Introduzione: la filosofia come anticamera della fede
In un panorama accademico in cui, specialmente nei dipartimenti di filosofia, l’ateismo, il naturalismo e il fisicalismo rappresentano le correnti di pensiero dominanti, la pubblicazione di un’opera come Faith and Reason: Philosophers Explain Their Turn to Catholicism costituisce un evento di notevole interesse intellettuale. Il testo in esame, curato da Brian Besong e Jonathan Fuqua, non è una semplice raccolta di testimonianze di fede, ma un’articolata esplorazione del percorso che ha condotto dieci filosofi professionisti, formati al rigore della logica e dell’argomentazione, ad abbracciare la fede cattolica. Il contesto, come sottolineato da Besong nella sua introduzione, rende queste conversioni tutt’altro che aneddotiche; esse emergono come il punto d’arrivo di un’intensa e spesso sofferta ricerca della verità in un ambiente intellettuale prevalentemente ostile alla religione.
Il volume si apre con una prefazione di Francis J. Beckwith che inquadra magistralmente la natura stessa della conversione. Lungi dall’essere un atto di volontà istantaneo o un “salto nel buio”, il cambiamento di convinzioni profonde è descritto come un processo lento e graduale, un susseguirsi di “piccoli e apparentemente insignificanti cambiamenti” che portano a un “aggiustamento intellettuale”. Questo cammino, pur essendo eminentemente razionale, è percepito dai protagonisti non come un monologo della ragione, ma come un dialogo in cui la ricerca umana della verità si intreccia con l’iniziativa di quella che chiamano una “speciale grazia divina”. La toccante storia personale di Beckwith, legata alla malattia del padre e alla scoperta di una medaglia di sant’Antonio che questi portava segretamente con sé, funge da paradigma di questa misteriosa interazione tra l’ordinario e lo straordinario, tra l’evento casuale e il segno provvidenziale.
Questo articolo si propone di analizzare come, per gli autori del volume, il rigoroso esercizio della ragione filosofica, lungi dal condurre allo scetticismo o alla negazione, sia diventato il principale veicolo del loro cammino verso la fede cattolica. Si esploreranno sia i percorsi “negativi”, caratterizzati dal crollo di visioni del mondo alternative come il materialismo e il protestantesimo, sia i percorsi “positivi”, segnati da una crescente attrazione per la coerenza, la bellezza e il potere esplicativo del cattolicesimo.
Il naufragio delle certezze secolari: dall’ateismo al teismo
Per molti degli autori, il viaggio verso il cattolicesimo non inizia con un’attrazione per la fede, ma con una profonda crisi intellettuale interna alle loro visioni del mondo secolari. Il teismo non viene adottato come un rifugio irrazionale, ma emerge come l’unica alternativa filosoficamente sostenibile dopo il collasso delle certezze materialiste e naturaliste.
La crisi del materialismo
Una tappa fondamentale per diversi autori è la disillusione nei confronti del materialismo e del fisicalismo, ovvero la tesi secondo cui la realtà è interamente riconducibile a materia e processi fisici. Edward Feser e Brian Cutter, partendo da presupposti atei, giungono alla medesima conclusione: la mente umana, con le sue proprietà irriducibili come la coscienza, l’intenzionalità e la capacità di pensiero astratto, rappresenta uno scoglio insormontabile per una visione puramente fisica della persona. Feser, influenzato da filosofi come John Searle e Gottlob Frege, riconosce l’incapacità del materialismo di spiegare il significato e la razionalità stessa, vedendo nei tentativi riduzionisti un mascherato eliminativismo, ossia la negazione dell’esistenza stessa della mente. Cutter, in un percorso analogo, abbandona quello che definisce “naturalismo a punto fisso” per un approccio più “mooreano”, che dà peso all’evidenza del senso comune. Questo cambiamento metodologico lo porta a scontrarsi con l’evidenza introspettiva che la coscienza è “chiaramente qualcosa di completamente diverso dai movimenti della materia”, un dato che il fisicalismo lo costringeva a negare disonestamente.
Il caso di J. Budziszewski è forse il più emblematico e drammatico. Egli non si limita a criticare il materialismo, ma tenta di seguirlo fino alle sue estreme conseguenze nichiliste, “mordendo il proiettile fisicalista”. Questo lo conduce a negare non solo Dio, ma anche il libero arbitrio, la responsabilità e persino l’esistenza di un “io” stabile. Il suo percorso illustra come questa posizione sia esistenzialmente e moralmente insostenibile, un vero e proprio “suicidio” intellettuale. Ciò che lo salva da questo abisso non è un argomento filosofico, ma la percezione insopprimibile e fattuale della sua “condizione oggettivamente malvagia”, un’intuizione della coscienza che funge da crepa nel muro del suo nichilismo, costringendolo a riammettere la realtà del bene e, di conseguenza, di un ordine morale oggettivo.
L’intelligibilità del mondo e il principio di ragione sufficiente
Un altro pilastro del naturalismo che vacilla sotto l’analisi di questi filosofi è l’idea che l’universo possa essere un “fatto bruto e inintelligibile”. Edward Feser, in particolare, descrive come la sua riconsiderazione dell’argomento cosmologico di Leibniz lo abbia portato a una rivalutazione del principio di ragione sufficiente, secondo cui tutto ciò che esiste ha una spiegazione. Per Feser, negare questo principio per evitare la conclusione teistica (l’esistenza di un ente necessario) equivale a negare la possibilità stessa della spiegazione, sia in filosofia che nella scienza. Il suo esperimento mentale, in cui contempla un angolo polveroso della sua stanza e poi l’intero universo come “materia bruta e insensata, priva di qualsiasi spiegazione”, gli rivela il “brivido” esistenziale e l’insanità di una visione del mondo priva di significato, scopo e intelligibilità. L’ateismo coerente, conclude, porta a una visione del mondo che è semplicemente “folle”.
Il percorso di questi pensatori mostra un modello ricorrente e significativo. La loro apertura al teismo non nasce da un desiderio emotivo o da un “salto di fede”, ma dal fallimento razionale delle alternative. Il materialismo si rivela incapace di spiegare la mente; il nichilismo non riesce a rendere conto della morale; il naturalismo non giustifica l’intelligibilità del cosmo. È questo naufragio intellettuale a creare un vuoto che solo il teismo sembra in grado di colmare razionalmente. Questa via negativa non è un’abdicazione della ragione, ma una sua applicazione rigorosa che, eliminando le ipotesi insostenibili, lascia il teismo come la conclusione più plausibile.
Al di là della riforma: la ricerca dell’autorità e dell’unità
Per i filosofi provenienti da un background protestante, la conversione al cattolicesimo è spesso preceduta da una crisi epistemologica e strutturale interna al protestantesimo stesso. Il disaccordo non verte tanto su singole dottrine, quanto sui principi fondanti che dovrebbero garantire la verità e l’unità, ma che, alla prova dei fatti, si rivelano fonti di instabilità e frammentazione.
La crisi del principio sola Scriptura
Il pilastro della riforma, il principio della sola Scriptura, viene sottoposto a una critica devastante da parte di diversi autori. La questione si articola su due problemi fondamentali: il canone e l’interpretazione. Logan Paul Gage articola con lucidità il problema del canone: come può la Bibbia essere l’unica e infallibile autorità se non può definire se stessa? Se la Bibbia non contiene un indice divinamente ispirato dei propri libri, allora la determinazione del canone deve poggiare su un’autorità esterna alla Bibbia stessa. La sua ricerca storica lo porta a concludere che solo un’autorità vivente e apostolica, cioè la Chiesa, poteva stabilire con certezza quali libri fossero da considerarsi parola di Dio.
Il problema dell’interpretazione è vissuto in modo drammatico da Neal Judisch. Osservando la controversia sulla “federal vision” all’interno della sua comunione presbiteriana, si rende conto di un paradosso paralizzante: pur condividendo l’adesione alla sola Scriptura e alle medesime confessioni di fede, i membri della sua Chiesa non riuscivano a raggiungere un accordo su questioni dottrinali fondamentali, precipitando in “scismi e divisioni” e scambiandosi accuse di eresia. Questa esperienza diretta del fallimento pratico del principio lo spinge a metterne in discussione la validità teorica. Se la sola Scriptura non può preservare l’unità, forse il principio stesso è sbagliato.
Bryan Cross affronta una crisi simile, ma in un contesto diverso: un dialogo con dei missionari mormoni. Quando cerca di confutare le loro dottrine appellandosi alla Bibbia, si scontra con la loro contro-narrazione, che include una nuova rivelazione (il Libro di Mormon) e la tesi di una “grande apostasia” della Chiesa primitiva. Cross si rende conto di non possedere un principio non circolare per difendere la sua interpretazione contro la loro. Entrambi rifiutavano l’autorità dei padri della Chiesa come normativa, lasciando il dibattito in una situazione di stallo insolubile, basato unicamente su interpretazioni private in conflitto.
La riconsiderazione della giustificazione (sola fide)
Un altro caposaldo della riforma, la giustificazione per sola fede (sola fide), viene messo in discussione attraverso un’analisi storica e teologica rigorosa. Il saggio di Robert C. Koons, scritto mentre era ancora un luterano convinto, è emblematico di questo processo. Koons giunge alla conclusione che la dottrina luterana della giustificazione, così come formulata nel XVI secolo, non è una riscoperta dell’insegnamento degli apostoli o dei padri della Chiesa, ma un'”innovazione senza precedenti”. Critica aspramente il metodo dei riformatori, come Filippo Melantone, di selezionare citazioni patristiche decontestualizzate (cherry-picking) per sostenere le proprie tesi, dimostrando come, ad esempio, l’opera di Agostino De spiritu et littera rifiuti esplicitamente la dottrina che Melantone pretende di trovarvi. Koons arriva a identificare quella che definisce una “contraddizione fatale” nella posizione luterana, che afferma simultaneamente la possibilità di perdere la fede, la necessità di usare i mezzi di grazia per perseverare, e l’assoluta irrilevanza delle opere per la salvezza finale.
La fame di una Chiesa visibile e sacramentale
Il fallimento strutturale del protestantesimo nel garantire l’unità visibile promessa da Cristo genera in molti autori un profondo desiderio per una Chiesa che sia un corpo organico e non una mera associazione spirituale. J. Budziszewski, deluso dall’episcopalianesimo, descrive la frammentazione protestante con un’immagine potente: “un braccio insanguinato qui, una gamba recisa là”, un insieme di parti che non potranno mai costituire il corpo di Cristo. Similmente, Brian Cutter è attratto dall’idea che “Gesù intendeva evidentemente che dovesse esistere una Chiesa visibile con un’unità visibile”. Questa fame di unità non è un desiderio di conformismo, ma la presa di coscienza che la natura stessa della Chiesa, come voluta dal suo fondatore, è incompatibile con la divisione perpetua.
Questi percorsi rivelano che la spinta verso il cattolicesimo non è motivata primariamente da un disaccordo su dottrine isolate, ma da una crisi fondamentale del sistema protestante. Il principio della sola Scriptura si dimostra incapace di fungere da arbitro efficace, generando divisione anziché unità. Questa constatazione pratica porta a una riconsiderazione teorica del principio stesso, e la necessità di un Magistero emerge non come un desiderio di sottomissione autoritaria, ma come la conclusione razionale che, senza un’autorità interpretativa divinamente istituita, la verità del Vangelo è lasciata in balia del giudizio privato e della frammentazione.
L’abbraccio del paradigma cattolico
Se la prima fase del viaggio è spesso caratterizzata dal crollo delle visioni del mondo precedenti, la seconda è segnata da una positiva attrazione per la coerenza, la profondità storica e il potere esplicativo della fede cattolica. Gli autori non si limitano a cambiare opinione su singole dottrine; piuttosto, adottano un nuovo modo di pensare, un nuovo “paradigma” che illumina e dà senso a tutto il resto.
La scoperta della continuità storica
Una delle scoperte più sconvolgenti per molti ex-protestanti è rendersi conto che la Chiesa cattolica non è una corruzione medievale del cristianesimo primitivo, ma la sua continuazione organica. Peter Kreeft vive questa epifania durante un corso di storia della Chiesa, quando si accorge che i padri della Chiesa suonano inequivocabilmente cattolici, non protestanti. Questa presa di coscienza lo porta ad abbracciare la celebre massima di John Henry Newman: “essere profondi nella storia significa cessare di essere protestanti”. Neal Judisch fa una scoperta simile quando si rende conto che le intuizioni teologiche che ammirava come “nuove e meravigliose” nel teologo anglicano N. T. Wright erano, in realtà, una riscoperta di temi e metodi interpretativi già pienamente presenti nella tradizione patristica e medievale. La storia, invece di essere un arsenale di argomenti contro Roma, diventa la prova più eloquente della sua apostolicità.
La coerenza del paradigma cattolico
Il saggio di Bryan Cross offre una chiave di lettura metodologica fondamentale per comprendere l’approdo al cattolicesimo. Influenzato dal filosofo Alasdair MacIntyre, Cross smette di confrontare protestantesimo e cattolicesimo punto per punto — un metodo che riconosce come intrinsecamente circolare, poiché ogni parte valuta l’altra secondo i propri presupposti — e inizia a valutarli come “paradigmi” complessivi, ovvero come due sistemi di pensiero coerenti al loro interno.
L’adozione di questo quadro macintyreano gli permette di porsi una nuova domanda: quale dei due paradigmi ha un potere esplicativo superiore? Quale dei due è in grado non solo di rendere conto dei dati della Scrittura e della storia, ma anche di spiegare l’esistenza e la plausibilità del paradigma rivale? Cross conclude che il paradigma cattolico è superiore. Esso non solo rende intelligibili dottrine altrimenti problematiche (come la rigenerazione battesimale o il ruolo dei santi), ma spiega anche perché il protestantesimo sia sorto, quali fossero le sue tensioni interne e perché la sua struttura porti inevitabilmente alla frammentazione. Il paradigma cattolico, con la sua dottrina della successione apostolica e del Magistero, è in grado di dare un senso coerente alla storia della Chiesa, inclusi gli scismi e le eresie, in un modo che il paradigma protestante, con la sua teoria di una “grande apostasia” seguita da una “restaurazione”, non può fare senza cadere in una forma di “deismo ecclesiale”.
L’attrazione della visione integrale
Un altro elemento di forte attrazione è la natura “inclusiva” del pensiero cattolico, il suo “sia… sia” che si contrappone a un “o… o” che spesso caratterizza altre teologie. La fede cattolica non oppone fede e opere, Scrittura e Tradizione, grazia e natura, ma le integra in una sintesi armoniosa. W. Scott e Lindsay K. Cleveland, nel loro percorso comune, scoprono questa visione integrale negli scritti di Tommaso d’Aquino. Trovano nel suo pensiero una capacità di distinguere senza opporre la legge naturale e la legge rivelata, l’ordine della creazione e quello della redenzione. Questo offre loro un quadro teologico ed etico molto più ricco e coerente rispetto agli approcci degli eticisti protestanti che avevano studiato, i quali tendevano a ridurre la complessità della realtà a un singolo principio, trascurando altre dimensioni essenziali.
La conversione di questi filosofi, quindi, non è semplicemente un cambiamento di credenze, ma un vero e proprio cambiamento metodologico. È un aggiornamento del loro “software” intellettuale. Cutter passa da un naturalismo dogmatico a un approccio “mooreano” che dà valore all’esperienza comune. Cross adotta il quadro dei paradigmi di MacIntyre per superare i dibattiti circolari. Koons applica un’analisi storica e logica spietata per smontare le caricature della dottrina della giustificazione. Per ciascuno di loro, abbracciare il cattolicesimo non è un abbandono della filosofia, ma l’esito della sua applicazione più rigorosa e sofisticata, un atto che apre la ragione a una realtà più vasta e complessa.
La dimensione umana della conversione
Sebbene il percorso di questi filosofi sia profondamente intellettuale, i loro racconti rivelano che la conversione non è un esercizio puramente astratto. La ragione, per loro, non opera in un vuoto, ma è incarnata in una vita fatta di esperienze, relazioni, sofferenze e percezioni estetiche. È l’intreccio di questi elementi a rendere le loro storie pienamente umane e universalmente toccanti.
La bellezza come argomento
In diversi racconti, la bellezza si rivela un potente veicolo di verità, una “via pulchritudinis” che parla al cuore prima ancora che alla mente. Peter Kreeft ricorda come la maestosità della cattedrale di san patrizio a New York e l’ascolto della musica di Palestrina abbiano “trafitto il suo cuore”, ponendogli una domanda a cui la sua teologia protestante non sapeva rispondere: “perché le loro chiese sono così belle?”. Per lui, la musica di Palestrina non era semplicemente bella, ma suonava come “la musica del cielo”, un’esperienza quasi mistica che lo ha reso ricettivo a una realtà più grande. Allo stesso modo, J. Budziszewski, pur ancora prigioniero del suo nichilismo, confessa di aver rischiato di piangere leggendo Dante e Tommaso d’Aquino per la “pura bellezza dell’apparenza della verità”. Queste esperienze non sostituiscono l’argomentazione razionale, ma la preparano, aprendo l’anima alla possibilità che ciò che è così profondamente bello possa essere anche vero.
La sofferenza e la grazia
La sofferenza emerge come un altro crocevia esistenziale in cui la verità di Cristo si manifesta in modo inaspettato. La testimonianza di Candace Vogler è un esempio straordinario di come un’esperienza traumatica come l’abuso paterno possa diventare il contesto in cui si scopre Cristo come “modello di vera mascolinità” e si viene persuasi della verità dell’eucaristia. La sua storia mostra come la grazia possa operare nelle ferite più profonde, trasformando il dolore in un luogo di incontro con il divino. Anche la narrazione di Francis Beckwith sulla morte del padre, con la scoperta della preghiera a Sant’Antonio, illustra come un evento doloroso, che un osservatore esterno potrebbe liquidare come una coincidenza, possa essere vissuto dall’interno come un “dono di Dio”, un segno tangibile della provvidenza che guida e accompagna la vita umana.
Le relazioni umane
Infine, quasi tutti i racconti sottolineano il ruolo fondamentale delle relazioni umane nel percorso di conversione. La ragione non è un’isola; essa fiorisce nel dialogo, nell’amicizia e nell’amore. Il viaggio dei coniugi Cleveland è emblematico: pur partendo da punti diversi e con tempi differenti, si sostengono a vicenda nella loro ricerca della verità, dimostrando come il matrimonio possa essere un luogo privilegiato di discernimento spirituale. Peter Kreeft riconosce l’influenza decisiva di un professore eccezionale che lo ha fatto innamorare della filosofia. Logan Paul Gage viene sfidato a riconsiderare le sue certezze da un collega cattolico. Queste storie dimostrano che la ricerca della verità è un’impresa comunitaria, in cui l’incontro con l’altro diventa spesso un incontro con l’Altro.
Un tema ricorrente in questi percorsi è il superamento di un paradosso fondamentale: la paura iniziale dell’autorità cattolica e la scoperta finale che in essa risiede la vera libertà. Kreeft esprime la paura comune di essere “comandato da un vecchio celibe italiano”. Tuttavia, questi pensatori giungono alla conclusione che senza un’autorità affidabile, la ragione è condannata a girare a vuoto. Brian Cutter si rende conto che, senza il Magistero, sarebbe costretto a “inventarsi la sua teologia da zero”, prigioniero del proprio soggettivismo. L’autorità della Chiesa, quindi, non viene più percepita come una prigione per la mente, ma come il guardrail che impedisce alla ragione di precipitare nell’arbitrarietà e nel relativismo, liberandola così per esplorare in sicurezza le profondità del mistero.
Conclusione: un’apologia della ragione aperta al mistero
In definitiva, il volume Faith and Reason: Philosophers Explain Their Turn to Catholicism si rivela molto più di un manuale di apologetica. È una raccolta di “cronache” intellettuali e spirituali di straordinaria onestà, profondità e rigore. Il suo grande merito è quello di mostrare, attraverso storie concrete e argomentazioni sofisticate, la profonda compatibilità tra l’esercizio appassionato della filosofia e l’abbraccio umile della fede cattolica.
Queste testimonianze demoliscono il cliché di una fede cieca e di una ragione ostile alla stessa. Al contrario, esse dimostrano che la ragione, quando non si chiude dogmaticamente al trascendente e non si accontenta di risposte superficiali, può diventare essa stessa un sentiero che conduce al mistero. Per i dieci filosofi protagonisti di questo volume, la loro vocazione a “inseguire la verità, costi quel che costi” non li ha portati a un vicolo cieco scettico, ma, attraverso sentieri labirintici e spesso inaspettati, li ha condotti alla soglia di quella che hanno riconosciuto come la casa del padre, un luogo dove fede e ragione, finalmente, si incontrano e si riconoscono.
Per chi volesse acquistare il volume: https://amzn.to/3GdXDIb
Gentile Prof. Virgili,
in tema di relazione tra fede e ragione, le segnalo questo video (https://www.youtube.com/watch?v=lu9NV5nHH3I) che affronta alcuni temi con i quali si vorrebbe mostrare l’incoerenza logica della teologia cristiana. Sarebbe di grande interesse poter leggere un suo commento (o magari un articolo) su questi argomenti, anche beneficio di tutti i suoi lettori.
Ho dato una scorsa veloce al video, perdonami, ma il uso contenuto è davvero imbarazzante, in quanto, le obiezioni proposto non sono altro che il frutto di una certa confusione concettuale, piuttosto che di intrinseche contraddizioni nel pensiero teologico. È prassi comune, per chi non maneggia con la necessaria perizia gli strumenti della metafisica e della teologia speculativa, scambiare un mistero per una contraddizione e una distinzione sottile per un sofisma. Offrirò tre rapide risposte alle tre obiezioni sollevate avvalendomi anche di un accenno di formalizzazione logica per mostrare che le pretese contraddizioni non sussistono, una volta che si sia compreso esattamente di che cosa si stia parlando.
1. Sulla pretesa contraddizione tra libertà e necessità della Croce
L’argomento fallisce perché applica a Dio una nozione univoca di “necessità”, senza distinguere tra ciò che è assolutamente necessario e ciò che è ipoteticamente necessario.
Per procedere con rigore, definiamo i termini:
• Necessità assoluta (o necessitas simpliciter): È ciò il cui contrario implica una contraddizione logica. È necessario in questo senso tutto ciò che non può non essere. Per esempio, è assolutamente necessario che un triangolo abbia tre lati. Nel caso di Dio, che è Atto Puro e la cui essenza è il suo stesso esistere, solo il suo essere e ciò che è identico alla sua essenza (come il suo amore per la propria infinita bontà) sono assolutamente necessari.
• Necessità ipotetica (o necessitas ex suppositione): È la necessità di un mezzo in vista di un fine, o di una conseguenza data una premessa. Non afferma la necessità della premessa o del fine in sé, ma solo il legame tra i due. Per esempio: “Se voglio arrivare a Milano in un’ora, è necessario che io prenda un treno ad alta velocità”. Il desiderio di andare a Milano non è necessario in senso assoluto, ma, posto quel desiderio, il mezzo diventa necessario per raggiungere il fine in quel modo specifico.
L’errore dell’obiettore è trattare la necessità della Croce come se fosse del primo tipo (assoluta), quando invece è palesemente del secondo (ipotetica).
1. La decisione di redimere è libera. Dio non era in alcun modo “obbligato” a salvare l’umanità dopo la caduta. Avrebbe potuto, senza alcuna diminuzione della sua perfezione e giustizia, lasciare l’umanità a sé stessa. La sua decisione di intervenire è un atto di pura misericordia, radicalmente libero e gratuito. Non aggiunge nulla alla sua beatitudine, che è già infinita e immutabile.
2. La scelta del modo è libera. Posta la libera decisione di redimere l’uomo, San Tommaso sottolinea che l’onnipotenza divina non era legata a un unico modo di agire. Egli afferma: «manifestum est quod Deus per suam omnipotentem virtutem poterat humanam naturam reparare multipliciter aliter quam per passionem» (“è manifesto che Dio, con la sua onnipotente virtù, avrebbe potuto restaurare la natura umana in molti altri modi oltre alla passione”, Summa Theologiae, III, q. 46, a. 2). Avrebbe potuto perdonare il peccato con un puro atto di volontà, senza alcuna soddisfazione.
3. La “necessità” della Croce è una necessità di convenienza. Perché, allora, si parla di “necessità”? Perché, una volta che Dio ha liberamente decretato di redimere l’uomo in un modo che manifestasse simultaneamente e al massimo grado la sua giustizia (che richiede una riparazione per l’offesa) e il suo amore (che si dona senza misura), la via della Passione si è rivelata la più “conveniente” (convenientissimum). Non era necessaria in senso assoluto, ma era sommamente adatta al fine che Dio si era liberamente prefissato. L’affermazione per cui senza la Croce “la verità che Dio è amore sarebbe sospesa nel vuoto” si riferisce alla nostra capacità di comprendere: per la mente umana, non c’è manifestazione d’amore più potente e inequivocabile del dono totale di sé.
Possiamo formalizzare il ragionamento per evidenziare la fallacia.
Siano:
• V(x): “Dio vuole x”
• R: “La redenzione dell’umanità”
• C: “La redenzione avviene tramite la Croce”
• □: Operatore di necessità (è assolutamente necessario che…)
• ◇: Operatore di possibilità (è possibile che…)
1. L’obiezione assume che la libertà di Dio implichi che per ogni suo atto x, ◇V(x) ∧ ◇¬V(x) (Dio può volere x e può non volere x). Questo è vero per gli atti esterni a Dio.
2. L’obiezione interpreta le affermazioni teologiche come se dicessero □V(C) (è assolutamente necessario che Dio voglia la Croce).
3. Se □V(C) fosse vero, allora ¬◇¬V(C) sarebbe vero (non è possibile per Dio non volere la Croce), contraddicendo la nozione di libertà.
Il punto è che la premessa (2) è una rappresentazione errata della dottrina. La dottrina non afferma □V(C). Afferma piuttosto una necessità condizionale o ipotetica.
La struttura corretta è:
1. La volontà di redimere è contingente: ¬□V(R). È un atto libero.
2. Esistevano molteplici modi possibili per attuare R. Sia M l’insieme di tutti i modi possibili: M = {m₁, m₂, …, C, …}. La scelta di un elemento da M è libera.
3. La scelta di Dio è stata C perché C è il modo più “conveniente” (convenientissimum) per manifestare la pienezza del suo piano, che include amore, giustizia, umiltà, ecc.
4. La “necessità” entra in gioco solo dopo il decreto divino. Se chiamiamo D il decreto divino liberamente stabilito che include il piano della Redenzione attraverso la Passione, allora la necessità è espressa così: □(D → C). Ovvero: “Dato il decreto D, ne segue necessariamente la Croce”.
La necessità non risiede nell’antecedente (D), che è un atto di libera volontà, ma nella conseguenza logica tra il piano scelto e la sua attuazione. Confondere questo con una necessità assoluta è come dire che, poiché ho deciso di costruire una casa di mattoni, ero “costretto” a usare mattoni fin dall’inizio, ignorando la mia libera scelta iniziale di non costruire affatto o di costruire una casa di legno.
Pertanto, la scelta della Croce, essendo la più “conveniente” non per un bisogno di Dio ma per un beneficio dell’uomo, non è un segno di mancanza di libertà, ma l’espressione più alta della libertà divina: una libertà che non è mera indifferenza, ma una sapientissima e amorosissima auto-determinazione al bene. Un atto d’amore non è meno libero perché è il più grande possibile; al contrario, è proprio nella capacità di compiere l’atto più grande e gratuito che si manifesta la libertà più perfetta.
2. Sulla pretesa contraddizione tra onniscienza e perfezione
L’obiezione, secondo cui l’onniscienza divina, se estesa al peccato, ne comprometterebbe la perfezione, si basa su un’immagine profondamente antropomorfica e materiale della conoscenza. Essa presuppone che conoscere sia una forma di contatto, di ricezione passiva, quasi un “assorbimento” dell’oggetto conosciuto. Se un uomo conosce il dolore, è perché lo patisce; se conosce l’amarezza, è perché la gusta. In questo modello, la conoscenza è una modificazione del conoscente da parte del conosciuto. Estendere questo modello a Dio porta inevitabilmente all’assurdo: per conoscere il peccato, Dio dovrebbe “subire” l’imperfezione del peccato, esserne “macchiato”, contraddicendo così la sua assoluta perfezione.
La filosofia tomista smonta questo edificio fallace sin dalle fondamenta, mostrando che il modo di conoscere di Dio non è analogo, se non in senso molto remoto, a quello umano. La conoscenza umana è un processo che va dalla potenza all’atto; il nostro intelletto, inizialmente una tabula rasa, viene informato e attualizzato dalle specie intelligibili astratte dagli oggetti sensibili. È una conoscenza recettiva e composita. La conoscenza divina, invece, è l’esatto opposto. Dio è Atto Puro (actus purus), senza alcuna mescolanza di potenza. La sua conoscenza non è un ricevere, ma un creare; non è una modificazione subita, ma è identica al suo stesso essere, che è la causa esemplare di tutto ciò che esiste. San Tommaso è adamantino su questo punto: Dio conosce perfettamente sé stesso, e nel conoscere la propria essenza come causa prima di ogni ente, conosce tutte le cose che da Lui procedono, passate, presenti e future, reali e possibili. Le cose non sono la misura della scienza divina, ma è la scienza divina ad essere la misura delle cose.
Come si applica questo alla conoscenza del male e del peccato? Il male non è un essere, una sostanza o una natura positiva che Dio dovrebbe “contenere” per conoscere. Il male, metafisicamente inteso, è una privatio boni debiti, cioè l’assenza di un bene che dovrebbe esserci. La cecità non è un’entità, ma l’assenza della vista in un soggetto che per natura dovrebbe possederla. Analogamente, il peccato è la privazione dell’ordine morale dovuto in un atto libero della volontà. Dio, dunque, non conosce il male accogliendolo in sé, ma lo conosce in modo eminentissimo attraverso la conoscenza del bene di cui il male è negazione e privazione. Come la luce, nel suo stesso atto di illuminare, rivela e definisce i contorni dell’ombra, così Dio, essendo il Bene Sussistente e la Norma di ogni rettitudine, conosce ogni deviazione e disordine proprio in virtù della sua perfetta conoscenza dell’ordine e della rettitudine. Conosce la menzogna perché Egli è la Verità, conosce l’ingiustizia perché Egli è la Giustizia.
Possiamo formalizzare la fallacia dell’obiettore:
Siano:
• K_d(x): Dio conosce x.
• P(y): y è perfetto.
• S: un atto di peccato.
• y ∈ z: la proprietà y inerisce al soggetto z.
L’argomentazione implicita dell’obiettore è:
1. K_d(S) (Premessa: Dio conosce il peccato).
2. ∀x (K_d(x) → x ∈ Dio) (Premessa errata: Conoscere qualcosa implica averlo in sé).
3. S ∈ Dio (Conclusione da 1 e 2).
4. ¬P(S) (Premessa: Il peccato è imperfezione).
5. ∃y (y ∈ Dio ∧ ¬P(y)) (Da 3 e 4: Esiste qualcosa in Dio che è imperfetto).
6. ¬P(Dio) (Conclusione: Dio non è perfetto).
La critica tomista dimostra l’invalidità di questo ragionamento attaccando la premessa (2). Essa è falsa perché descrive il modo di conoscere umano e lo applica illegittimamente a Dio. Per Dio, conoscere x non implica che x inerisca alla sua essenza. Piuttosto, K_d(x) perché la sua essenza E_d è la causa esemplare del bene di cui x (se cattivo) è una privazione. La sua volontà, inoltre, non approva tale privazione. Quindi, Dio conosce perfettamente la natura dell’atto del peccatore, ma la sua volontà divina aborre la malizia di quell’atto, che risiede unicamente nella volontà deficiente della creatura.
Riguardo alla seconda implicazione, secondo cui Dio avrebbe “bisogno” dell’incarnazione per conoscere l’esperienza umana, l’errore è altrettanto manifesto. Esso confonde il contenuto della conoscenza con il modo di conoscere. Nella sua essenza divina, il Verbo conosceva ab aeterno e in modo perfetto e sovraeminente la natura umana e ogni sua possibile esperienza, inclusa la sofferenza. L’incarnazione non è stata un’operazione gnoseologica per colmare una lacuna nella sua onniscienza. È stata un’operazione soteriologica. Assumendo una vera natura umana, la Persona del Verbo non ha “imparato” qualcosa che prima ignorava, ma ha iniziato a conoscere le stesse cose in un modo nuovo: un modo umano, esperienziale, attraverso una sensibilità e un intelletto umani. Sarebbe stata un’umanità fittizia (la vecchia eresia del docetismo) quella che non avesse avuto le operazioni proprie dell’uomo, tra cui il conoscere discorsivo e sensibile. Pertanto, l’incarnazione non aggiunge nulla alla perfezione della scienza divina, ma aggiunge alla Persona del Verbo un secondo e autentico modo di conoscere, quello umano, attraverso il quale Egli ha potuto patire e meritare per noi in una maniera a noi comprensibile e con cui possiamo solidarizzare. La contraddizione, dunque, non sussiste, ma svanisce non appena si smette di pensare a Dio come a un soggetto conoscente magnificato sul modello umano e si inizia a pensarlo, con rigore metafisico, come l’Essere stesso, la cui conoscenza è identica al suo atto creatore.
3. Sulla pretesa contraddizione nella morte espiatrice di Gesù
L’obiezione sulla sproporzione tra la morte temporale di Cristo e la morte eterna meritata dal peccato umano imposta il problema in termini quantitativi, quasi contabili, misurando il valore di un atto sulla sua durata. La filosofia e la teologia tomista ci invitano a spostare lo sguardo dal “quanto” al “chi”. Il valore di un’azione morale, e in particolare di un’azione di riparazione o “soddisfazione”, non si misura dalla sua estensione nel tempo, ma dalla dignità del soggetto che la compie e dall’intensità della carità che la anima. La gravità di un’offesa, insegna la retta ragione, si commisura non solo all’atto in sé, ma anche e soprattutto alla dignità di colui che viene offeso. Un’ingiuria rivolta a un privato cittadino è grave; la stessa ingiuria rivolta a un capo di stato, in quanto rappresentante di un’intera nazione, acquisisce una gravità di ordine superiore. Il peccato, essendo un’offesa a Dio, la cui dignità è infinita, contrae una gravità, per così dire, infinita. Di conseguenza, nessuna azione proveniente da una creatura finita, la cui dignità è per definizione finita, potrebbe mai offrire una soddisfazione proporzionata, o “condigna”. Ecco la vera, invalicabile sproporzione.
È qui che interviene la logica dell’incarnazione. La passione di cristo, pur essendo un evento che si consuma nel tempo e nello spazio, e quindi materialmente finito, è l’atto di un soggetto la cui dignità è infinita, in quanto è la persona stessa del Verbo. Se formalizziamo il principio secondo cui il valore di un atto di soddisfazione V(A) è proporzionale alla dignità della persona che lo pone D(P), abbiamo V(A) ∝ D(P). Poiché in cristo la dignità della persona, D(P_Verbo), è infinita, il valore del suo sacrificio, V(Passione), è anch’esso infinito, e quindi non solo sufficiente a coprire il debito del peccato, ma sovrabbondante. La soluzione non risiede in un’impossibile “morte eterna” del redentore, ma nell’infinita dignità di colui che muore di una morte temporale.
Questo ci conduce al cuore della questione: chi è colui che muore? L’alternativa posta dall’obiettore — “o Dio o un uomo” — è una falsa dicotomia che presuppone ciò che si dovrebbe dimostrare, ovvero che la persona di cristo sia o esclusivamente divina o esclusivamente umana. La dottrina cattolica, definita a Calcedonia e spiegata metafisicamente da san Tommaso, afferma invece la realtà dell’unione ipostatica: una sola persona divina che sussiste in due nature complete, una divina e una umana. Le azioni e le passioni, come insegna la filosofia, si attribuiscono alla persona (actiones sunt suppositorum). Non è la “natura” a camminare o a soffrire, ma la “persona” che cammina o soffre attraverso la sua natura. Di conseguenza, sulla croce, colui che muore è la persona del Verbo. La morte, tuttavia, essendo la separazione dell’anima dal corpo, è un evento che per sua stessa definizione può affliggere solo una natura umana, non quella divina che è impassibile e immortale.
La logica della falsa dicotomia M(dio) ∨ M(uomo) si dissolve introducendo la distinzione tra il soggetto e la natura in cui l’evento accade. La proposizione corretta non è una disgiunzione semplice, ma un’attribuzione complessa: la persona divina (P_div) subisce la morte (M) nella sua natura umana (N_hum). Questo principio, noto come communicatio idiomatum (comunicazione delle proprietà), permette di predicare della persona ciò che è proprio di una delle sue nature. È per questo che è teologicamente corretto e rigoroso affermare che “Dio è morto”, intendendo che la persona che è Dio ha patito la morte secondo la sua umanità, così come è corretto affermare che “quell’uomo è Dio”, intendendo che quella persona con natura umana è Dio. La divinità non ne risulta “mutilata” perché la morte non tocca la natura divina, ma solo quella umana assunta dalla persona divina.
Infine, l’obiezione più sottile, secondo cui questa stessa dignità divina renderebbe cristo “non completamente uomo”, commette un errore categoriale, confondendo la persona con la natura. La dignità infinita non è un “additivo” che modifica l’essenza della natura umana, ma è la proprietà della persona che possiede quella natura. Una natura umana è completa quando ha un corpo mortale e un’anima razionale. Cristo possiede tutto questo. In un uomo comune, questa natura umana è il fondamento di una persona umana creata. In cristo, e qui sta il mistero e il privilegio, la natura umana è assunta direttamente dalla persona divina del Verbo, che ne diventa il soggetto sussistente. L’obiezione formalmente erra quando deduce da Dignitas(Persona(C)) una alterazione della Natura_hum(C). Non segue affatto. Anziché diminuire l’umanità, l’unione ipostatica la eleva al suo vertice assoluto, facendola sussistere nell’essere stesso di Dio. L’umanità di cristo non è un’umanità deficitaria, ma l’esemplare perfetto dell’umanità, lo strumento unito sostanzialmente al suo artefice.
In conclusione, le presunte “gigantesche contraddizioni” si rivelano essere il frutto di una mancata applicazione delle corrette distinzioni metafisiche. La logica della redenzione non è illogica, ma “iper-logica”, basata su una realtà, quella dell’unione ipostatica, che trascende le nostre categorie ordinarie senza però contraddirle. Essa richiede una ragione umile, capace di riconoscere che la composizione di finito e infinito, di umano e divino in un’unica persona non è un assurdo da rigettare, ma un mistero da contemplare.
La ringrazio, professore: magistrale! I suoi contributi sono sempre preziosi.
Complimenti Adriano, con il tuo commento hai dato una bella batosta a Sapiens Sapiens. Sono molto contento perché Sapiens Sapiens ha rifiutato più volte le mie richieste di un dibattito/confronto con lui. Gli piace sparare ad alzo zero sul cristianesimo senza offrire la possibilità di un contraddittorio
buongiorno Adriano. Riguardo alla risposta al video di sapiens sapiens ci sono alcune cose che non mi tornano su cui sarei lieto di ricevere un approfondimento.
per il punto 1: il problema non è proprio nelle premesse? Dal discorso mi sembra di capire che si dia per scontato che dio sia atto puro, la sua essenza sia il suo stesso esistere, il suo amore per l’infinita bontà sia intrinseco. Ma il punto non è proprio capire come possa dio avere queste caratteristiche pur scegliendo un modo così violento di redenzione? Come può un essere intrinsecamente e perfettamente buono decretare conveniente un atto che preveda sofferenza? E la decisione di redimere è veramente libera per un essere definito eternamente buono? Formalmente, sia A: “un essere è buono se evita la sofferenza in ogni modo possibile” e B: “il modo scelto prevede sofferenza evitabile” allora sia (A)&(B) -> C: “l’essere non è buono”.
per il punto 2: se occorre una visione non antropomorfica e materiale della conoscenza per capire dio, gli umani, in quanto antropomorfi e materiali, come possono dire qualsiasi cosa di così diverso dalla loro natura? anche qua mi sembra che si parta da una premessa non dimostrata: dio è perfetto e se subisse il peccato sarebbe in contraddizione la sua perfezione. Ma non è esattamente il punto da dimostrare? Formalmente, sia A: “occorre una visione non antropomorfica per conoscere dio” e B: “l’uomo ha una visione antropomorfica” allora sia (A)&(B) -> C: “l’uomo non può conoscere dio”.
per il punto 3: se dio è inconoscibile, come è possibile definire l’infinita dignità della sua persona?
Rispondo in modo rapido perché al momento sono preso da altri impegni più urgenti.
Riguardo alla tua prima obiezione sulla bontà divina e la scelta di una redenzione che implica la sofferenza, il problema risiede in un presupposto. Tu applichi a Dio una nozione di “bontà” di tipo morale e univoco, come se il bene per Dio consistesse, allo stesso modo che per una creatura, nell’evitare ogni sofferenza. Questa posizione si fonda su una confusione tra il bene ontologico e il bene morale. Ho dedicato al tema il mio volume “Il Dio incolpevole”, al quale ti rimando per un’analisi completa. Dopo averlo letto, magari potrai comprendere perché la tua formalizzazione (A)&(B) -> C non è stringente: la sua premessa A: “un essere è buono se evita la sofferenza in ogni modo possibile” definisce una bontà che non è applicabile a un essere la cui azione è ordinata a un bene che trascende la semplice assenza di dolore creaturale.
La tua seconda obiezione, che dalla necessità di una visione non antropomorfica per conoscere Dio e dalla natura antropomorfica dell’uomo conclude all’impossibilità di conoscerlo, si basa su una premessa imprecisa. La proposizione B: “l’uomo ha una visione antropomorfica” è vera solo se intesa come punto di partenza, non come un limite invalicabile. L’uomo non è prigioniero della sua prospettiva materiale. Il suo intelletto possiede la capacità di trascenderla attraverso il metodo dell’analogia. Il nostro discorso su Dio non è né univoco (come se “buono” significasse la stessa cosa per Dio e per l’uomo, cadendo nell’antropomorfismo) né equivoco (come se non ci fosse alcuna relazione di significato, cadendo nell’agnosticismo). Esso procede per una triplice via: prima, per causalità, attribuiamo a Dio le perfezioni che vediamo nel mondo (bontà, sapienza), in quanto ne è la causa; poi, per negazione, neghiamo il modo finito, imperfetto e creaturale con cui tali perfezioni si trovano in noi; infine, per eminenza, le affermiamo in lui in un modo infinito, semplice e identico al suo stesso essere. Dunque, la nostra conoscenza di Dio non è puramente antropomorfica, ma è una conoscenza de-antropomorfizzata tramite un rigoroso processo intellettuale. Il tuo sillogismo fallisce perché la sua seconda premessa è sostanzialmente falsa.
Questo chiarisce anche la tua terza domanda. Tu chiedi come sia possibile definire l’infinita dignità di Dio se egli è inconoscibile. La risposta è che egli non è assolutamente inconoscibile. La sua essenza rimane a noi inaccessibile in modo diretto ed esaustivo, non conosciamo “che cosa” sia, ma possiamo conoscere “che” è e molte cose su “ciò che non è”. L’attributo dell’ “infinita dignità” non è una definizione diretta, ma una conclusione necessaria a cui la ragione perviene proprio attraverso il metodo analogico. Partendo dalle dignità finite e parziali che osserviamo nel creato, l’intelletto risale alla Causa prima. Di questa Causa nega ogni limite e imperfezione: la sua dignità non può essere finita, composta o ricevuta da altro. Rimosso ogni limite, la ragione è costretta ad affermare tale dignità in modo assoluto e quindi infinito, in quanto non distinta dal suo stesso essere. Non si tratta di “definire” nel senso di comprendere, ma di dedurre una proprietà che necessariamente compete all’Essere per sé.
Innanzitutto grazie per la risposta. Da parte mia questi discorsi sono talmente importanti che possono aspettare il decorso di qualsiasi impegno. Se per ottenere una risposta verso la verità il prezzo da pagare è il tempo, ben venga. Vorrà dire che avrò più tempo per pensare.
Per il primo punto: se stessimo parlando di un essere non onnipotente potremmo tranquillamente pensare a un bene superiore. È quando Dio può tutto senza sforzo che decade il concetto e la possibilità di pensare a un obiettivo che possa trascendere il dolore creaturale. Credo che si possa riassumere così: se chiedessi a un essere umano, dotato di sufficiente empatia: “elimineresti il dolore dalla faccia della terra, se potessi farlo senza nessuna conseguenza?” quello risponderebbe: “sì, certamente”. Se rispondesse “non mi interessa” o “non è importante” io non lo riterrei buono. In poche parole: a Dio, in quanto essere superiore all’uomo e certamente in grado di empatizzare con esso, dovrebbe bastare il fatto che all’umanità stia a cuore il tema della sofferenza perché diventi una richiesta abbastanza importante da prenderla in considerazione ed esaudirla. Per questo decade anche il tentativo di ridefinire il concetto di bontà.
Per il secondo punto: credo di essermi espresso male, per cui riformulo: ogni tentativo di descrivere Dio, che sia dal punto di vista materiale o trascendentale, rimane “umano”. Tutte le volte che attribuiamo caratteristiche a Dio lo facciamo, per forza di cose, dalla nostra prospettiva. Non può essere altrimenti. Se definiamo la bontà come un insieme di azioni o di qualità che un individuo deve compiere o avere per essere considerato buono, ogni entità o è fuori o è dentro a quell’insieme. Se invece creiamo due insiemi “bontà per le divinità” e “bontà per gli esseri umani” allora, per nostra natura, non possiamo dire nulla sulle qualità del primo. In questo senso dire “Dio è buono” equivale a dire “Dio è malvagio”: entrambi sono un giudizio umano verso un set di regole che non possiamo permetterci di definire.
Per il terzo punto: non mi è chiaro come l’intelletto sia una qualità necessaria alla Causa prima. Tante cose vengono causate da eventi privi di intelletto. Se il vento spostasse le dune di un deserto potremmo dire che il vento gode di una dignità? Come definiamo che il Dio abramitico sia la Causa prima? Se ho capito bene, quando si parla di osservazione del creato per definire la necessità di un intelletto creatore, si sta commettendo la fallacia dell’orologiaio: se un’opera complessa ha bisogno di un creatore, allora anche Dio, in quanto complesso, ne necessita uno. O meglio: non possiamo affermare che il Dio abramitico in quanto creatore sia la Causa prima.
La tua prima argomentazione sulla sofferenza, per quanto umanamente comprensibile, si fonda su un equivoco fondamentale e persistente: quello che confonde il bene morale, proprio dell’agire di una creatura razionale e finita, con il bene ontologico, che pertiene all’essere in quanto tale e che, in modo sommo, si identifica con Dio. È necessario insistere con forza su questo punto: Dio non è “moralmente” buono. Attribuirgli la bontà morale, così come la concepiamo e la sperimentiamo, non è un modo per onorarlo, ma per diminuirlo, rinchiudendolo in una categoria creaturale che non gli appartiene e che ne deforma la natura.
Quando affermi che un uomo buono eliminerebbe il dolore se potesse, stai descrivendo un atto di virtù morale. La virtù morale, per un essere umano, è un habitus, una disposizione stabile ad agire secondo la retta ragione. Essa implica una scelta, una deliberazione tra diverse possibilità, un allineamento della propria volontà a una norma (la legge naturale, la legge divina) che guida l’agente verso il suo fine proprio. L’atto moralmente buono è l’atto di un soggetto in movimento, un essere in potenza che si attualizza, che sceglie di conformarsi a un bene che deve realizzare. Tutta la dinamica della moralità umana si svolge in questo spazio tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere.
Ora, applicare questo schema a Dio è metafisicamente impossibile. Dio non è un agente morale all’interno di un ordine, ma è la fonte stessa di ogni ordine. Non si conforma a una legge di bontà, perché Egli è la Legge e la Bontà sussistente. Egli Atto Puro (Actus Purus), privo di qualsiasi potenzialità. La sua Volontà non è una facoltà che si muove verso un bene da conseguire, ma è un unico, eterno e semplicissimo atto con cui vuole sé stesso, e volendo sé stesso, liberamente vuole tutto ciò che da Lui procede. Pertanto, la bontà di Dio non è una qualità morale che si aggiunge alla sua essenza, un aggettivo che lo qualifica; la sua bontà è la sua stessa essenza. Come insegna Tommaso d’Aquino, «Dio è l’essenza della bontà» (Deus est essentia bonitatis), non semplicemente un ente che “possiede” la bontà o che “agisce” in modo buono. Egli è il Bene per essenza (Bonum per essentiam), mentre le creature sono buone per partecipazione.
L’errore sta nel proiettare su Dio le nostre categorie. La tua richiesta di “empatia” ne è l’esempio più lampante. L’empatia è una passione (passio), un patire-insieme che presuppone la capacità di essere affetti, modificati da qualcosa di esterno. Implica una recettività, una passività che è la negazione stessa della natura divina, che è pura attività, impassibile e immutabile. Dio non “sente” la nostra sofferenza come noi sentiamo la nostra o quella altrui; Egli la conosce in modo perfetto, non per via di passione, ma nella sua stessa essenza, in quanto Causa prima di tutto ciò che è. Il suo “amore” non è una passione, ma un atto di volontà efficace (amor benevolentiae), un volere il bene per la creatura che la crea e la sostiene nell’essere.
Da questa prospettiva, la permissione del male assume un significato diverso. Non è il fallimento morale di un Dio che non interviene, ma rientra nell’ordine di un universo che la sua Sapienza ha voluto per manifestare la sua gloria. La gloria di Dio non è una vanità, ma è la diffusione del suo essere e della sua bontà. Un universo che contiene una gerarchia di enti, alcuni dei quali sono corruttibili, fallibili e dotati di libero arbitrio, è un universo più ricco e più perfetto di un mondo di automi impeccabili. La permissione del male fisico (il dolore) è intrinsecamente legata alla natura di un mondo materiale e corruttibile. La permissione del male morale (il peccato) è la conseguenza della creazione di esseri liberi. Come afferma l’Aquinate, «la provvidenza divina non elimina del tutto il male dal mondo, per non eliminare con esso una grande quantità di beni». La fortezza di fronte al dolore, la pazienza nella malattia, la giustizia che punisce il reato, la misericordia che perdona il peccatore: tutti questi beni non potrebbero esistere in un universo privo della possibilità del male. Dio non “causa” il male, che è una privazione d’essere, ma lo permette in vista di beni che altrimenti non potrebbero realizzarsi all’interno dell’ordine creato. La sua Volontà non è diretta all’assenza di sofferenza per una parte, ma al bene totale e armonico del tutto. La tua richiesta, in fondo, non è quella di un Dio più “buono” secondo i nostri schemi, ma di un universo diverso, più semplice, più povero, e in definitiva meno perfetto, perché meno capace di manifestare la ricchezza e la multiforme sapienza del suo Creatore.
La tua seconda osservazione, riguardo all’umanità dei nostri concetti su Dio, come già detto nel mio precedente commento, coglie una verità innegabile e fondamentale: ogni nostra affermazione su Dio parte inevitabilmente dalla nostra esperienza creaturale e si esprime con un linguaggio umano, forgiato per descrivere un mondo di enti finiti, composti e mutevoli. Riconoscere questo punto di partenza è un atto di onestà intellettuale. Tuttavia, come ho già anche questo scritto nel precedente commento, la conclusione che ne trai, ovvero che dire “Dio è buono” equivalga a dire “Dio è malvagio”, è fallace. Essa nasce da una concezione troppo angusta delle possibilità del linguaggio e ignora, ancora una volta, la via maestra della dottrina dell’analogia, senza la quale ogni discorso su Dio precipita in un silenzio agnostico o in un rozzo antropomorfismo.
Il tuo errore consiste nel porre un falso dilemma tra due sole possibilità: l’univocità e l’equivocità. Se i nostri concetti, come “buono”, si applicassero a Dio in modo univoco, cioè con lo stesso identico significato che hanno per le creature, allora sì, lo rinchiuderemmo nei nostri schemi finiti. Diremmo che Dio è “buono” come un uomo virtuoso è buono, facendone un “agente morale” su scala cosmica, un ente che possiede la bontà come una qualità, che agisce per conformarsi a una norma, che delibera e sceglie. Questo non solo è incompatibile con la natura di Dio come Atto Puro e assolutamente semplice, ma lo ridurrebbe a un idolo, a un ente tra gli enti, per quanto il più grande. Se, d’altra parte, i nostri concetti si applicassero a Dio in modo equivoco, cioè con un significato totalmente diverso e slegato da quello che hanno per noi, allora ogni discorso su di Lui sarebbe privo di senso. L’affermazione “Dio è buono” non comunicherebbe più alcuna informazione, diventerebbe un suono vuoto, esattamente come sostieni.
La via tomista, però, è la via analogiae, la via media che salva la possibilità di un discorso significativo su Dio senza comprometterne la trascendenza. Il fondamento di questa via risiede nel principio di causalità: noi conosciamo Dio non direttamente nella sua essenza, ma come Causa Prima a partire dai suoi effetti, ovvero dalle creature. Poiché ogni agente produce qualcosa che, in qualche modo, gli assomiglia (omne agens agit sibi simile), nelle perfezioni pure delle creature (quelle perfezioni, come l’essere, la bontà, la vita, l’intelligenza, che non implicano di per sé limitazione o imperfezione) noi possiamo scorgere, come in uno specchio opaco, un riflesso della perfezione della Causa. Le creature non possiedono queste perfezioni in modo autonomo, ma vi partecipano, le ricevono da Colui che non semplicemente ha queste perfezioni, ma è queste perfezioni.
Questo procedimento conoscitivo si articola in tre momenti inseparabili, la cosiddetta triplex via.
In primo luogo, la via della causalità (via causalitatis). Poiché vediamo nel mondo l’esistenza, la vita, l’intelligenza e la bontà come perfezioni reali, e poiché Dio è la Causa Prima di tutto ciò che esiste, dobbiamo affermare che tali perfezioni si trovano in Lui in modo originario. Se non fossero nella Causa, non potrebbero trovarsi negli effetti. Partiamo quindi affermando: “Dio è buono”.
Segue immediatamente la via della negazione (via negationis o remotionis). Questo è il momento critico in cui purifichiamo il nostro concetto da ogni scoria creaturale. Affermiamo “Dio è buono”, ma subito neghiamo che Egli lo sia nel modo limitato, imperfetto e composto in cui lo sono le creature. La sua bontà non è una qualità acquisita, non è una virtù morale che si oppone a un vizio, non è un sentimento passeggero, non è una proprietà distinta dalla sua essenza . Dio non è buono come Socrate è buono. Con questo passaggio, si recide alla radice ogni antropomorfismo.
Infine, la via dell’eminenza (via eminentiae). Dopo aver negato il modo creaturale della perfezione, la riaffermiamo in Dio in un grado sommo, preminente e, in ultima analisi, incomprensibile. Dio non solo è buono, ma è la Bontà stessa sussistente, il Sommo Bene (Summum Bonum). La sua bontà non è semplicemente la più alta su una scala di valori, ma è la fonte e la misura di ogni bontà creata, posseduta in un modo infinitamente superiore e unitario nella sua essenza semplice .
Alla luce di ciò, la tua equiparazione crolla. Dire “Dio è buono” è un’affermazione densa di significato metafisico: significa che Dio è la Causa fontale di ogni perfezione e di ogni bene riscontrabile nel creato (via causalitatis); che in Lui non c’è alcuna mescolanza di male, imperfezione o privazione, e che la sua bontà non è una virtù finita come la nostra (via negationis); e che Egli trascende infinitamente ogni nostra concezione di essa, essendo Egli stesso la Bontà per essenza (via eminentiae).
Al contrario, dire “Dio è malvagio” è una contraddizione in termini, un’impossibilità logica e ontologica. Come insegna la tradizione agostiniana e tomista, il male non è un ente, non è una sostanza positiva, ma è una privazione di essere, una mancanza di un bene dovuto (privatio boni debiti) . La cecità è la mancanza della vista, la malattia è la mancanza della salute, il peccato è la mancanza del retto ordine nella volontà. Il male è un parassita che esiste solo corrompendo un bene preesistente . Ora, Dio è definito dal teismo classico come l’Essere Sussistente per Se Stesso (Ipsum Esse Subsistens), l’Atto Puro, la pienezza assoluta di essere e di perfezione . In Colui che è la pienezza dell’essere, non può esserci, per definizione, alcuna mancanza, alcuna privazione, alcun “buco” ontologico. Affermare che Dio è malvagio equivarrebbe a dire che la Pienezza d’Essere è una mancanza d’essere, che l’Atto Puro è privazione. È un’affermazione autocontraddittoria, un nonsenso metafisico.
Pertanto, l’affermazione “Dio è buono” è l’unica coerente, un’attribuzione vera sebbene analogica, mentre “Dio è malvagio” è una proposizione falsa e logicamente impossibile. Le due non sono affatto equivalenti.
La tua obiezione circa la necessità di un intelletto nella Causa Prima e la presunta complessità di Dio merita una disamina approfondita, poiché tocca il cuore della teologia naturale e rivela alcuni fraintendimenti comuni, ma radicali, della metafisica classica.
L’affermazione che la Causa Prima debba essere intelligente non si fonda, come correttamente intuisci nel criticare la fallacia dell’orologiaio, su una semplice analogia tra un manufatto e l’universo. L’argomento dell’orologiaio di Paley è un’inferenza induttiva basata sulla somiglianza: come un orologio complesso implica un orologiaio, così un universo complesso implica un Progettista cosmico. L’argomento tomista, espresso nella Quinta Via (ex gubernatione rerum), è di natura completamente diversa: è una deduzione metafisica che non parte dalla complessità, ma dalla finalità, ovvero dall’osservazione che gli enti naturali agiscono costantemente per un fine.
Si osserva che gli esseri privi di conoscenza – un atomo, una pianta, un pianeta – agiscono non a caso, ma secondo schemi regolari e tendono a un risultato determinato, ottimale per la loro natura e per l’ordine complessivo. Un seme di quercia si sviluppa sempre in una quercia, mai in un pino o in un pesce; i pianeti seguono orbite prevedibili; i processi biologici di un organismo operano in modo coordinato per il fine della sopravvivenza e della riproduzione di quell’organismo. Questa tendenza intrinseca verso un fine (telos) è ciò che esige una spiegazione (il fatto che un elettrone in prossimità di un altro elettrone tenda a respingerlo invece che ad attrarlo è una regolarità che necessita di una spiegazione… e non è sufficiente dire che ciò accade perché questa è la “natura” dell’elettrone, perché questa risposta sposta solo il problema un po’ più in là). Un ente privo di intelligenza non può auto-dirigersi verso un fine futuro. Come afferma Tommaso d’Aquino, «ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non è diretto da un essere che ha conoscenza e intelligenza, come la freccia è diretta dall’arciere».
L’analogia della freccia è fondamental: la freccia, un oggetto inanimato, non ha in sé la conoscenza del bersaglio né la capacità di dirigervisi. Il suo volo mirato è prova inconfutabile che è stata scoccata da un intelletto, quello dell’arciere, che ha impresso in essa una direzione. Allo stesso modo, l’intero universo fisico è come una freccia in volo. Ogni sua parte, priva di intelligenza propria, si muove e agisce secondo leggi precise e ordinate verso fini determinati. Il tuo esempio del vento che sposta le dune è pertinente, ma incompleto. Il punto non è che il singolo soffio di vento abbia “dignità” o intenzione, ma che esso stesso è parte di un sistema meteorologico vasto e ordinato, governato da leggi fisiche (pressione atmosferica, gradienti termici, rotazione terrestre) che operano con una regolarità e una coerenza sbalorditive. Questo intero sistema ordinato di cause non intelligenti che produce costantemente un cosmo e non un caos, manifesta un ordine che non può darsi da sé. Un insieme di cause cieche non può generare un ordine orientato a un fine. Deve esserci un’Intelligenza trascendente che, come l’arciere, dirige l’intera natura verso i suoi fini, avendo concepito l’ordine nella sua interezza.
Inoltre, la questione si lega all’intelligibilità stessa del reale. Il fatto che l’universo sia comprensibile, che la nostra mente possa scoprirne le leggi matematiche e le strutture razionali, è un dato profondo. L’universo non è solo un ammasso di fatti bruti, ma un ordine intelligibile. Ora, un principio metafisico fondamentale afferma che l’effetto non può possedere una perfezione che non si trovi, in modo eminente, nella sua causa. Se l’universo (l’effetto) possiede l’intelligibilità, la sua Causa Prima deve essere l’Intelligenza stessa. L’ordine e la razionalità impressi nel creato sono il sigillo dell’Intelletto creatore.
Quanto alla tua seconda obiezione – che un Dio complesso richiederebbe a sua volta un creatore – essa si basa su un fraintendimento radicale della nozione di Causa Prima, un errore categoriale che il teismo classico smonta attraverso la dottrina della semplicità divina . L’argomento metafisico per l’esistenza di Dio non muove dal complesso al più complesso, ma dal composto, contingente e mutevole a ciò che è assolutamente semplice, necessario e immutabile.
Ogni cosa nel nostro mondo è complessa o composta in senso metafisico. Le creature sono composte almeno di essenza (ciò che sono) ed esistenza (il fatto che sono) . La mia essenza di “uomo” non include di per sé la mia esistenza; ho ricevuto l’esistenza da una causa. Ogni ente creato è anche un composto di potenza (ciò che può diventare) e atto (ciò che è attualmente) . Il cambiamento è il passaggio dalla potenza all’atto, e richiede una causa già in atto. Qualsiasi cosa sia composta dipende dalle sue parti e da una causa che ha unito quelle parti per farlo esistere.
Dio, al contrario, non è complesso. È la semplicità assoluta (simplicitas) . Questo non significa che sia “ontologicamente povero” o “facile da capire”, ma che è privo di qualsiasi composizione metafisica.
• Non è composto di essenza ed esistenza: In Dio, e solo in Dio, l’essenza e l’esistenza sono identiche. La sua natura è esistere. Egli è l’Essere Sussistente per Se Stesso (Ipsum Esse Subsistens) . Per questo non ha bisogno di una causa che gli dia l’esistenza: Egli è il suo stesso esistere.
• Non è composto di potenza e atto: Dio è Atto Puro (Actus Purus). Non ha alcun potenziale inespresso. Non può cambiare o diventare qualcosa di diverso, perché è già la pienezza infinita dell’essere. Per questo non ha bisogno di una causa che lo attualizzi.
• Non ha parti fisiche o metafisiche: Non è composto di sostanza e accidenti (qualità aggiunte). La sua sapienza, la sua bontà, la sua potenza non sono “proprietà” che Egli possiede, ma sono identiche alla sua unica ed eterna essenza .
Un orologio è complesso perché è un assemblaggio di parti distinte. La sua esistenza dipende dall’orologiaio che ha messo insieme quelle parti. Dio non ha parti. Non può essere “assemblato” né richiedere un assemblatore. La fallacia sta nell’applicare a Dio le categorie della creaturalità. La domanda “Chi ha creato Dio?” è intrinsecamente assurda, perché presuppone che Dio sia un ente causato, composto, contingente, come le cose del mondo. Ma l’intera argomentazione metafisica dimostra che la Causa Prima, per essere tale, deve essere non causata, semplice e necessaria.
La Causa Prima non è il primo anello di una lunga catena di anelli simili. È la realtà di un ordine completamente diverso, il fondamento ontologico che sostiene l’intera catena dell’essere, senza essere parte di essa. Il Dio abramitico, una volta spogliato dalle rappresentazioni puramente immaginali e compreso attraverso le rigorose categorie metafisiche del teismo classico come Ipsum Esse Subsistens, coincide precisamente con questa nozione filosofica di Causa Prima: un Essere assolutamente semplice, la cui essenza è esistere, e la cui azione finalizzatrice nell’universo ne rivela la natura di Intelletto supremo.
E ora mi taccio e ti invito caldamente a leggere il mio volume “Il Dio incolpevole”, dove tutto viene spiegato in modo abbastanza articolato e rimando ogni mia futura risposta ad ulteriori quesiti a quanto lo avrai letto.
Capisco che ci siano concetti già espressi ma approfonditi. Ed è per quello che non penso rispondano nel merito alle mie critiche. Se Dio non è “moralmente” buono stiamo ridefinendo il concetto di bontà. Si dice “Dio è buono perchè lo è” e si procede a spiegare come la dottrina tomista lo decreti. La mia domanda verte proprio su questo: come decidiamo che Dio è atto puro? Come decidiamo che la bontà è la sua stessa essenza? Come attribuiamo a Tommaso d’Aquino l’autorità per definire queste qualità di Dio? Dire “Dio è l’essenza della bontà, ed è vero perchè lo dice Tommaso d’Acquino” significa appellarsi all’autorità, pratica fallace in filosofia.
Provo a riformulare il periodo scritto:
“Da questa prospettiva, la permissione del male assume un significato diverso. Non è il fallimento morale di un Dio che non interviene, ma rientra nell’ordine di un universo che la sua Sapienza ha voluto per manifestare la sua gloria. La gloria di Dio non è una vanità, ma è la diffusione del suo essere e della sua bontà. Un universo che contiene una gerarchia di enti, alcuni dei quali sono corruttibili, fallibili e dotati di libero arbitrio, è un universo più ricco e più perfetto di un mondo di automi impeccabili.”
Quello che mi sembra si stia sostenendo è che Dio permetta il male per manifestare la sua bontà. E questa bontà si traduce nel creare anche enti corruttibili, perchè dotati di libero arbitrio, enti che creano un universo più ricco e più perfetto di automi impeccabili (e quindi perfetti). Ecco: tutto ad un tratto stiamo mischiando un bene che non possiamo capire, perchè divino e ontologico, a una visione puramente umana. Se l’universo è più ricco per l’esistenza del libero arbitrio, e quindi del male e della sofferenza, si sta implicando che, tra una realtà fatta di solo bene e una fatta di bene e male, la seconda sia più perfetta. Ma Dio non era perfetto e quindi solo Bene? Si sta ridefinendo, quindi, anche il concetto di perfezione.
Riguardo al libero arbitrio: se Dio è onnisciente il libero arbitrio non può logicamente esistere. Se Dio conosce tutte le sue decisioni non è in grado di cambiarle.
Quello che segue è un appello alla filosofia Tomista. Come detto, la mia critica sta proprio qui, sull’autorità che gli si concede in modo aprioristico. Come si sceglie la definizione “il male è l’assenza di bene” e si scarta “il bene è l’assenza di male”? Ho apprezzato molto l’analogia della freccia che non conosce il suo bersaglio, anche se la mia conclusione è opposta: nella realtà che ci circonda osserviamo in maniera oggettiva la sofferenza. Tanto basta per negare ad un possibile creatore la qualità dell’onnibenevolenza. Faccio notare anche che la freccia potrebbe essere caduta dalla faretra, senza una reale volontà e quindi senza un intelletto causale.
Chiudo ringranziandola enormemente per il suo tempo e per le riflessioni che mi ha permesso di elaborare. Se avrò modo di leggere il suo volume, e se questo si confermasse redatto in modo tanto articolato, avrò certamente ben più su cui riflettere.
Una domanda, riguardo il concetto di peccato come “offesa” a Dio: come può Dio subire un’ offesa? Cosa può togliere l’ azione di una creatura finita alla infinita trascendenza del suo Creatore?
Non c’entra molto col tema dell’articolo dl Blog.. e dopo cinque ore di lezione sono piuttosto provato. Comunque risponderò in modo succinto. Per rispondere, è necessario abbandonare l’idea che Dio possa essere “offeso” nel modo in cui lo intendiamo noi. Essendo Atto Puro, immutabile e impassibile, Dio non può subire alcuna diminuzione, né essere turbato da alcuna passione. L’azione di una creatura non può togliergli o aggiungergli assolutamente nulla. Come afferma San Tommaso d’Aquino, il peccatore con il suo peccato non può recare a Dio alcun danno, ma nuoce solo a se stesso. In che senso, allora, il peccato è un'”offesa” a Dio? La questione va compresa non dal lato di Dio, che non subisce alcun detrimento, ma dal lato del peccatore e dell’ordine universale. Il peccato non è un’azione che ferisce Dio nella sua essenza, ma un atto che viola l’ordine della giustizia da Lui stabilito. Dio, in quanto Sapienza infinita, ha disposto ogni cosa secondo un ordine razionale finalizzato al bene. Il peccato è un atto umano che si discosta volontariamente da quest’ordine, un allontanamento dal fine ultimo per aderire in modo disordinato a un bene creato. L’offesa, quindi, non è una lesione inflitta a Dio, ma un disprezzo della sua legge e della sua sapienza ordinatrice. Ciò che viene leso dal peccato è la creatura stessa e l’ordine della creazione. L’uomo, agendo contro la ragione e la legge divina, agisce contro il proprio bene, privandosi della grazia e deviando dal suo fine ultimo, la beatitudine. Corrompe la propria natura sottomettendola a beni inferiori. L’azione di una creatura finita, quindi, non toglie nulla all’infinita trascendenza del Creatore, ma toglie qualcosa alla perfezione e all’ordine della creatura stessa. Anche il concetto di “pena” non va inteso come una vendetta, che sarebbe una passione indegna di Dio. La pena è la conseguenza intrinseca del disordine introdotto dal peccato e serve a ristabilire l’ordine della giustizia violato. Chi, peccando, antepone la propria volontà alla legge di Dio, viene ricondotto all’ordine della giustizia per mezzo della pena, anche contro la sua volontà. La giustizia divina non si manifesta nel “risentimento” di Dio, ma nel fatto che l’ordine, se violato, si ristabilisce necessariamente, o tramite il pentimento o tramite la sottomissione involontaria alla conseguenza dell’atto.