L’equivoco del deserto: una rilettura dell’ascetismo di Giovanni Battista

La figura di Giovanni Battista, così come si è sedimentata nell’immaginario collettivo e in secoli di iconografia, è quella di un uomo ai margini, un asceta irsuto e solitario la cui esistenza si consuma in un deserto aspro e inospitale. L’enfasi posta sulla sua dieta eccentrica, locuste e miele selvatico, e sul suo abbigliamento primitivo, una veste di peli di cammello e una cintura di pelle, ha contribuito a plasmare l’immagine di un personaggio quasi ferino, un eremita che ha reciso i legami con la società per abbracciare una vita di isolamento radicale. Questa rappresentazione, per quanto potente e suggestiva, si sgretola di fronte a un’analisi rigorosa delle fonti evangeliche e alle conclusioni della storiografia moderna. Studiosi come Federico Adinolfi, Adriana Destro, Mauro Pesce, Joan E. Taylor e Edmondo Lupieri, tra gli altri, hanno operato una profonda revisione di questa immagine stereotipata, restituendoci un profilo del Battista ben più complesso, strategicamente inserito nel suo contesto storico-geografico e a capo di un movimento religioso autonomo, organizzato e influente. Lungi dall’essere un fuggitivo dal mondo, Giovanni era un predicatore che al mondo si rivolgeva con straordinaria efficacia. Per comprendere appieno la portata della sua missione, è necessario decostruire i tre pilastri dell’equivoco – il deserto, la solitudine e la dieta – e rimettere a fuoco il suo rapporto originario con Gesù di Nazaret, spogliandolo delle successive riletture teologiche.

Il deserto come palcoscenico, non come rifugio

Il primo e più significativo equivoco da smantellare riguarda la natura del “deserto” in cui Giovanni operava. Il termine greco utilizzato nei vangeli, erēmos, e il suo corrispettivo ebraico, midbār, non designano necessariamente una distesa di sabbia arida e disabitata come il Sahara. Indicano piuttosto una regione non urbanizzata, a bassa densità di popolazione, caratterizzata da pascoli, steppe e aree incolte, ma attraversata da vie di comunicazione e punteggiata da insediamenti minori. Come sottolinea Federico Adinolfi nel suo importante studio monografico, la predicazione di Giovanni non avveniva “nel vuoto, ma in luoghi precisi, frequentati da carovane e viandanti” (Adinolfi, 2021: 45). Questa non è una precisazione di poco conto; è la chiave per comprendere la strategia del Battista.

I vangeli stessi sono estremamente precisi nell’indicare la geografia della sua attività. Il Vangelo secondo Giovanni colloca il suo ministero a “Betania al di là del Giordano” (Giovanni 1,28) e più tardi a “Ennòn, vicino a Salìm, perché là c’era molta acqua” (Giovanni 3,23). Nessuna di queste località corrisponde a un deserto inaccessibile. La “Betania oltre il Giordano”, probabilmente identificabile con il sito oggi noto come Tell el-Kharrar in Giordania, si trovava sulla sponda orientale del fiume, in corrispondenza di un guado lungo un’importante arteria commerciale che collegava la Galilea e la Perea con la Giudea. Era un luogo di passaggio obbligato per pellegrini in viaggio verso Gerusalemme, per le carovane mercantili e per le legioni romane. Allo stesso modo, Ennòn (“sorgenti”) era, come il nome stesso suggerisce, una zona ricca d’acqua, vitale non solo per il rito dell’immersione che Giovanni praticava, ma anche per sostenere la vita delle folle che si radunavano per ascoltarlo.

La scelta di questi luoghi rivela una mente acuta e strategica. Giovanni non si isola dalla gente, ma le va incontro. Si posiziona in un crocevia geografico e umano per massimizzare la portata del suo messaggio. Il “deserto”, in questo senso, diventa un palcoscenico. È un luogo “altro” rispetto ai centri del potere politico e religioso (Gerusalemme e il suo Tempio), e questa alterità conferisce al suo messaggio un’aura di purezza, di autenticità e di critica profetica. Allo stesso tempo, però, è un luogo permeabile, un “auditorium” naturale dove la sua voce può risuonare potente e raggiungere un pubblico vasto ed eterogeneo. Come affermano Destro e Pesce, il Battista sceglie “un’area di confine, liminare, che è anche un’area di transito” (2021: 56), una zona franca dove le persone, lontane dal controllo sociale dei loro villaggi e dalla sorveglianza delle autorità del Tempio, potevano essere più ricettive a un messaggio radicale di conversione.

Oltre alla valenza strategica, il deserto possiede una carica simbolica potentissima nella tradizione ebraica, che Giovanni evoca deliberatamente. È il luogo per eccellenza dell’incontro con Dio. È nel deserto del Sinai che Israele, fuggito dall’Egitto, riceve la Legge e stringe il suo patto fondamentale con YHWH. È il luogo della prova, della purificazione e della dipendenza totale dalla provvidenza divina (la manna, le quaglie). È nel deserto che il profeta Elia, fuggendo dalla regina Gezabele, riscopre la sua vocazione nell’ascolto di una “voce di silenzio sottile” (1 Re 19,12). Il profeta Osea aveva immaginato un nuovo idillio tra Dio e il suo popolo infedele proprio nel deserto: “La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Osea 2,16).

Ancora più significativo è il legame con la profezia di Isaia, che i vangeli applicano direttamente a Giovanni: “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Isaia 40,3; cfr. Marco 1,3). Questo stesso versetto era il motto della comunità essena di Qumran, che si era ritirata nel deserto della Giudea proprio per adempiere a questa profezia, studiando la Legge e praticando una vita di estrema purezza rituale in attesa della fine dei tempi. Sebbene Giovanni non fosse un esseno, egli respirava la stessa aria culturale e attingeva allo stesso serbatoio simbolico. Scegliendo il deserto, questi si inserisce consapevolmente in tale tradizione. Egli sta chiamando Israele a un nuovo Esodo, a un’uscita dalla schiavitù del peccato per rinnovare l’alleanza con Dio in preparazione dell’imminente giudizio. La sua non è una fuga, ma una convocazione. Non sta scappando dalla storia, ma sta cercando di darle una svolta decisiva, proprio a partire dal luogo simbolo delle origini e del rinnovamento della fede di Israele.

Un maestro e la sua scuola: il discepolo Gesù e la rilettura del “precursore”

L’immagine del Battista come eremita solitario è smentita in modo categorico dalla testimonianza unanime e ripetuta dei testi evangelici riguardo alla presenza di un gruppo di “discepoli di Giovanni” (mathētai Iōannou). Questo non era un seguito informe di ammiratori occasionali, ma una comunità strutturata, con una propria identità e pratiche religiose specifiche che la distinguevano da altri gruppi del giudaismo coevo. Il movimento battista era una realtà sociale e religiosa di primo piano nella Palestina del I secolo. Le fonti sono esplicite e abbondanti. In Marco 2,18 (e nei paralleli di Matteo 9,14 e Luca 5,33), si assiste a una disputa proprio sul fatto che “i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano”. Questo confronto, probabilmente originato da ambienti polemici, evidenzia un fatto storico fondamentale: il digiuno era una pratica caratteristica e regolare della comunità battista. Inoltre, il Vangelo secondo Luca ci informa che Giovanni aveva dotato la sua comunità di una forma liturgica propria, insegnando ai suoi discepoli una preghiera specifica, proprio come Gesù avrebbe fatto con i suoi: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” (Luca 11,1).

È all’interno di questo contesto di un movimento autonomo e consolidato che va collocato il rapporto originario tra Giovanni e Gesù. I vangeli sono concordi nell’affermare che Gesù si recò da Giovanni per essere battezzato da lui. Questo atto, storicamente quasi indiscutibile, non era un mero gesto simbolico, ma un’adesione piena al messaggio e al movimento del Battista. Come evidenzia acutamente Adinolfi, ricevere il battesimo da Giovanni significava accettarne l’appello alla conversione, sottomettersi al suo rito di purificazione e, di fatto, diventarne un discepolo; “era l’atto che sanciva l’appartenenza al gruppo di Giovanni” (2021: 78). Per un certo periodo, dunque, Gesù fu un seguace del Battista, parte di quella folla di discepoli che si raccoglieva intorno al profeta del Giordano.

L’idea, così centrale nella teologia cristiana, di Giovanni come “precursore” la cui intera esistenza era unicamente orientata ad annunciare e “preparare la via” per Gesù, è il frutto di una rilettura successiva. È una prospettiva teologica sviluppata dalle prime comunità cristiane per integrare la figura, altrimenti ingombrante e concorrenziale, del Battista all’interno della loro narrazione salvifica. Storicamente, Giovanni aveva una sua missione, un suo messaggio e un suo seguito, del tutto indipendenti da Gesù. La sua predicazione era centrata sull’imminente giudizio di Dio, non sull’arrivo di un messia umano. Che l’originaria subordinazione di Gesù a Giovanni creasse un certo “imbarazzo” è evidente nei testi stessi. Il Vangelo secondo Matteo sente il bisogno di inserire un dialogo in cui Giovanni, riconoscendo una presunta superiorità di Gesù, protesta: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?” (Matteo 3,14), un chiaro tentativo redazionale di invertire i ruoli. Il Vangelo secondo Giovanni, più tardo e teologicamente più evoluto, omette del tutto il racconto del battesimo di Gesù per mano di Giovanni, preferendo presentare il Battista unicamente come un “testimone” che indica Gesù come “l’agnello di Dio”. Queste modifiche e omissioni sono, paradossalmente, la prova più forte della storicità dell’evento originario: se fosse stata un’invenzione cristiana, non avrebbe mai preso una forma così problematica per la teologia successiva, che vedeva in Gesù una figura superiore a Giovanni fin dal principio.

Il movimento del Battista, inoltre, sopravvisse alla sua morte e continuò a esistere in parallelo, e talvolta in competizione, con quello di Gesù. Sono i discepoli di Giovanni a prendersi cura del suo corpo dopo la decapitazione (Marco 6,29). Anni dopo, Paolo incontrerà ad Efeso un gruppo di credenti che conoscevano e praticavano solo il “battesimo di Giovanni” (Atti 19,1-7), a riprova della diffusione e della persistenza del suo movimento. La missione di Gesù, quindi, non fu semplicemente annunciata da Giovanni, ma nacque al suo interno. Gesù fu discepolo di Giovanni, ne assorbì l’urgenza escatologica, e solo dopo l’arresto del suo maestro (Marco 1,14) iniziò una propria predicazione autonoma, che pur mantenendo elementi di continuità (l’appello alla conversione, il battesimo), se ne differenziò per toni (l’annuncio che il regno di Dio si faceva già presente attraverso il suo ministero, testimoniato dalle sue opere potenti) e pratiche (l’abbandono del digiuno ascetico).

Una dieta profetica: purezza rituale e dipendenza da Dio

Nessun elemento ha nutrito l’immaginario del Battista “selvaggio” più della sua dieta, descritta da Matteo e Marco in modo lapidario: “Il suo cibo erano locuste e miele selvatico” (Matteo 3,4; Marco 1,6). Un’analisi superficiale potrebbe interpretare questa scelta alimentare come un segno di indigenza estrema o di un ritorno a uno stato primitivo. La realtà storica e teologica è, ancora una volta, molto più profonda e sofisticata. La sua dieta, così come il suo abbigliamento, costituiva una divisa, un manifesto vivente della sua identità profetica.

Innanzitutto, è fondamentale sottolineare che il consumo di locuste non era affatto strano o ripugnante nel Vicino Oriente antico. Al contrario, la Torah, il cuore della Legge ebraica, le classifica esplicitamente come un alimento ritualmente puro (kosher). Il libro del Levitico, dopo aver elencato una lunga serie di insetti impuri, specifica: “Di questi potrete mangiare: ogni specie di locusta, ogni specie di solàm, ogni specie di argòl e ogni specie di agàb” (Levitico 11,22). Lungi dal violare le norme alimentari ebraiche in un impeto di selvatichezza, Giovanni si atteneva scrupolosamente ad esse. La sua dieta, quindi, non era impura, ma iper-pura. Come osserva Joan E. Taylor nel suo studio The Immerser, scegliendo un cibo esplicitamente permesso dalla Legge ma proveniente dal mondo non coltivato e non toccato da mano umana, Giovanni compiva una scelta di purezza radicale, distinguendosi da cibi che, seppur permessi, potevano essere associati a pratiche agricole o commerciali impure (1997: 174).

Anche il “miele selvatico” (meli agrion) non è necessariamente da intendersi solo come il prodotto di alveari di api selvatiche. Il termine poteva indicare anche le secrezioni zuccherine di alcune piante o la linfa dolce di alberi come il carrubo o il dattero, alimenti comuni e facilmente reperibili nel deserto.

Il significato di questa dieta non risiede dunque nella sua stranezza, ma nel suo valore simbolico. Mangiando ciò che il “deserto” offre spontaneamente, senza il bisogno di agricoltura, allevamento o commercio, Giovanni metteva in scena una parabola vivente di totale dipendenza da Dio. La sua alimentazione era un atto di fede nella provvidenza divina, un richiamo potente al tempo della manna nel deserto, quando Israele fu nutrito direttamente da Dio. Era una critica implicita, ma feroce, alla società del suo tempo, basata sull’accumulo di ricchezza, sull’agricoltura e sul commercio, che potevano generare un falso senso di autosufficienza e allontanare da Dio.

Questo stile di vita ascetico trova un parallelo perfetto e intenzionale nel suo abbigliamento. La veste di peli di cammello e la cintura di cuoio ai fianchi non sono gli stracci di un povero o la pelle di un cavernicolo, ma una vera e propria “divisa” profetica. La descrizione ricalca quasi alla lettera quella del più grande dei profeti, Elia. Quando il re Acazia chiede ai suoi messi che aspetto avesse l’uomo che li aveva affrontati, essi rispondono: “Era un uomo peloso, con una cintura di cuoio ai fianchi”. E il re, senza bisogno di altre informazioni, esclama: “È Elia il Tisbita!” (2 Re 1,8).

Indossando gli abiti di Elia, Giovanni si presentava al popolo non come un eccentrico, ma come il compimento della profezia di Malachia, che chiude il canone profetico ebraico: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore” (Malachia 3,23-24). Ogni aspetto della sua vita pubblica, dal luogo scelto alla comunità che lo circondava, dalla dieta all’abbigliamento, era un messaggio potentissimo e coerente. Era un profeta escatologico che incarnava il suo annuncio: il tempo è compiuto, il giudizio di Dio è imminente, è necessaria una conversione radicale che parta dal cuore e si manifesti in ogni aspetto della vita. Questa interpretazione è rafforzata in modo decisivo dal contenuto della sua predicazione, che non è affatto un generico invito alla penitenza, ma un appello a una giustizia sociale concreta e verificabile. A chi gli chiede “Che cosa dobbiamo fare?”, Giovanni non risponde con precetti astratti o rituali, ma con indicazioni pratiche che incidono sulla vita quotidiana e sulle relazioni economiche: “Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto” (Luca 3,11). Ai pubblicani, odiati collettori di imposte, dice: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato” (Luca 3,13). Ai soldati, ordina: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe” (Luca 3,14). Questo è il messaggio di un uomo profondamente immerso nella realtà del suo popolo, che chiama a una conversione che deve tradursi in rapporti umani più giusti.

In conclusione, la ricerca storica contemporanea ci impone di abbandonare l’immagine romantica del Giovanni Battista ferino e solitario. Al suo posto, emerge la figura di un leader religioso di eccezionale caratura: un teologo che usa la geografia come un testo, un maestro a capo di un movimento autonomo e influente, e un profeta che incarna il suo messaggio in uno stile di vita radicale ma perfettamente codificato. Fu una figura così imponente che Gesù stesso scelse di diventarne discepolo. La successiva tradizione cristiana, per affermare l’unicità del suo Signore, ha dovuto “addomesticare” la figura di Giovanni, riducendola al ruolo di annunciatore. Restituire a Giovanni la sua autonomia storica e la sua statura di maestro non sminuisce Gesù, ma, al contrario, ci permette di comprendere più a fondo le radici del suo ministero e la straordinaria vitalità del panorama religioso giudaico in cui entrambi operarono.

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Posted by Adriano Virgili

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