“La scommessa di Costantino”. Analisi critica di una svolta epocale

  • Autori: Gian Guido Vecchi e Giovanni Maria Vian
  • Editore: Mondadori Libri S.p.A., Milano
  • Anno di pubblicazione: 2025
  • ISBN (ebook): 9788835741688

Per una corretta analisi critica, è indispensabile inquadrare l’opera nel suo contesto autoriale e storiografico. Il volume nasce dalla sinergia di due competenze distinte e complementari: da un lato, Gian Guido Vecchi, vaticanista di lungo corso del «Corriere della Sera», la cui penna garantisce chiarezza espositiva e una spiccata sensibilità per le dinamiche di potere e comunicazione; dall’altro, Giovanni Maria Vian, accademico e professore ordinario di filologia patristica, la cui erudizione assicura il rigore filologico e la profondità dell’analisi storica. Questa duplice paternità costituisce la chiave interpretativa del libro, che riesce a mediare tra la ricerca specialistica – rappresentata da figure monumentali come Manlio Simonetti per la crisi ariana , o Arnaldo Marcone e Alessandro Barbero per la figura di Costantino – e le esigenze di un pubblico colto ma non necessariamente specialista.

In questo senso, La scommessa di Costantino si propone come una narrazione correttiva, un intervento mirato nel dibattito culturale contemporaneo. Gli autori non si limitano a narrare la storia; la loro è un’operazione volta a riscattare la verità storica di Nicea da una duplice deformazione. Da un lato, combattono la percezione romanzata e complottistica diffusa da opere di fiction come Il Codice da Vinci di Dan Brown, che gli stessi Vecchi e Vian citano esplicitamente con intento critico, smentendo categoricamente l’idea che a Nicea si sia “deciso” quali vangeli includere nella Bibbia. Dall’altro, si sforzano di rendere accessibile un evento la cui complessità teologica lo ha spesso relegato ai margini della conoscenza storica comune. La struttura del libro, che procede in modo logico e pedagogico dal contesto anteniceno agli attori principali (Costantino e Ario), per poi analizzare l’evento e le sue conseguenze a lungo termine, è concepita per costruire una comprensione sistematica, smontando le semplificazioni. L’opera si configura, pertanto, come un pregevole esercizio di alta divulgazione e di storia pubblica, animato da un chiaro intento polemico ed educativo: riaffermare, con rigore ma senza tecnicismi inaccessibili, che ciò che accadde in quella piccola città dell’Asia Minore millesettecento anni fa non fu né un’invenzione arbitraria né una nota a piè di pagina della storia, ma una delle più decisive scommesse mai giocate sul tavolo del potere e della fede.

I tre secoli prima di Nicea: le radici teologiche e culturali del conflitto

Uno dei meriti principali del saggio di Vecchi e Vian risiede nella sua capacità di dimostrare come il concilio di Nicea non rappresenti una “frattura” radicale con il cristianesimo delle origini, bensì una “svolta” decisiva, un momento di formalizzazione e di riorientamento di tensioni e sviluppi già in atto da secoli. La comprensione dell’evento del 325 è impossibile senza un’analisi approfondita del mondo “anteniceno”, e il secondo capitolo del libro è dedicato proprio a questa ricostruzione, delineando le radici teologiche e culturali che resero il conflitto ariano non solo possibile, ma quasi inevitabile.

Il punto di partenza è il rapporto complesso e ambivalente con il giudaismo. Gli autori sottolineano con forza come il cristianesimo nasca quale corrente interna all’ebraismo del Secondo Tempio. Gesù, gli apostoli, gli evangelisti erano tutti ebrei. Tuttavia, il libro traccia con efficacia il processo di progressivo allontanamento da questa matrice. Un momento chiave di questa dinamica è la traduzione delle Scritture ebraiche in greco, la cosiddetta versione dei Settanta, a partire dal III secolo a.C. Questa non fu una semplice operazione linguistica, ma una vera e propria trasposizione culturale che, se da un lato rese il messaggio biblico accessibile all’universo mentale ellenistico, dall’altro iniziò a distanziarlo dal suo contesto semitico originario. È su questo terreno ellenizzato che il cristianesimo si diffonderà, utilizzando il greco come lingua franca e assorbendone le categorie concettuali.

Parallelamente, il libro offre una sintesi chiara delle prime riflessioni cristologiche, che costituiscono il retroterra immediato della crisi ariana. Lungi dall’essere speculazioni astratte, queste dispute rappresentavano tentativi vitali di articolare la fede nella divinità di Cristo all’interno del rigoroso quadro monoteista ereditato dal giudaismo. Si esplorano così la teologia del Logos, che vedeva in Cristo la Parola divina preesistente mediatrice della creazione, e le reazioni “monarchiane”, che per salvaguardare l’unicità (la “monarchia”) di Dio rischiavano di ridurre il Figlio a una semplice modalità del Padre (modalismo) o di negarne la divinità originaria (adozionismo). La trattazione di episodi come la “questione dei due Dionigi” nel III secolo mostra come il dibattito sul rapporto tra la “sostanza” (ousía) del Padre e quella del Figlio fosse già acceso ben prima di Ario.

Da questa ricostruzione emerge una comprensione più profonda delle cause della crisi nicena. Essa appare come il prodotto inevitabile di due caratteristiche fondamentali del cristianesimo primitivo. La prima è la sua natura di “religione del libro”, o più precisamente, di una fede fondata sull’interpretazione di un testo sacro. Come il libro evidenzia nella sezione dedicata al “problema del testo biblico”, le Scritture potevano essere, e di fatto furono, utilizzate per sostenere tesi diametralmente opposte. Ario e Alessandro brandivano entrambi versetti biblici a sostegno delle proprie posizioni, dimostrando che il problema non risiedeva tanto nel testo in sé, quanto nella sua intrinseca apertura ermeneutica. La seconda caratteristica è l’incontro-scontro con il pensiero greco. L’ellenismo non si limitò a fornire una lingua veicolare; impose un nuovo paradigma intellettuale, una richiesta di rigore logico e di precisione definitoria estranea alla mentalità semitica. La filosofia greca, con il suo apparato concettuale (termini come ousía, hypostasis), non tollerava il paradosso e l’ambiguità con la stessa disinvoltura della narrazione biblica; esigeva definizioni chiare, logicamente coerenti e universalmente valide. La crisi ariana, come descritta da Vecchi e Vian, esplode precisamente all’intersezione di questi due mondi: Ario applica una logica filosofica stringente (un Dio ingenerato non può generare un altro essere che sia ugualmente ingenerato e coeterno) a un corpus di testi sacri, mentre i suoi avversari tentano di difendere il mistero della fede. Il concilio di Nicea, dunque, non fu la soluzione a una disputa accidentale, ma la formalizzazione di un metodo radicalmente nuovo per risolvere le controversie: l’impiego di un vocabolario filosofico extra-biblico per “blindare” l’interpretazione del testo sacro e stabilire un’ortodossia vincolante. La scommessa di Costantino fu, in ultima analisi, quella di appoggiare questo nuovo metodo per raggiungere il suo obiettivo primario: l’unità.

Costantino e l’azzardo imperiale: intersezione tra potere e fede

La figura di Costantino domina l’opera di Vecchi e Vian, che ne offrono un ritratto sfaccettato e storicamente plausibile, lontano tanto dall’agiografia del santo della tradizione bizantina quanto dalla caricatura del cinico manipolatore. Citando l’influente giudizio dello storico Santo Mazzarino, gli autori lo definiscono “l’uomo politico più rivoluzionario” della storia d’Europa, una definizione che coglie la portata epocale delle sue decisioni. L’analisi del libro si concentra sulla convergenza di motivazioni che guidarono l’imperatore, un intreccio inestricabile di calcolo politico e sincera attrazione religiosa.

Da un lato, emerge una genuina fascinazione per il Dio dei cristiani, percepito come un protettore potente e personale, un deus praesens che interviene nelle vicende umane. L’episodio della visione prima della battaglia di Ponte Milvio (28 ottobre 312), pur con le sue diverse versioni nelle fonti (il sogno in Lattanzio, la visione diurna in Eusebio), è presentato come un momento psicologicamente e politicamente fondativo della sua conversione. Costantino, uomo del suo tempo, credeva nel potere divino e identificò nel Dio cristiano la fonte delle sue vittorie. Dall’altro lato, questa fede personale si saldava a un’acuta intelligenza politica. L’imperatore comprese che il sistema tetrarchico ideato da Diocleziano si era rivelato fallimentare nel garantire la stabilità e la successione. In questo contesto, il cristianesimo, sebbene ancora minoritario nell’impero, rappresentava una forza unica: era una religione organizzata gerarchicamente, dotata di una rete di comunicazione capillare (le diocesi), transnazionale e portatrice di un messaggio universalistico. Poteva offrire quella base ideologica unitaria che il paganesimo tradizionale, frammentato in una miriade di culti locali, non era più in grado di fornire.

È in questa prospettiva che va letto l’intervento diretto dell’imperatore nella crisi ariana. Vecchi e Vian descrivono con precisione come Costantino agisca non come un semplice fedele, ma come la suprema autorità religiosa dell’impero, trasferendo di fatto il ruolo pagano di pontifex maximus all’interno della Chiesa cristiana. La sua decisione di convocare un concilio ecumenico fu un atto inaudito, un’iniziativa imperiale che avocava a sé la gestione delle questioni interne della Chiesa. La sua preoccupazione non era primariamente teologica, ma politica. La discordia dottrinale, la stásis tra i vescovi, era percepita come una minaccia diretta alla pace e alla stabilità dell’impero, una “guerra intestina” più pericolosa di una battaglia militare. La celebre lettera inviata ad Alessandro e Ario, riportata integralmente da Eusebio e analizzata nel libro, è emblematica del suo approccio pragmatico: egli definisce la disputa “meschina”, “trascurabile” e nient’altro che “chiacchiere di un ozio inutile”.

L’intervento di Costantino segna un cambiamento di paradigma nel rapporto tra credo religioso e ordine pubblico. Egli tenta di operare una distinzione fondamentale: il dissenso teologico, le sottili questioni dottrinali, devono essere relegate alla sfera privata, “custoditi nel segreto della mente”. La professione di fede pubblica, invece, deve essere monolitica e unitaria. L’imperatore non pretende di imporre un’opinione teologica nel merito; la sua richiesta è che si giunga a “una sola fede, un unico credo, un unico accordo sull’Onnipotente” che possa essere pubblicamente sottoscritto. Il suo rimprovero ai contendenti non è di avere opinioni diverse, ma di aver reso pubblica la loro divisione, portandola “alle orecchie del popolo” e generando così disordine. La soluzione che impone a Nicea – la formulazione di un Credo unico e la minaccia dell’esilio per chi si rifiuta di firmarlo – trasforma l’adesione all’ortodossia in un atto di lealtà civile. La “scommessa” costantiniana, quindi, non è solo sul cristianesimo come religione, ma su un modello specifico di gestione del fenomeno religioso: la fede privata può anche ammettere una certa pluralità, ma la professione pubblica deve essere uniforme e allineata con il potere imperiale per garantire la pax deorum e, di conseguenza, la pax romana. In questo modo, si gettano le basi per la futura concezione dell’eresia non solo come un errore teologico, ma come un crimine contro la stabilità dello Stato.

Il fulcro teologico di Nicea: la crisi ariana e la definizione dell’ortodossia

Il cuore del concilio di Nicea, e del libro di Vecchi e Vian, è senza dubbio la controversia ariana. Gli autori riescono nell’impresa non facile di spiegare con chiarezza una disputa teologica di estrema complessità, mostrando come dietro le formule si celassero due visioni radicalmente diverse di Dio e della salvezza.

Ario, il prete libico attivo ad Alessandria, non è presentato come un eretico isolato, ma come l’esponente di una tradizione teologica (la scuola di Luciano di Antiochia) che, influenzata dalla teologia subordinazionista di Origene e portata alle sue estreme conseguenze logiche, cercava di salvaguardare a ogni costo il monoteismo assoluto e la trascendenza del Padre. Per Ario, Dio Padre è l’unico “ingenerato” (agénnetos), l’unico senza principio. Di conseguenza, il Figlio, il Logos, non può essere coeterno a Lui. Deve avere avuto un inizio: “ci fu un tempo in cui non esisteva”. Egli è dunque una creatura (ktísma), creato dal nulla (ex nihilo), la prima e la più perfetta di tutte le creature, tanto da essere chiamato “Dio”, ma in senso derivato e inferiore. È un dio minore, intermediario della creazione, ma non della stessa sostanza del Padre.

A questa visione si oppose con fermezza il suo vescovo, Alessandro di Alessandria, sostenitore di una teologia che, pur distinguendo le persone, affermava la piena divinità e l’eternità del Figlio. Per Alessandro, il Figlio è “generato, non creato” , un atto di generazione eterno che non implica un inizio nel tempo. Se il Figlio fosse una creatura, la salvezza dell’umanità non verrebbe da Dio stesso, ma da un intermediario creato, compromettendo così il nucleo stesso della fede cristiana. La posta in gioco era, dunque, la natura stessa della redenzione.

Il punto di svolta del dibattito conciliare fu l’introduzione di un termine destinato a diventare la pietra angolare e, al contempo, lo scandalo dell’ortodossia nicena: homooúsios, “consustanziale”, “della stessa sostanza”. Come sottolineano Vecchi e Vian, questa fu la mossa decisiva, probabilmente suggerita a un Costantino desideroso di chiarezza dal suo consigliere Ossio di Cordova. La scelta era rivoluzionaria per due motivi. In primo luogo, il termine non apparteneva al lessico biblico, ma proveniva dalla filosofia greca, segnando un passo audace: la fede cristiana accettava di definire il suo mistero più profondo con una categoria concettuale pagana. In secondo luogo, la parola fu scelta proprio per la sua inequivocabilità: mentre termini biblici come “Figlio” o “immagine” potevano essere interpretati in senso metaforico dagli ariani, l’homooúsios non ammetteva ambiguità. Affermare che il Figlio è “della stessa sostanza” del Padre significava escludere categoricamente che potesse essere una creatura di sostanza diversa.

Concetto Teologico Posizione Ariana (secondo Ario) Formulazione Nicena (Credo del 325)
Origine del Figlio (Logos) Creato dal nulla (ex nihilo). “Ci fu un tempo in cui non era”. “Generato, non creato” (genitum, non factum). Coeterno al Padre.
Sostanza (Ousía) del Figlio Di una sostanza diversa e inferiore a quella del Padre (heteroousios). “Della stessa sostanza del Padre” (homooúsios). “Dalla sostanza del Padre”.
Status del Figlio La prima e più perfetta delle creature. Un “dio minore”. “Dio vero da Dio vero”. Pienamente divino.
Rapporto con il Padre Subordinato per natura e volontà. Mutevole e alterabile. Uguale al Padre per divinità. Immutabile.

L’imposizione del termine homooúsios può essere interpretata come una sorta di “violenza concettuale” esercitata sulla tradizione teologica precedente. Come il libro lascia intendere, la maggioranza dei vescovi orientali presenti a Nicea era a disagio con questa parola. Non perché fossero ariani, ma perché essa era estranea alla Scrittura e, nella loro tradizione, era stata associata a eresie monarchiane che confondevano il Padre e il Figlio. La sua adozione non fu il frutto di un consenso teologico spontaneo, ma il risultato di una decisa spinta imperiale. Costantino, disinteressato alle sottigliezze teologiche ma ossessionato dall’unità, vide in quel termine la formula più efficace per porre fine alla disputa in modo definitivo. Questo atto creò un precedente di portata incalcolabile: l’autorità di un concilio ecumenico, garantita dal potere imperiale, poteva coniare una nuova terminologia per definire la fede. L’ortodossia non si sarebbe più basata unicamente sulla fedeltà alla lettera della Scrittura, ma sulla fedeltà all’interpretazione autorevole della Scrittura, espressa in un linguaggio tecnico e filosofico. La scommessa di Costantino si estese così alla metodologia stessa della teologia: scommise che un termine della ragione greca potesse unificare la Chiesa laddove il linguaggio biblico aveva permesso la divisione. Fu una scommessa sulla capacità della filosofia di servire, e in definitiva definire, la fede.

Nicea come spartiacque: la separazione dal giudaismo

Se la crisi ariana rappresenta il fulcro teologico di Nicea, la controversia sulla data della Pasqua, trattata con grande attenzione nel capitolo ottavo del libro, ne costituisce il corrispettivo culturale e identitario. Vecchi e Vian dimostrano come le decisioni prese in merito alla principale festa cristiana non furono una mera questione tecnica di calendario, ma un atto deliberato di separazione dalla matrice ebraica, un momento fondativo dell’identità cristiana in opposizione alla sua religione madre.

Prima di Nicea, la situazione era eterogenea. Molte comunità cristiane, specialmente in Asia Minore, i cosiddetti “quartodecimani”, celebravano la Pasqua il 14 del mese ebraico di Nisan, in concomitanza con la Pesach ebraica, riconoscendo così esplicitamente il legame storico e teologico tra la passione di Cristo e il contesto della Pasqua ebraica. Altre comunità, come Roma e Alessandria, avevano già iniziato a calcolare una data autonoma, preferendo celebrare la risurrezione sempre di domenica. Il concilio fu chiamato a porre fine a questa “confusione”. La soluzione adottata fu quella del sistema alessandrino: la Pasqua cristiana sarebbe stata celebrata la prima domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera, recidendo così ogni legame formale con il calcolo ebraico.

Ciò che rende questa decisione uno spartiacque non è tanto il metodo di calcolo, quanto la sua giustificazione ideologica. Gli autori riportano, senza edulcorarla, la violenta retorica antigiudaica contenuta nella lettera circolare con cui Costantino annunciò le decisioni del concilio. In questo testo, gli ebrei sono definiti “scellerati”, “folla detestabile”, un popolo la cui mente è stata “resa cieca” dopo aver “contaminato le proprie mani con un empio delitto”. L’imperatore dichiara “inopportuno” celebrare la festa seguendo coloro che si sono macchiati del “deicidio” e afferma perentoriamente: “Nulla vi sia in comune tra voi e la folla detestabile dei giudei”. La motivazione del cambiamento non è dunque astronomica o liturgica, ma puramente teologico-politica: la necessità di marcare una netta separazione.

Questo atto rappresenta la traduzione nel tempo sacro e nel calendario della cosiddetta “teologia della sostituzione” (supersessionismo), l’idea, sempre più diffusa nel cristianesimo antico, che la Chiesa avesse rimpiazzato Israele come popolo eletto di Dio. Sradicando la celebrazione della risurrezione dal suo contesto ebraico originario, il cristianesimo costantiniano dichiarava la propria autonomia e, implicitamente, la propria superiorità. Non si trattava solo di un allontanamento, ma di un atto di espropriazione simbolica. Il cristianesimo non si limitava più a considerarsi l’erede delle promesse fatte a Israele; ora si appropriava anche del tempo, creando un proprio ciclo liturgico che si contrapponeva a quello ebraico. La scommessa di Costantino, in questo ambito, implicava la costruzione di un’identità cristiana forte e autonoma, definita però in gran parte per via di negazione e di opposizione alla propria radice. Le conseguenze di questa scelta, come il libro lascia intendere, furono nefaste e si protrassero per secoli, alimentando un antigiudaismo teologico le cui eco dolorose non si sono ancora del tutto spente.

Analisi critica: stile, fonti e approccio narrativo

La riuscita del volume La scommessa di Costantino risiede in larga misura nella felice sinergia tra i suoi due autori. La collaborazione tra Giovanni Maria Vian e Gian Guido Vecchi produce un testo che è al contempo accademicamente rigoroso e narrativamente avvincente, un equilibrio difficile da raggiungere ma qui pienamente realizzato. Come si è già accennato, Vian apporta la profonda competenza patristica, evidente nella precisione con cui vengono discussi i concetti teologici, nella padronanza delle fonti antiche e nella capacità di situare ogni evento nel suo corretto contesto storico-dottrinale; Vecchi, d’altro canto, infonde nel testo la chiarezza espositiva, la capacità di sintesi e il ritmo narrativo tipici del giornalismo culturale di alto livello. Questa combinazione permette al libro di affrontare argomenti ostici come la teologia del Logos o le sottigliezze del termine homooúsios in modo comprensibile, senza mai banalizzarli. L’uso di aneddoti illuminanti, come quello del “tronista” omonimo di Costantino per illustrare l’oblio della cultura storica , o di paragoni efficaci, rende la lettura fluida e coinvolgente anche per il non specialista.

Un altro punto di forza è l’uso critico delle fonti. La fonte principale per il concilio di Nicea rimane la Vita di Costantino di Eusebio di Cesarea, un testo notoriamente celebrativo e apologetico. Gli autori ne fanno ampio uso, ma dimostrano una costante consapevolezza dei suoi limiti e delle sue finalità, trattandolo non come una cronaca oggettiva ma come un monumento ideologico, un ritratto del “nuovo Mosè” che riflette l’autorappresentazione del sovrano stesso. Questa cautela ermeneutica permette loro di estrarre informazioni preziose, come il testo integrale delle lettere imperiali, pur mantenendo la necessaria distanza critica. Allo stesso modo, il libro dialoga costantemente, sebbene spesso in modo implicito, con la storiografia moderna. La visione di Costantino che emerge dalle pagine è complessa e sfumata, e riecheggia le conclusioni di studi come quelli di Arnaldo Marcone, che ha definito l’imperatore intrinsecamente “pagano e cristiano”. Il volume riesce così a integrare i risultati della ricerca più recente in una narrazione coerente e aggiornata.

Nel suo complesso, il libro raggiunge pienamente l’obiettivo che si prefigge: essere un’opera di alta divulgazione di eccezionale qualità. Il suo merito principale è la capacità di “tradurre” la complessità politica, culturale e teologica del IV secolo in una narrazione significativa per il lettore contemporaneo. Vecchi e Vian evitano le trappole dell’anacronismo e della semplificazione eccessiva, riuscendo a spiegare perché questioni che oggi possono apparire come bizantinismi fossero, per gli uomini di quel tempo, questioni di vita o di morte, che toccavano il cuore della fede e il destino dell’anima. In un’epoca in cui la conoscenza del passato è spesso frammentaria e superficiale, La scommessa di Costantino si presenta come un’eccellente e indispensabile introduzione critica al significato epocale di uno degli eventi più influenti e meno conosciuti della storia occidentale.

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Posted by Adriano Virgili

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