In una città come Roma, scrigno di innumerevoli meraviglie architettoniche che testimoniano la grandezza del suo Impero, esiste un monumento che più di altri cattura l’immaginazione per la sua forma insolita e la sua origine esotica: la Piramide di Gaio Cestio. Appuntita, slanciata e rivestita di un candido marmo che risplende sotto il sole romano, questa struttura funeraria si erge come un frammento d’Egitto trapiantato nel tessuto urbano della capitale, a ridosso della storica Porta San Paolo e del suggestivo Cimitero acattolico. La sua presenza, tanto bizzarra quanto affascinante, non è frutto del caso, ma il riflesso di un preciso momento storico in cui Roma, conquistatrice del mondo, subì a sua volta la potente seduzione della millenaria civiltà del Nilo. La Piramide Cestia non è solo la tomba di un facoltoso magistrato, ma un simbolo duraturo di quella “egittomania” che pervase l’Urbe all’indomani della sottomissione del regno di Cleopatra, un monumento che ha saputo resistere alle ingiurie del tempo e degli uomini grazie a una serie di fortunate circostanze che ne hanno garantito la quasi perfetta conservazione fino ai giorni nostri.
Un testamento di pietra: genesi e costruzione
La storia della Piramide Cestia ha inizio tra il 18 e il 12 a.C., un periodo di pace e prosperità inaugurato dal primo imperatore, Augusto. In quegli anni, Roma era all’apice della sua potenza. La recente conquista dell’Egitto nel 30 a.C., dopo la battaglia di Azio e la tragica fine di Marco Antonio e Cleopatra, non aveva portato solo immense ricchezze e il controllo del granaio del Mediterraneo, ma aveva anche scatenato una vera e propria moda culturale. Simboli, divinità e stili architettonici egizi divennero estremamente popolari tra l’aristocrazia romana, desiderosa di ostentare la propria cultura cosmopolita e la propria ricchezza. Obelischi, sfingi e altri manufatti vennero trasportati dall’Egitto per adornare templi e piazze, e si diffuse il gusto per la costruzione di sepolcri a forma di piramide.
È in questo clima di fascinazione per l’esotico che si inserisce la figura di Gaio Cestio Epulone, il committente del monumento. Le informazioni su di lui sono scarse e provengono principalmente dalle iscrizioni incise sulla piramide stessa. Sappiamo che fu membro del collegio dei septemviri epulones, un prestigioso gruppo di sette sacerdoti incaricati di organizzare i banchetti sacri in onore delle divinità. Fu anche pretore e tribuno della plebe, cariche che testimoniano il suo elevato status sociale e politico. Gaio Cestio era, con ogni probabilità, un uomo di grande ricchezza e cultura, pienamente immerso nelle tendenze del suo tempo.
La costruzione del suo mausoleo fu dettata da una clausola perentoria inserita nel suo testamento. Come riportato in un’iscrizione rinvenuta durante gli scavi del XVII secolo, Cestio dispose che i suoi eredi, in particolare il suo liberto Ponzio Mela, avrebbero ricevuto la cospicua eredità solo a patto di completare la costruzione della sua tomba entro 330 giorni dalla sua morte. Pena la perdita dell’intero patrimonio. Questa condizione, tanto stringente, fu uno strumento efficace per garantire che le sue volontà fossero eseguite senza indugi. E così fu: gli eredi, spinti dalla fretta di entrare in possesso dei beni, portarono a termine l’imponente opera con una rapidità sorprendente, rispettando, e forse addirittura anticipando, i termini testamentari.
Un’altra clausola del testamento di Cestio, tuttavia, non poté essere rispettata. Il magistrato aveva disposto che nella sua tomba fossero deposti anche alcuni preziosi arazzi di sua proprietà, gli attalica. Ma una legge emanata proprio in quegli anni, la Lex Iulia de ambitu, per frenare l’eccessiva ostentazione di lusso, ne proibì la collocazione all’interno dei sepolcri. Gli eredi, per onorare comunque la volontà del defunto, vendettero i tappeti e con il ricavato fecero realizzare due statue in bronzo dorato, che furono collocate all’esterno del monumento. Di queste statue oggi non resta traccia, ma le basi, ritrovate durante gli scavi, sono ora conservate ai Musei capitolini.
Architettura e caratteristiche: un ibrido romano-egizio
Sebbene ispirata ai modelli egizi, la Piramide Cestia è un’opera profondamente romana nella tecnica e nei materiali. Si erge su una base quadrata di circa 29,60 metri per lato (corrispondenti a 100 piedi romani), poggiata su una solida fondazione in travertino. La sua altezza raggiunge i 36,40 metri (125 piedi romani). Queste proporzioni, con un rapporto tra altezza e base molto più accentuato rispetto alle piramidi di Giza, le conferiscono un aspetto più slanciato e appuntito, una caratteristica tipica delle piramidi del periodo meroitico in Nubia, che i Romani avevano probabilmente conosciuto durante le loro spedizioni militari.
Il nucleo della struttura è realizzato in opera cementizia (opus caementicium), una miscela di malta e pietrame che costituiva il segreto della durabilità e della versatilità dell’architettura romana. Questo nucleo era poi rivestito da una cortina di mattoni e, infine, ricoperto da lastre squadrate di marmo bianco di Luni (oggi Carrara), che le donavano un aspetto luminoso e imponente. Questo rivestimento marmoreo, ancora oggi quasi integralmente conservato, è uno degli elementi che rendono la Piramide Cestia un unicum nel panorama dei monumenti romani.
All’interno, circa a un terzo della sua altezza, si trova la camera sepolcrale, un ambiente relativamente piccolo se confrontato con la mole esterna del monumento. Si tratta di una cella rettangolare di circa 23 metri quadrati (5,95 x 4,10 metri), coperta da una volta a botte. Le pareti, al momento della scoperta nel 1663, erano decorate con affreschi di grande raffinatezza, realizzati in quello che viene definito il “terzo stile” della pittura pompeiana. Le decorazioni, oggi in gran parte svanite a causa dell’umidità e delle infiltrazioni, consistevano in pannelli bianchi riquadrati da cornici sottili, al centro dei quali erano dipinte piccole figure femminili stanti e, agli angoli, quattro Vittorie alate che porgevano corone e nastri. La volta era anch’essa affrescata con scene di banchetti sacri, in chiaro riferimento al ruolo di epulone ricoperto da Gaio Cestio. Purtroppo, la camera funeraria fu violata già in antichità, probabilmente da tombaroli in cerca di tesori, che vi praticarono un cunicolo sul lato nord. Al momento della sua riscoperta ufficiale, la cella era vuota; nessuna traccia dell’urna cineraria o del corredo funebre è giunta fino a noi.
Da tomba a bastione: l’inclusione nelle mura Aureliane
La vera fortuna della Piramide Cestia, il segreto della sua eccezionale sopravvivenza, fu la sua posizione. Originariamente costruita lungo la via Ostiense, in un’area suburbana ricca di necropoli e sepolcri monumentali, si trovò in una posizione strategica quando, tra il 271 e il 275 d.C., l’imperatore Aureliano decise di dotare Roma di una nuova e più possente cinta muraria per difenderla dalla crescente minaccia delle invasioni barbariche.
Con un approccio pragmatico tipicamente romano, gli ingegneri militari di Aureliano decisero di inglobare nel percorso delle mura ogni struttura preesistente che potesse fungere da bastione o da rinforzo. Così, la solida e massiccia mole della piramide fu integrata direttamente nel muro, diventandone un torrione triangolare. Questa scelta si rivelò provvidenziale. Mentre innumerevoli altri mausolei e templi che sorgevano fuori città vennero smantellati nel corso dei secoli per ricavarne materiale da costruzione, la Piramide di Gaio Cestio, protetta dalla sua funzione militare, fu preservata.
Durante il Medioevo, la sua origine fu dimenticata. La fantasia popolare, incapace di spiegare la presenza di un simile monumento, la ribattezzò Meta Remi (la tomba di Remo), associandola a un’altra piramide, più grande ma oggi scomparsa, che sorgeva in area vaticana e che era nota come Meta Romuli (la tomba di Romolo). Si credeva che i due leggendari fondatori di Roma fossero stati sepolti in questi due mausolei faraonici posti simbolicamente ai due estremi della città.
La riscoperta e i restauri: da sepolcro dimenticato a icona urbana
Bisognerà attendere il Rinascimento e poi il XVII secolo per una riscoperta filologica del monumento. Fu durante il pontificato di papa Alessandro VII Chigi (1655-1667), un papa umanista e grande mecenate, che la piramide tornò al centro dell’attenzione. Nel 1663, il pontefice ordinò una campagna di scavi alla base del monumento, che fino ad allora era parzialmente interrato. Questi lavori riportarono alla luce le iscrizioni con il nome di Gaio Cestio, svelando finalmente la vera identità del suo committente e la datazione dell’opera. Fu in questa occasione che venne scoperto l’ingresso della camera sepolcrale e che si poté accedere per la prima volta, dopo secoli, ai suoi interni affrescati. Gli scavi misero in luce anche le basi delle statue bronzee e l’antico basolato della via Ostiense.
Da quel momento, la Piramide Cestia, liberata dal suo parziale interramento e restituita alla sua identità storica, divenne una tappa fondamentale del Grand Tour, il viaggio di formazione che i giovani aristocratici e intellettuali europei compivano in Italia. La sua sagoma esotica, accostata alle severe mura romane e alla vicina Porta San Paolo (l’antica Porta Ostiensis), divenne uno dei soggetti preferiti da pittori e incisori, tra cui il celebre Giovanni Battista Piranesi, le cui vedute ne diffusero l’immagine in tutta Europa.
La sua fama crebbe ulteriormente con la creazione, a partire dal XVIII secolo, del Cimitero acattolico (o Cimitero degli Inglesi) proprio a ridosso del suo lato orientale. Questo luogo di sepoltura, destinato agli stranieri non cattolici che morivano a Roma, divenne il campo santo di poeti, artisti e intellettuali, tra cui John Keats e Percy Bysshe Shelley. L’accostamento tra la piramide pagana e le romantiche tombe neoclassiche immerse nel verde creò un angolo di Roma di una bellezza struggente e malinconica, un luogo dove la storia antica dialoga con la poesia moderna.
Nel corso dei secoli, la piramide ha subito numerosi interventi di restauro per garantirne la stabilità e la conservazione. L’ultimo e più significativo si è concluso nel 2015, finanziato da un generoso mecenate giapponese, Yuzo Yagi. Questo intervento ha permesso di pulire a fondo le superfici marmoree, annerite dall’inquinamento, e di consolidare la struttura, restituendo al monumento il suo antico splendore.
Oggi, la Piramide di Gaio Cestio non è più un semplice sepolcro. È un punto di riferimento inconfondibile nel paesaggio urbano, un monumento che continua a stupire e a interrogare. È la testimonianza tangibile di un’epoca in cui Roma, dominatrice del mondo, si apriva alle influenze culturali più lontane, assimilandole e rielaborandole con la sua inconfondibile genialità. Visitabile solo in occasioni speciali e con visite guidate, custodisce al suo interno il segreto di un magistrato che, con un testamento lungimirante, è riuscito a consegnare il suo nome e la sua memoria all’eternità, legandoli a una delle icone più singolari e amate della Città Eterna.