolore partecipe. È una delle rappresentazioni più umane e compassionevoli dell’intero ciclo.
  5. Angelo con la lancia (Domenico Guidi): L’ultimo angelo della serie regge la lancia di Longino, quella che trafisse il costato di Cristo. La figura è possente, con uno sguardo fiero e diretto. Il gesto con cui impugna la lancia non è di minaccia, ma di ostensione. L’arma della ferita finale è presentata come simbolo della rivelazione del sangue e dell’acqua, sacramenti della Chiesa.

I guardiani del ponte: le statue dei santi Pietro e Paolo

A fare da prologo a questa processione angelica, all’imbocco del ponte dalla riva sinistra, si ergono le statue monumentali dei due apostoli fondatori della Chiesa di Roma: San Pietro e San Paolo. Queste opere precedono di oltre un secolo l’intervento berniniano. Furono commissionate da Papa Clemente VII de’ Medici e collocate nel 1534 in sostituzione di due piccole cappelle. La statua di San Pietro, che regge le chiavi del Regno dei Cieli, fu scolpita da Lorenzetto. Quella di San Paolo, che impugna la spada, simbolo del suo martirio e della sua predicazione tagliente, è opera di Paolo Romano. La loro funzione è chiara: sono i guardiani della via sacra, i pilastri della fede che accolgono il pellegrino e lo introducono al mistero della Passione, magnificamente illustrato dagli angeli di Bernini.

Conclusione: un’eredità di pietra e spirito

Ponte Sant’Angelo è molto più di una semplice infrastruttura. È un’opera d’arte totale, un capolavoro di urbanistica che unisce architettura, scultura e teologia. Ogni suo elemento, dalle fondamenta romane che sfidano le piene del Tevere da duemila anni, alle statue barocche che sembrano vibrare di vita propria, contribuisce a creare un’esperienza unica. Reso interamente pedonale nel 1980, oggi il ponte permette una fruizione lenta e contemplativa, offrendo scorci indimenticabili su Castel Sant’Angelo e, in lontananza, sulla cupola di San Pietro.

Attraversarlo significa compiere un viaggio a ritroso nel tempo: calpestare le stesse pietre percorse da imperatori, papi, pellegrini, artisti e condannati a morte. Significa lasciarsi avvolgere dalla visione teatrale di Bernini, che ha saputo trasformare una struttura funzionale in un messaggio di fede universale, un dramma sacro che si svolge perennemente sotto il cielo di Roma. Ponte Sant’Angelo rimane così uno dei luoghi più potenti e suggestivi della città, un testamento duraturo della capacità di Roma di stratificare la storia e di trasformare la materia in pura emozione.

 

Posted by Adriano Virgili

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