Con un certo diletto, non disgiunto da un sincero apprezzamento per l’intellettuale cimento, e cedendo volentieri all’insistenza di alcuni nostri lettori abituali, ci accingiamo a replicare alla poderosa disamina de Il Dio incolpevole, offerta da un autore che, celandosi dietro uno pseudonimo, non nasconde tuttavia una veemenza polemica e un’onestà di fondo che meritano una risposta altrettanto sincera, sebbene di segno radicalmente opposto.
Quando il dibattito tocca le corde più profonde dell’esistenza umana – la natura di Dio, il senso della sofferenza, il fondamento della morale – la passione è non solo comprensibile, ma persino auspicabile. Essa, tuttavia, come insegna il Dottore Angelico, deve sempre rimanere ancella della ragione, affinché il calore del sentimento non finisca per offuscare la luce della verità. Come afferma San Tommaso, infatti, “tutte le potenze appetitive dell’anima devono obbedire alla ragione” (Summa Theologiae, I-II, q. 17, a. 7, co.), e ciò è tanto più necessario quanto più alti e fondamentali sono i principi in discussione. La carità verso la verità esige e comanda un ordine rigoroso nel pensiero e nell’argomentazione.
Ecco il link al quale è possibile reperire il contributo in oggetto: https://www.leternoassente.com/?p=7157
Se la nostra trattazione risulterà ampia, ce ne scusiamo in anticipo, sebbene la sua estensione sia dettata non da verbosità, ma dalla necessità di dipanare un ordito argomentativo altrettanto vasto e, a nostro avviso, intessuto di equivoci di fondo che meritano di essere sciolti uno ad uno. L’articolo a cui rispondiamo, del resto, non lesina in argomentazioni e lunghezza, e rendere giustizia a una tradizione di pensiero millenaria, quale è il teismo classico, sbrigativamente liquidata come “paracula”, esige uno spazio adeguato.
Idealmente, questo articolo si rivolgerebbe a un lettore che avesse sul proprio tavolo tanto il volume in questione quanto la critica che lo ha provocato, per poter soppesare con piena cognizione di causa tesi e antitesi. Consapevoli, tuttavia, che non sempre è possibile pretendere una tale dedizione accademica, ci sforzeremo di rendere la nostra esposizione quanto più chiara e autonoma possibile, fornendo il contesto necessario a comprendere i termini di un dibattito che, al di là dei tecnicismi, interpella chiunque si ponga domande sul senso ultimo della realtà.
Sul corretto uso dei termini: non è una “Teodicea”
Con la massima serietà richiesta da un tema tanto grave, ci accingiamo ad esporre un’osservazione preliminare che non costituisce un mero preambolo retorico, ma il fondamento diagnostico che rivela la natura dell’intero dissidio. L’insistenza dell’autore nel definire l’approccio del teismo classico una “teodicea“, e per di più “paracula”, è la spia di un fraintendimento così radicale da viziare alla radice ogni sua successiva argomentazione. Per comprendere la portata di questo errore, è necessario intraprendere un breve viaggio nella storia delle idee, per capire cosa sia una “teodicea” e perché il pensiero di San Tommaso d’Aquino non lo sia e non possa esserlo.
La nascita della Teodicea: Dio sul banco degli imputati
Il termine “teodicea” (Théodicée) è una creazione relativamente recente nella lunga storia del pensiero occidentale. Fu coniato nel 1710 dal filosofo e matematico tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, in un’opera intitolata Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male. Il contesto è quello dell’Illuminismo, l’Età della Ragione. È un’epoca di straordinaria fiducia nelle capacità della mente umana di indagare, comprendere e, soprattutto, giudicare ogni aspetto della realtà. Nessuna autorità, nemmeno quella divina, può sottrarsi al vaglio del tribunale della ragione.
In questa cornice culturale, la teodicea nasce con uno scopo preciso e ambizioso: giustificare Dio. Il termine stesso, composto dalle parole greche Theós (Dio) e díkē (giustizia), significa letteralmente “giustizia di Dio”. L’impresa leibniziana, e di tutte le teodicee che ne seguiranno l’impronta, è assimilabile a un’arringa difensiva in un’aula di tribunale. Sul banco degli imputati siede Dio, accusato di aver creato un mondo imperfetto, pieno di sofferenza e di male, nonostante le sue presunte qualità di onnipotenza e somma bontà. Il pubblico ministero è la ragione umana che, forte dell’evidenza del male, formula il suo capo d’accusa. L’avvocato difensore è il filosofo-teologo, il cui compito è dimostrare che l’imputato, nonostante le apparenze, non è innocente.
Per fare ciò, l’avvocato deve produrre delle prove, delle “ragioni sufficienti” che siano comprensibili e soddisfacenti per la giuria, ovvero per l’intelletto umano. Ecco allora il fiorire di argomenti quali: “questo è il migliore dei mondi possibili”; “il male è necessario per il libero arbitrio”; “la sofferenza ha uno scopo pedagogico”; “il male è permesso in vista di un bene superiore”. Tutte queste argomentazioni, per quanto ingegnose, condividono un presupposto fondamentale: Dio e l’uomo operano sullo stesso piano morale e sono giudicabili secondo gli stessi criteri. Dio viene concepito, in fondo, come un agente morale magnificato: un re, un architetto, un legislatore infinitamente più potente e saggio di noi, ma le cui azioni devono comunque rispondere a una logica di benevolenza e giustizia che noi possiamo, almeno in linea di principio, comprendere e convalidare. Il nostro critico, quando scrive il suo sillogismo («Chiunque… lasci soffrire un bambino… è malvagio; Dio… lascia soffrire…; Conclusione: Dio è malvagio»), si muove esattamente e perfettamente all’interno di questa cornice. Egli accetta senza discuterli i termini del processo illuminista: la ragione umana è il giudice, la nostra etica basata sull’empatia è la legge, e Dio è l’imputato.
La dissoluzione tomista: l’errore categoriale
L’approccio del teismo classico, che trova in San Tommaso d’Aquino il suo massimo sostenitore, è di tutt’altra natura. Non è un’arringa difensiva, ma una mozione pregiudiziale che contesta la giurisdizione stessa del tribunale. San Tommaso non cerca di “giustificare” Dio, perché l’idea stessa di sottoporre Dio a un giudizio basato su categorie umane gli sarebbe parsa un errore filosofico madornale, un errore categoriale.
Che cos’è un errore di categoria? È l’atto di attribuire a un soggetto un predicato che appartiene a un genere di realtà completamente diverso. È chiedere di che colore sia la speranza, quale sia il peso specifico della giustizia, o se un triangolo sia politicamente di destra o di sinistra. Le domande non sono difficili, sono insensate. La nostra reazione non è tentare di rispondere, ma mostrare che la domanda stessa è mal posta perché mescola categorie eterogenee.
Ora, secondo la metafisica tomista applicare a Dio il concetto di “agente morale” (nel senso in cui lo applichiamo agli esseri umani) è precisante un errore di questo tipo. Perché? Perché Dio non è un ente tra tanti, nemmeno il più grande, il più potente e il più buono. Dio è Ipsum Esse Subsistens, l’Essere Stesso Sussistente. Egli non appartiene alla categoria degli enti; Egli è la condizione di possibilità di ogni ente e di ogni categoria. Come insegna l’Aquinate, «Dio non è in alcun genere» (Summa Theologiae, I, q. 3, a. 5), perché nulla può essere aggiunto al Suo essere per specificarlo. Egli è l’Atto Puro, l’infinita pienezza della realtà, senza alcuna mescolanza di potenza o limitazione.
Di conseguenza, quando affermiamo “Dio è buono”, non stiamo attribuendo a Dio una virtù morale che Egli possiede, come un uomo possiede la virtù della giustizia. Stiamo affermando qualcosa di infinitamente più radicale. Poiché il bene, per la filosofia classica, è un “trascendentale” – una proprietà dell’essere in quanto essere (bonum et ens convertuntur) – e poiché Dio è l’Essere Stesso, ne consegue che Egli è la Bontà Stessa. Non è che Dio si conformi a uno standard di bontà; Egli è quello standard. La sua volontà non sceglie il bene, ma costituisce il bene.
Pertanto, Il Dio incolpevole non si propone di elaborare una “teodicea”, ma una dissoluzione del problema. Non si tratta di fornire ragioni consolatorie sul perché un Dio buono permetta il male. Si tratta di mostrare, attraverso una rigorosa analisi metafisica, che l’esistenza del male (inteso correttamente come privatio boni, privazione di un bene dovuto in un ente creato e finito) non costituisce una contraddizione logica rispetto all’esistenza di Dio (inteso correttamente come Ipsum Esse Subsistens). Lo scopo è filosofico, non psicologico. È smontare l’argomento ateologico, non lenire il dolore esistenziale.
La trappola dell’antropomorfismo
L’analogia del triangolo che non sa cantare, usata in precedenza, è calzante. Il nostro critico si pone di fronte al triangolo e lo accusa: “Tu non canti, quindi sei un musicista difettoso”. La risposta non è difendere il triangolo dicendo: “Beh, ma ha una bella forma” o “Ha i suoi motivi per non cantare”. La risposta corretta è mostrare all’accusatore che sta commettendo un errore: sta applicando la categoria “musicale” a un ente di natura puramente “geometrica”. Allo stesso modo, il nostro critico si pone di fronte a Dio e lo accusa: “Tu permetti la sofferenza, quindi sei un agente morale malvagio”. La risposta tomista non è escogitare scuse per Dio, ma mostrare all’accusatore che sta applicando la categoria della “moralità umana e creaturale” all’Essere Stesso, a cui essa non può applicarsi.
Parlare di “teodicea”, dunque, significa rimanere fatalmente intrappolati in questa cornice antropomorfica. Significa accettare implicitamente che Dio sia un “qualcuno” lassù, un super-uomo le cui azioni possono essere messe alla sbarra. Il critico, scegliendo questo termine, rivela di non aver nemmeno preso in considerazione l’alternativa radicale proposta dal teismo classico. Egli non sta combattendo contro il Dio di Agostino e di Tommaso d’Aquino; sta combattendo contro un idolo moderno, una caricatura di Dio costruita a sua immagine e somiglianza morale, per poi scandalizzarsi che essa non superi il suo esame. L’intera sua critica, per quanto appassionata e a tratti toccante, è un esercizio a vuoto: si scaglia contro un mulino a vento, mentre la solidità del pensiero classico, costruita su fondamenta metafisiche e non sulle sabbie del formalismo morale, rimane non solo inespugnata, ma del tutto ignorata. La scelta di quella singola parola, “teodicea”, è il sintomo che svela la malattia di fondo dell’intera argomentazione: un’incapacità di pensare Dio al di fuori delle rassicuranti, ma in definitiva asfissianti, categorie del finito.
Sulla filosofia “minimalista” e i suoi assiomi
Ci soffermiamo ora sulla “filosofia minimalista” che l’autore della critica espone come fondamento del suo pensiero. Egli la presenta come un pregio, un’adesione a un’essenzialità scevra da fronzoli, un’applicazione del rasoio di Occam per non “moltiplicare gli enti oltre il necessario”. Tuttavia, un’analisi più attenta rivela che questa non è la semplicità elegante che scaturisce dalla profondità della comprensione, ma la semplicità scarna che deriva da una sistematica elusione della complessità del reale. È una sorta di anoressia metafisica, un timore reverenziale per la sostanza dell’essere che conduce a una visione del mondo emaciata, priva di carne e di sangue, e in definitiva incapace di nutrire l’intelletto che anela a conoscere. Esaminiamo i suoi due “assiomi” per vedere come questa povertà si manifesti concretamente.
Primo Assioma: “Esiste una realtà al di fuori della mia coscienza”
Questo primo enunciato è, senza dubbio, il lodevole e indispensabile punto di partenza di ogni filosofia che non voglia naufragare nel solipsismo o perdersi nelle nebbie dell’idealismo. San Tommaso d’Aquino non solo sottoscriverebbe questo assioma, ma lo considererebbe il fondamento non negoziabile di tutta la conoscenza umana. Per l’Aquinate, la nostra mente non è una monade chiusa in se stessa che proietta un mondo, ma una finestra aperta sulla realtà. La conoscenza inizia sempre e comunque dai sensi (Nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensu): è attraverso la vista, l’udito, il tatto che entriamo in contatto con un mondo di enti concreti, di sostanze individuali che esistono indipendentemente dal nostro pensiero. Il nostro intelletto, in un secondo momento, compie un’operazione di “astrazione”, spogliando le immagini sensibili (phantasmata) dai loro connotati materiali e individuali per cogliere la natura o l’essenza intelligibile delle cose (species intelligibilis). Questo processo garantisce il carattere realista della conoscenza tomista: le nostre idee hanno un fondamento reale, sono “misurate” dalle cose.
Dunque, su questo punto di partenza, vi è un accordo. Ma è proprio qui che il dramma del minimalismo si consuma. Esso scambia il primo passo del viaggio per la destinazione finale. Affermare “la realtà esiste” è come, arrivati ai piedi di una montagna maestosa, dichiarare “la montagna è qui” e ritenere conclusa l’esplorazione. Il vero filosofo, il metafisico, è colui che, constatata la presenza della montagna, inizia la scalata. Egli non si accontenta di sapere che la realtà è; vuole sapere cos’è e come è possibile.
È qui che il pensiero tomista dispiega la sua potenza analitica, spingendosi ben oltre la soglia del minimalismo. Osservando questa realtà che entrambi riconosciamo, il metafisico nota dei fenomeni ineludibili. Il primo è il divenire. Le cose cambiano: un seme diventa albero, l’acqua diventa vapore, un uomo da ignorante diventa sapiente. Come è possibile il cambiamento se, come diceva Parmenide, l’essere è e il non-essere non è? Per rendere ragione del divenire senza cadere nella contraddizione, Aristotele e Tommaso introducono la distinzione fondamentale tra potenza (potentia) e atto (actus). Ogni ente finito è un composto di ciò che è attualmente (atto) e di ciò che può diventare (potenza). Il seme è in atto un seme, ma è in potenza un albero. Questa distinzione non è un “fronzolo” o un’ipotesi superflua, ma una deduzione necessaria per rendere intelligibile l’esperienza più comune e universale: quella del cambiamento.
Il secondo fenomeno è la molteplicità. Vediamo un’infinità di enti diversi: questo cane, quell’albero, quella pietra. Ognuno è diverso per la sua “natura”, per ciò che è. Eppure, tutti hanno qualcosa in comune: il fatto di esistere. Questo spinge San Tommaso alla sua scoperta più profonda, il cuore della sua metafisica: la distinzione reale, in ogni ente creato, tra la sua essenza (essentia) – la sua “quidditas”, ciò che lo definisce – e il suo atto di essere (actus essendi o esse). L’essenza di un cane non include di per sé la sua esistenza; possiamo pensare alla “caninità” senza che alcun cane esista. L’esistenza è un atto che l’essenza riceve, che la rende reale. Questa distinzione è la chiave per comprendere come possano esistere molti enti finiti: essi partecipano dell’essere, ma non sono l’Essere. Ciascuno ha l’essere, ma nessuno è l’essere.
Il “minimalismo” del nostro critico, con il suo unico e scarno assioma, rimane completamente cieco di fronte a queste strutture fondamentali della realtà. È come descrivere un’automobile dicendo semplicemente “esiste”. È una constatazione vera, ma che non spiega nulla del suo funzionamento, non distingue il motore dal telaio, il carburante dalla carrozzeria. La metafisica classica, al contrario, apre il cofano della realtà e ne analizza i principi costitutivi. È una filosofia infinitamente più ricca, complessa e, in ultima analisi, più fedele a quella stessa realtà che il minimalismo pretende di osservare.
Secondo Assioma: “La realtà… è semplice, regolare e prevedibile”
Se il primo assioma era una verità necessaria ma insufficiente, questo secondo è un vero e proprio equivoco, una confusione tra il metodo della scienza e la natura della metafisica. L’autore invoca il rasoio di Occam, affermando di privilegiare la spiegazione “più parsimoniosa di enti”. Ma applica questo principio in modo improprio, trasformando uno strumento di indagine epistemologica in una dichiarazione ontologica sulla realtà.
Il rasoio di Occam è un principio pragmatico utilissimo nelle scienze sperimentali: a parità di potere esplicativo, è preferibile la teoria che postula meno entità o cause. Ma esso non può decretare a priori come la realtà debba essere. Sarebbe come se un cartografo decidesse che una città deve avere poche strade perché le mappe più semplici sono più facili da leggere. La semplicità del modello non garantisce la semplicità della realtà. Il critico confonde la mappa con il territorio.
La metafisica tomista, lungi dal negare la regolarità e la prevedibilità della natura, ne offre il fondamento ultimo. Per il minimalista, l’ordine dell’universo è un fatto bruto, una felice coincidenza che egli si limita a registrare. Per il tomista, questa regolarità esige una spiegazione. E la spiegazione si trova, ancora una volta, nell’analisi della struttura interna degli enti.
- La Forma o Natura: Ogni sostanza materiale agisce in modo regolare e prevedibile perché possiede una forma sostanziale, un principio intrinseco che la costituisce in quel determinato tipo di cosa. È la forma della “quercia” che fa sì che una ghianda, se le condizioni lo permettono, si sviluppi in una quercia e non in un pino o in un gatto. È la “natura” dell’idrogeno che determina le sue proprietà chimiche e il suo modo di interagire con altri elementi. Le “leggi di natura” che la scienza scopre non sono delle regole imposte dall’esterno, ma la manifestazione dell’agire costante e specifico delle nature o forme delle cose.
- La Finalità: Questa azione ordinata non è casuale, ma diretta a un fine. Omne agens agit propter finem, “ogni agente agisce per un fine”, è uno dei principi cardine della metafisica tomista. La ghianda agisce in vista del suo fine, che è la piena attuazione della sua forma di quercia. Ogni ente naturale tende intrinsecamente alla propria perfezione. Questo finalismo intrinseco (o teleologia) è ciò che rende l’universo un cosmo (un mondo ordinato) e non un caos. La scienza moderna, pur rifiutando spesso il linguaggio della finalità, la presuppone implicitamente ogni volta che ricerca leggi e costanti, perché la ricerca di una legge è la ricerca di un ordine finalizzato.
Di fronte a questo ordine, il pensiero si spinge oltre. Se gli enti privi di intelligenza (come una pietra o un elettrone) agiscono costantemente per un fine, è necessario che siano diretti da un’Intelligenza ordinatrice. Come una freccia, che è un oggetto inanimato, può volare verso un bersaglio solo se è stata scoccata e diretta da un arciere intelligente, così l’intero universo, con il suo ordine mirabile, manifesta di essere governato da una Sapienza trascendente.
Qui si svela la profonda ironia della posizione del nostro critico. Egli si appella alla regolarità e prevedibilità della natura per negare la necessità di un Creatore, senza rendersi conto che, per la metafisica classica, quella stessa regolarità è una delle più potenti indicazioni dell’esistenza di Dio. È come colui che, ammirando l’ordine perfetto di una biblioteca, usasse quell’ordine come prova dell’inesistenza di un bibliotecario.
In conclusione, la filosofia “minimalista” si rivela un rifugio intellettuale che, in nome di una presunta semplicità, sacrifica la profondità esplicativa. Si accontenta di misurare l’ombra proiettata dall’orologio solare, descrivendone con precisione matematica i movimenti, e chiama questo “comprensione”. La metafisica, senza disprezzare l’importante lavoro di misurazione dell’ombra, ha l’ardire di alzare lo sguardo, interrogarsi sulla natura del sole, sulla causa del suo moto e sul significato ultimo della luce che proietta. È un cammino più arduo, meno “minimale”, ma è l’unico degno di un intelletto che non si accontenta di esistere nella realtà, ma desidera ardentemente comprenderla.
Sull’etica fondata sulla sofferenza
L’autore della critica, con un’intenzione che riconosciamo essere nobile e mossa da un’umana compassione, fonda il suo intero edificio etico su un’unica, potentissima esperienza soggettiva: “io soffro”. Da questa percezione primordiale, egli deduce la sua definizione del Male: esso è “sempre e solo la sofferenza”. Di conseguenza, la bontà di un agente si misura esclusivamente sulla sua capacità di ridurre o eliminare la sofferenza, mentre la cattiveria consiste nel provocarla o nel permetterla. A prima vista, questa etica ha il pregio della semplicità e un innegabile fascino emotivo. Chi non vorrebbe un mondo con meno dolore? Eppure, nonostante la sua apparente solidità, questa base filosofica è fragile come il cristallo e, a un’analisi più rigorosa, si frantuma rivelando profonde crepe metafisiche e contraddizioni interne.
Il male non è una “cosa”, ma una privazione
L’errore fondamentale del nostro critico è di natura metafisica: egli tratta il male e la sofferenza come se fossero delle realtà positive, delle “cose” che esistono di per sé. Il teismo classico, erede del pensiero di Aristotele e di Agostino, ha compreso da tempo che una simile concezione è insostenibile. Se il male fosse una sostanza o un’entità, poiché ogni essere, in quanto essere, procede da Dio che è l’Essere Stesso, allora Dio sarebbe la causa diretta del male. Per evitare questa conclusione, che è tanto logicamente contraddittoria quanto teologicamente blasfema, è necessario comprendere la vera natura del male: esso non è un essere, ma una privazione di un bene dovuto (privatio boni).
Il male non ha un’esistenza propria; è, per usare un’immagine, un “buco” nella realtà. Un buco in un tessuto non è fatto di una “sostanza-buco”, ma è semplicemente l’assenza del tessuto dove dovrebbe esserci. Allo stesso modo, la malattia non è un’entità che invade il corpo, ma l’assenza della salute, del giusto ordine e funzionamento delle sue parti. La cecità non è una “cosa”, ma la mancanza della facoltà della vista in un essere che, per sua natura, dovrebbe possederla. Il male è sempre un “parassita” del bene: non può esistere se non in un soggetto che è, di per sé, buono (poiché esistente).
In questo quadro, la sofferenza (malum poenae) è certamente un male reale, ma è un male derivato, una conseguenza. È il sintomo di una malattia più profonda. Il male radicale è il disordine che la provoca. Questo può essere un disordine fisico (come nel caso di una malattia o di un disastro naturale) o, in modo più grave, un disordine morale (malum culpae). Quest’ultimo consiste nella privazione del giusto ordine nella volontà di una creatura razionale; è un atto con cui la creatura libera si allontana volontariamente dal proprio fine e dal Bene Sommo.
Focalizzare l’intera etica sulla sola “sofferenza” significa quindi fermarsi alla superficie, al sintomo. È come se un medico, di fronte a un paziente febbricitante, definisse la sua scienza come la “lotta contro la febbre”, ignorando l’infezione che la causa. Un’etica matura non può limitarsi a voler lenire il dolore (malum poenae), ma deve interrogarsi sulle cause del disordine (malum culpae) e sulla natura del bene che è stato leso.
Una contraddizione latente
La seconda fragilità dell’etica del nostro critico è una vistosa contraddizione interna. Egli esordisce dichiarando il suo nobile intento di “prescindere dalla soggettività” e dalle proprie emozioni per ricercare una “verità se non assoluta almeno razionale”. Eppure, poche righe dopo, erige il suo intero sistema morale sull’esperienza più soggettiva e sull’emozione più viscerale che esista: il proprio personale orrore per il dolore. La sua etica, che si vorrebbe oggettiva, si rivela un sentimentalismo che fonda il bene e il male non sulla ragione che indaga la natura delle cose, ma su una reazione emotiva.
Per di più, egli tenta di dare una patina di oggettività a questa emozione riconducendola all’empatia, che a sua volta viene definita un mero “istinto frutto dell’evoluzione naturale”. Ma qui la contraddizione si aggrava. Se l’empatia è solo un istinto selezionato per favorire la sopravvivenza, che autorità morale può avere? L’evoluzione ha selezionato in noi anche istinti come l’aggressività, il tribalismo, l’egoismo. Su quale base “razionale” il critico decreta che l’istinto empatico debba prevalere su quello aggressivo? Non può. Può solo affermare di preferire l’uno all’altro, ma questa è una preferenza personale, non un obbligo morale universale. Un’etica fondata su un istinto evolutivo non può formulare un “tu devi”, ma solo un “è statisticamente vantaggioso per la specie che tu…”. Manca il salto fondamentale all’obbligazione morale.
Per il tomista, al contrario, il fondamento dell’etica è oggettivo perché radicato nella realtà. Il dovere morale si fonda sulla ragione retta (recta ratio), ovvero sulla capacità dell’intelletto di riconoscere la natura dell’essere umano e il suo fine (telos) proprio: la piena fioritura come ente razionale, che trova il suo compimento ultimo nella beatitudine, ovvero nella conoscenza e nell’amore del Bene Sommo che è Dio. Un’azione è buona non perché “fa sentire bene” o “riduce la sofferenza”, ma perché è conforme a questa natura razionale e orienta la persona verso il suo vero fine. È una morale fondata sull’essere, non sul sentire; sulla ragione, non sull’emozione; sulla natura delle cose, non sull’arbitrio di un istinto.
Le “ridefinizioni paracule”: ovvero, la scoperta della metafisica classica
Con una certa amarezza, che nasce dal vedere un pensiero onesto smarrirsi in un labirinto di equivoci, giungiamo al cuore della critica. L’autore accusa la proposta de Il Dio incolpevole di essere “paracula” perché, a suo dire, essa “ridefinisce il Bene, ridefinisce il Male, ridefinisce pure Dio” per sanare una contraddizione insanabile. Questa accusa, sebbene formulata con un linguaggio colorito e diretto, rivela in modo quasi paradigmatico la distanza che separa il pensiero “minimalista” del nostro critico dalla tradizione metafisica classica. Non assistiamo qui a “ridefinizioni” posticce, a espedienti retorici escogitati ad hoc per sfuggire a un problema. Al contrario, ci troviamo di fronte alle definizioni fondative, rigorose e tecnicamente precise, elaborate da una tradizione di pensiero che da Platone ad Aristotele, da Agostino a San Tommaso d’Aquino, ha cercato di pensare l’essere nella sua radicalità. Il nostro critico, arroccato sulla sua isola di “senso comune” e di assiomi minimalisti, scambia il continente della metafisica per un miraggio ingannevole. È come se un abitante di una tribù che ha sempre creduto la Terra piatta accusasse un astronomo di “ridefinire paraculescamente” il mondo come un geoide in rotazione per spiegare le eclissi. Il problema non risiede nella “ridefinizione” dell’astronomo, ma nell’orizzonte concettuale limitato dell’accusatore.
La “ridefinizione” della bontà di Dio
Il primo e più grande scandalo per il nostro critico è la concezione della bontà divina. Egli si indigna che essa non consista “nella sollecitudine nell’eliminare le sofferenze umane”, ma nella Sua “stessa pienezza d’essere”. La sua reazione viscerale (“E grazie al cazzo”) è umanamente comprensibile, ma filosoficamente rivelatrice. Essa svela l’assunto implicito e non vagliato che sta alla base di tutto il suo ragionamento: che la parola “bontà” abbia un significato univoco, ovvero che significhi la stessa identica cosa sia quando la applichiamo a un’infermiera compassionevole sia quando la predichiamo di Dio. È proprio questa fallacia dell’univocità che il teismo classico smonta pezzo per pezzo.
La bontà di Dio, per San Tommaso, non è una bontà morale, ma una bontà ontologica o trascendentale. Per capire questo punto capitale, bisogna partire dal principio della convertibilità di essere e bene (bonum et ens convertuntur). Per la metafisica classica, ogni cosa, nella misura in cui è, è buona. Il “bene” non è altro che l’essere stesso in quanto desiderabile, in quanto perfetto nel suo ordine. Una cosa è “buona” quando realizza pienamente la sua natura, quando è pienamente in atto. Un occhio buono è un occhio che vede perfettamente; un cavallo buono è un cavallo che corre veloce e risponde ai comandi; un albero buono è un albero che cresce sano e dà frutti. La bontà è la pienezza dell’essere propria di una data natura.
Se questo vale per gli enti creati, cosa accadrà quando applicheremo questo concetto a Dio? Qui avviene il salto qualitativo che il critico non compie. Dio, come dimostrato dalle vie tomiste, non è un ente tra gli altri. Egli non ha l’essere come una proprietà; Egli è l’Essere Stesso, l’Atto puro di esistere senza alcuna limitazione o mescolanza di potenza. Egli è Ipsum Esse Subsistens. Ma se l’essere e il bene sono convertibili, allora Colui che è l’Essere Stesso non può che essere anche il Bene Stesso: Ipsum Bonum Subsistens. La Sua bontà non è una qualità che possiede, una disposizione che assume, un dovere a cui si conforma. La Sua bontà è la Sua stessa, infinita, attualità d’essere.
Da ciò discende la conseguenza inevitabile: Dio non è un “agente morale” come noi. Un agente morale è un essere finito, che agisce per raggiungere un bene che non possiede, che è soggetto a doveri e obblighi, e la cui volontà è in potenza rispetto a diverse scelte. Dio è Atto Puro, pienezza di ogni bene, fonte di ogni dovere ma non soggetto ad alcuno. Giudicarlo con il “metro della moralità umana” è dunque un profondo errore categoriale. Il sillogismo del nostro critico crolla non per un sofisma, ma per un vizio di forma logica: esso si basa su un’equivocazione del termine “buono” (e del suo contrario “malvagio”). Nella premessa maggiore (“Chiunque… lasci soffrire… è malvagio”) si intende “malvagio” secondo una norma morale umana. Quando si applica la conclusione a Dio, si pretende di usare il termine nello stesso senso, ignorando che a Dio compete solo una bontà di ordine ontologico e trascendentale. È come argomentare: “Ogni banchiere lavora con i crediti; il Vangelo parla di ‘credito’ presso Dio; dunque Dio è un banchiere”. La fallacia è palese.
La “ridefinizione” del male
Analogamente, l’accusa di “ridefinire” il male come privazione è storicamente infondata e filosoficamente ingenua. Questa dottrina, la privatio boni, è il cardine della riflessione sul male da Agostino in poi, ed è una necessità metafisica. Se il male fosse una realtà positiva, una “cosa” con un suo proprio essere, allora Dio, in quanto Causa Prima di tutto ciò che è, ne sarebbe l’autore. Ma questo è impossibile, perché Dio, essendo il Bene Stesso, non può causare il suo contrario. L’unica soluzione coerente è comprendere che il male non è un’ente, ma un’assenza, una corruzione, una ferita inferta a un bene che esiste. La ruggine non è una “cosa” creata, ma la corruzione del metallo; l’errore non è un’idea positiva, ma l’assenza della verità in un giudizio. Dio non causa direttamente (per se) questa privazione; Egli causa l’essere delle creature, che, in quanto finite e corruttibili, sono suscettibili di subire tale privazione. Il male emerge per accidens, come un’ombra proiettata dalla limitatezza della creatura.
La “ridefinizione” di Dio
Infine, il critico inciampa sull’idea che Ipsum Esse sia un “concetto astratto” e quindi incompatibile con un Dio personale. Questo è forse l’errore che più di ogni altro rivela una mancata comprensione del linguaggio metafisico. Per San Tommaso, Dio è la realtà meno astratta che esista. L’astrazione è un’operazione della nostra mente, che isola una forma intelligibile dalla materia individuale e contingente. Ma Dio è Atto Puro (Actus Purus), assolutamente semplice, privo di ogni composizione di materia e forma, di essenza ed esistenza, di potenza e atto. Egli non è un’idea universale, ma l’Atto singolare e supremamente concreto di esistere.
Come può, allora, essere “personale”? Qui entra in gioco la dottrina dell’analogia. Noi non possiamo parlare di Dio usando i nostri termini in senso univoco, come se la Sua intelligenza fosse identica alla nostra. Usiamo i termini (come “volontà”, “amore”, “persona”) in modo analogico. Ciò significa che: 1) partiamo dalla perfezione che conosciamo nella creatura (l’amore umano); 2) ne neghiamo tutti i limiti e le imperfezioni (la passionalità, la mutevolezza, la dipendenza dall’oggetto amato); 3) affermiamo quella perfezione in Dio in un modo super-eminente, infinito, identificandola con il suo stesso essere. Dio è “personale” non perché ha una psicologia simile alla nostra, ma perché Egli è l’atto sussistente e infinito di Intelletto e di Volontà. La sua “personalità” è infinitamente più ricca e intensa della nostra, non più povera o astratta.
In conclusione, l’accusa di “ridefinizione paracula” si dissolve come neve al sole di fronte a una seria analisi filosofica. Non vi è alcuna ridefinizione, ma l’applicazione rigorosa dei principi primi della metafisica dell’essere così come elaborati da secoli di riflessione filosofica. Lo scandalo del nostro critico non è generato da un sofisma del teologo, ma dalla vertigine che la sua stessa ragione prova quando, abituata a navigare nelle acque basse del mondo finito, si affaccia per la prima volta sull’oceano sconfinato dell’Essere Sussistente.
Sulle contraddizioni apparenti e il Mistero
Giungiamo ora al momento in cui il nostro critico, dopo aver affilato le sue armi sulle presunte “ridefinizioni” del teismo classico, sferra i suoi attacchi principali, convinto di aver individuato delle crepe insanabili nell’edificio logico dell’avversario. Con un’ingegnosità degna di miglior causa, egli costruisce una serie di dilemmi che, a suo dire, minerebbero alla radice la coerenza della visione classica. È un esercizio ammirevole per la sua tenacia, quasi commovente nel suo tentativo di applicare il “pensiero minimalista” a problemi di massima complessità metafisica. Assisteremo ora al tentativo di aprire una cassaforte con un grimaldello, un’operazione che, purtroppo per l’esecutore, è destinata a un prevedibile, seppur rumoroso, fallimento. Non per la robustezza della serratura, ma per l’inadeguatezza dello strumento.
Onnipresenza e male
Il primo colpo di teatro del nostro critico è un sillogismo di una semplicità quasi disarmante: se il Male è assenza di Bene e Dio è il Bene, allora il Male è assenza di Dio. Dunque, dove c’è il Male, Dio non c’è. Un “eureka!” logico che sembra far crollare l’attributo dell’onnipresenza. Il ragionamento è arguto, lineare, perfetto per chi immagina la realtà come una scacchiera, con caselle bianche (Dio/Bene) e caselle nere (Male/Assenza di Dio). Peccato che la realtà, e soprattutto la realtà di Dio, non sia una scacchiera.
Questa argomentazione funziona solo a patto di accettare due premesse del tutto ingenue: che il male sia una sorta di “luogo” o “sostanza” spazialmente definita, e che la presenza di Dio sia paragonabile a quella di un oggetto fisico che occupa uno spazio escludendone un altro. Ma, come abbiamo già avuto modo di spiegare a chi ha la pazienza di ascoltare, la metafisica classica ha una visione della presenza divina leggermente più sofisticata. San Tommaso ci insegna che Dio è presente in ogni cosa, e in modo radicale, in quanto è la causa dell’essere (causa essendi) della cosa stessa. Egli non è semplicemente “vicino” alle sue creature; le costituisce dall’interno, sostenendole nell’esistenza istante per istante con un atto creatore continuo (conservatio in esse). Se questa azione cessasse, la creatura non soffrirebbe: semplicemente, cesserebbe di esistere, ripiombando nel nulla.
Alla luce di ciò, l’argomento del critico non solo si sgonfia, ma si capovolge in un paradosso squisitamente ironico. Proprio nel caso della bambina sofferente, l’esempio più estremo di male che egli possa concepire, la presenza di Dio è massimamente e intimamente attuale. Perché quella bambina possa soffrire, deve innanzitutto esistere. E perché ella esista, è necessario che l’Atto Puro di Essere la sostenga con la sua potenza creatrice in quell’esatto istante. Il male che l’affligge non è un’ “assenza di Dio”, ma una privazione di un bene dovuto (la salute, l’integrità) in un soggetto la cui esistenza è la più potente testimonianza della presenza di Dio. L’assenza di Dio non è il dolore, ma l’annichilimento. Il critico, nel tentativo di mostrare un luogo vuoto di Dio, ha indicato proprio il punto in cui la potenza creatrice divina è più manifesta, nell’atto di tenere in vita ciò che la corruzione vorrebbe distruggere. È come voler dimostrare l’assenza del sole indicando un’ombra, senza capire che l’ombra stessa esiste solo in virtù della luce su cui si staglia.
Provvidenza e libero arbitrio
Il secondo assalto è rivolto contro la compatibilità tra l’onniscienza divina e la libertà umana. L’autore, con un grido che viene dal cuore e che tradisce una concezione della libertà molto terrena, esclama: “se Dio conosce ogni mia scelta futura, col cazzo che io sono libero”. Si immagina Dio come un Grande Fratello cosmico che ha già visto il nastro della nostra vita e ci osserva recitare una parte già scritta. La nostra libertà sarebbe una farsa, e noi delle marionette inconsapevoli.
Ancora una volta, la contraddizione sorge da un errore di prospettiva, da un antropomorfismo tanto radicato quanto ingenuo. Si proietta su Dio il nostro modo di conoscere, che è legato al tempo e alla successione. Noi ricordiamo il passato, percepiamo il presente e congetturiamo il futuro. Siamo prigionieri della freccia del tempo. Ma Dio non lo è. La tradizione classica, a partire da Boezio, ha definito l’eternità non come un tempo senza fine, ma come «il possesso totale, simultaneo e perfetto di una vita senza limiti» (tota simul et perfecta possessio vitae interminabilis). Dio non vive lungo la nostra linea temporale; la sua vita è un “adesso” eterno (nunc stans) che abbraccia la totalità del tempo in un unico atto intellettivo.
Questo significa che Dio non “pre-vede” il futuro. Egli lo vede. Vede la mia scelta di domani con la stessa immediatezza con cui io vedo la mia scelta di adesso. La sua conoscenza non precede la mia azione nel tempo, rendendola necessaria. Semplicemente, la sua eternità è simultanea a ogni punto del tempo. L’esempio classico è quello dell’uomo sulla cima di una montagna che osserva una carovana sfilare in una valle. Dall’alto, egli vede contemporaneamente i primi viaggiatori, quelli a metà del percorso e gli ultimi. La sua visione simultanea non toglie nulla alla libertà con cui ogni viaggiatore ha deciso di mettersi in marcia e di procedere a una certa andatura. La sua conoscenza non è la causa della loro processione.
Certo, si obietterà, la conoscenza di Dio è anche causale. Verissimo. Ma, e questo è un punto di una sottigliezza che sembra sfuggire al pensiero minimalista del nostro critico, la Causa Prima divina opera senza fare violenza alle cause seconde, anzi, abilitandole ad agire secondo la loro natura. Dio muove le cause necessarie in modo necessario (una pietra cade verso il basso) e le cause libere in modo libero. Egli è la causa del nostro essere e del nostro potere di scegliere, ma siamo noi, come cause seconde, a determinare la nostra scelta verso un bene particolare. La libertà umana è, essa stessa, un effetto della causalità divina. L’obiezione del nostro critico ha senso solo se si immagina Dio come un altro agente temporale, un concorrente alla nostra libertà. Ma Dio è il fondamento della nostra libertà. Voler essere liberi da Dio è, per il metafisico, come pretendere di respirare liberandosi dall’atmosfera.
Il paradiso come confutazione
L’ultima e più potente carica è la seguente: se Dio è onnipotente e buono, e se uno stato creaturale senza male (il paradiso) è possibile, perché non ha creato direttamente tutti in quello stato? Perché questo lungo e doloroso “film” della storia umana? È una domanda legittima, che spinge la ragione ai suoi estremi confini, là dove la filosofia confina con la teologia e la contemplazione del mistero.
Innanzitutto, va precisato che, nella visione tomista, la libertà dei beati in paradiso non è annullata, ma perfezionata. Vedendo Dio faccia a faccia, l’intelletto coglie il Bene Assoluto e Infinito. La volontà, di fronte a tale Bene, non può che aderirvi con tutta se stessa, in un atto di amore che è la massima espressione della libertà: una libertà finalmente guarita dalla sua stessa fragilità, confermata nel bene, incapace di scegliere un bene minore perché sazia del Bene totale. La libertà dei beati non è minore della nostra, ma infinitamente maggiore, come la vista di un’aquila è maggiore di quella di una talpa.
Ma perché, allora, il viaggio? Perché la prova? Qui la filosofia deve ammettere onestamente i propri limiti. Essa può mostrare che la creazione di questo mondo non è logicamente contraddittoria con la bontà divina. Può ipotizzare delle “ragioni di convenienza”: che un universo in cui il bene è raggiunto attraverso la lotta e la scelta libera manifesta la gloria di Dio (la sua giustizia, la sua misericordia) in modo più ricco di un universo staticamente perfetto; che un amore meritato ha una dignità maggiore di una beatitudine garantita d’ufficio. Forse Dio, nella sua infinita sapienza, non è un “minimalista”, e preferisce la complessità di una grandiosa opera sinfonica, con le sue tensioni e le sue risoluzioni, alla semplice e monotona nota di un flauto.
Ma queste restano riflessioni. La filosofia non può dimostrare la necessità di questa scelta divina. Esigere una spiegazione esaustiva del “perché” di questo mondo significherebbe pretendere di entrare nella mente di Dio e di giudicare le ragioni di una Volontà libera e infinita. È una richiesta di una hybris smisurata, un atto profondamente irrazionale mascherato da esigenza di razionalità. Il “mistero” a cui il teismo classico alla fine approda non è il rifugio dell’irrazionalità, ma il riconoscimento, da parte della ragione stessa, del proprio statuto creaturale. È l’atto di umiltà intellettuale con cui la mente finita, dopo aver percorso tutte le vie del logos, si ferma sulla soglia dell’Infinito, ammettendo di non possedere la mappa completa del suo agire.
La variante Karamazov e la ribellione della pancia
Giungiamo all’atto finale, al momento in cui la maschera della fredda razionalità viene gettata a terra e il nostro critico, con una mossa tanto retoricamente efficace quanto filosoficamente suicida, decide di giocare la sua ultima carta: non un argomento, ma un grido. Abbandonato il terreno della logica e della metafisica, che si è rivelato più impervio e meno “minimalista” del previsto, egli si rifugia nella cittadella inespugnabile dell’indignazione umana. Citando l’Ivan Karamazov di Dostoevskij, ci pone di fronte all’orrore indicibile e assoluto: la sofferenza innocente, le lacrime di un bambino, lo strazio di una bambina di cinque anni scuoiata viva. Di fronte a questo, egli dichiara, non c’è teodicea che tenga. Egli “restituisce il biglietto”, rifiuta l’armonia finale, si dichiara pronto a rimanere dalla parte del torto pur di non accettare un Dio che permette un simile abominio.
Non possiamo che rimanere ammirati di fronte a una tale performance. È un momento di grande potenza emotiva, un pugno nello stomaco che mira a zittire ogni cavillo filosofico. E, senza dubbio, è il passaggio più umanamente toccante e, per noi, filosoficamente rivelatore dell’intera critica. Non neghiamo l’orrore; la filosofia tomista non offre anestetici per il dolore esistenziale né facili consolazioni. Offre, nel suo campo, chiarezza intellettuale sul problema logico. Ma è proprio qui, sul terreno scelto dal critico per la sua battaglia finale, che il suo intero edificio intellettuale crolla su se stesso con un’ironia così suprema da essere quasi crudele.
La sua è una capitolazione mascherata da attacco. Dopo averci assicurato di voler prescindere dalle sue emozioni per cercare una verità razionale, egli fonda la sua ultima e definitiva obiezione sulla più potente delle emozioni: l’orrore. È un “coming out” filosofico: il suo ateismo non è il risultato di un freddo calcolo razionale, ma la reazione emotiva di un cuore ferito. Egli non rifiuta Dio perché la sua esistenza è stata logicamente confutata, ma perché la Sua esistenza, data la realtà del male, è emotivamente inaccettabile.
Ma analizziamo con la freddezza che lui ha abbandonato la natura stessa di questa sua indignazione. Da dove proviene questo senso di oltraggio? Da quale universo di significato scaturiscono parole come “giusto”, “ingiusto”, “dignità”, “valore inviolabile”?
Prendiamo per un istante sul serio il suo “universo minimalista”, la sua realtà fatta di leggi naturali, di materia in movimento, di caso e di necessità. In questo universo, cos’è la bambina che soffre? È un complesso organismo biologico, un aggregato di molecole di carbonio e acqua che sta subendo un processo di rapida degradazione. La sua sofferenza è una tempesta di segnali elettrochimici che viaggiano lungo le fibre nervose fino a un centro di elaborazione dati chiamato cervello. È un evento tragico, certo, dal punto di vista della sopravvivenza di quell’organismo. Ma è privo di qualsiasi significato o valore trascendente. In un universo puramente materiale, non esiste “ingiustizia”. Un terremoto che uccide mille persone non è più “ingiusto” di un buco nero che inghiotte una stella. Un uomo che ne tortura un altro è un sistema biologico complesso che ne danneggia un altro. È deplorevole, forse, dal punto di vista dell’utilità sociale, ma la nozione di un’oggettiva “malvagità” o di una “violazione” di un diritto sacro è semplicemente priva di senso. Le particelle che compongono la bambina non sono più “sacre” di quelle che compongono il coltello del suo aguzzino.
Eppure, il nostro critico prova orrore. Sente che è stata commessa un’ingiustizia assoluta. Percepisce in quella bambina un valore infinito e inviolabile. Ma, così facendo, da dove sta prendendo questi concetti? Non dal suo universo minimalista. Quell’universo gli fornisce atomi, forze ed evoluzione; non gli fornisce “diritti”, “dignità” o “sacralità”. L’orrore morale che il critico prova, e che grazie al cielo ogni uomo prova, è un parassita. È un concetto che vive nutrendosi di un corpo che non è il suo. È un fiore che egli ha colto dal giardino della metafisica classica e della tradizione giudaico-cristiana, per poi tentare di piantarlo nel deserto arido del suo materialismo.
La sua indignazione ha senso solo e unicamente se si presuppone che la bambina abbia una dignità intrinseca, che la sua vita sia un bene oggettivo e sacro, un valore che trascende l’utilità e la materia. Ma questa idea, che a noi oggi sembra così “naturale”, è il precipitato storico e filosofico di una visione del mondo ben precisa: quella che vede l’essere umano come creato a immagine e somiglianza di Dio (Imago Dei). È perché la vita umana è considerata una partecipazione diretta all’Essere divino, e la persona umana è ordinata a un fine soprannaturale, che la sua dignità diventa assoluta e non negoziabile.
Il nostro critico, dunque, per poter sferrare il suo attacco morale più veemente contro Dio, è costretto a prendere in prestito, senza dichiararlo, il capitale concettuale e morale del teismo. Sta segando con foga il ramo su cui è precariamente seduto. E la sua indignazione morale è così forte, la sua sega è così affilata, proprio perché il ramo della “dignità umana” è metafisicamente solido, nutrito da una linfa che sale da quella stessa radice (Dio) che egli vorrebbe recidere. È la più grandiosa delle eterogenesi dei fini: nel tentativo di dimostrare l’immoralità di Dio, finisce per dimostrare l’insostenibilità di una morale senza Dio.
Il suo grido, “non voglio l’armonia a questo prezzo”, è, a ben vedere, il grido più profondamente teista che si possa immaginare. Esso presuppone che il valore di quella singola anima sia così assoluto da pesare più dell’intera armonia cosmica. Un materialista coerente non potrebbe mai dire una cosa simile. Un materialista coerente dovrebbe ammettere che, se sacrificare un individuo o anche mille individui potesse garantire un’armonia e una sopravvivenza migliori per la specie, questo sarebbe non solo accettabile, ma auspicabile. È la visione teista, che attribuisce a ogni anima un valore infinito perché destinata a un rapporto eterno con Dio, l’unica che può fondare razionalmente la ribellione di Ivan Karamazov.
L’ateo che usa questo argomento è un ladro inconsapevole; un ladro di morale. Crede di combattere con le proprie armi, e non si accorge che le ha rubate dall’armeria del suo nemico. La sua non è rabbia contro Dio; è rabbia contro un universo che, senza Dio, non riesce a giustificare le sue più profonde e nobili intuizioni morali. Vuole i frutti del cristianesimo — la dignità della persona, il valore dell’innocente — ma rifiuta la radice metafisica da cui essi germogliano. Il suo rifiuto del biglietto non è un atto di coraggio ateo, ma il gesto di stizza di chi si scopre intellettualmente insolvente.
In conclusione: risposte senza supercazzole a domande senza metafisica
Giungiamo al termine di questa nostra replica, al momento in cui, come in ogni duello che si rispetti, l’avversario esige una resa dei conti. L’autore della critica, dopo averci deliziato con la sua visione “minimalista” e la sua etica “di pancia”, ci lancia la sua sfida finale, convinto di averci messo con le spalle al muro. Ci chiede di rispondere, “senza giri di parole, senza polisemie e slittamenti semantici, senza sofismi, senza fuffa e supercazzole”, a due domande nette, taglienti come lame di ghigliottina. Ebbene, accogliamo la sfida. Risponderemo con la precisione richiesta, con la distinzione che la filosofia esige. Se poi la chiarezza che offriremo non sarà di suo gradimento, non sarà per mancanza di onestà intellettuale da parte nostra, ma forse perché le sue domande, nella loro apparente semplicità, sono così cariche di presupposti non vagliati da rendere una risposta semplice e al contempo vera un’impossibilità logica. A domande senza metafisica, si può solo rispondere con la metafisica, con buona pace di chi preferirebbe un sì o un no da talk show.
Prima domanda: Non può o non vuole?
“Per quale motivo un Dio onnisciente, onnipotente e buono permette la sofferenza di un innocente […]? Non può o non vuole?”
La risposta, senza giri di parole, è: Non vult. Dio non vuole.
Lasciamo che questa affermazione risuoni per un istante in tutta la sua scandalosa brutalità, quella che il nostro critico si aspetta. Egli crede di averci costretto a una confessione di crudeltà. Ma, come sempre, le cose sono un po’ più complesse di come appaiono a un pensiero che rifugge dalle distinzioni. Il dilemma “non può o non vuole” è una trappola retorica, una falsa dicotomia che funziona solo se si immagina Dio come un monarca umano, con una psicologia e una volontà simili alle nostre.
Per il teismo classico, la volontà di Dio va compresa distinguendo ciò che Egli vuole per se (direttamente) e ciò che Egli permette per accidens (indirettamente, come conseguenza).
Cosa vuole Dio per se? Egli vuole la Sua stessa infinita bontà. E, come riflesso di questa, vuole l’esistenza di un ordine creato che, nel suo complesso, è buono e manifesta la Sua gloria. In questo ordine, Egli ha voluto che esistessero le leggi della fisica e della biologia, la dinamica delle placche tettoniche, il ciclo della vita e della morte, l’esistenza di creature libere. Ognuno di questi elementi, e l’universo che ne risulta, è un bene che Dio vuole direttamente.
Cosa permette Dio per accidens? Egli permette quelle deficienze e quelle sofferenze che sono una conseguenza inevitabile dell’ordine che ha voluto. Se si vuole un universo con creature materiali, finite e corruttibili, si deve “permettere” la possibilità della malattia e della morte. Se si vuole un pianeta geologicamente vivo e dinamico, si deve “permettere” la possibilità dei terremoti.
Dio, quindi, non “vuole” direttamente l’agonia della bambina sotto le macerie. Quell’agonia non è un obiettivo del suo piano. Egli la permette come conseguenza di un mondo con leggi naturali stabili e con una storia umana segnata dalla libertà, un mondo che Egli ha voluto per se come un bene. Intervenire con un miracolo costante per sospendere le leggi di natura ogni volta che esse potrebbero causare sofferenza significherebbe negare l’integrità stessa della creazione. Significherebbe governare un teatro di marionette in un mondo senza consistenza, non un cosmo con una sua propria autonomia e dignità. Il Dio che il critico invoca è un “Dio tappabuchi”, un deus ex machina chiamato a rammendare continuamente la sua opera. Il Dio del teismo classico è l’Architetto di un ordine la cui grandezza sta proprio nella sua coerenza, anche quando questa, per noi, produce conseguenze dolorose.
Seconda domanda: Se non vuole, è comunque buono?
“Se Dio non vuole, se Dio preferisce lasciar morire i bambini fra atroci dolori […], è comunque buono? Anche di fronte a una bambina scuoiata viva, ti senti serenamente in grado di affermare che Dio è buono?”
La risposta, ancora una volta senza supercazzole, è: Ita. Sì, Egli è buono.
Comprendiamo perfettamente che questa risposta, agli orecchi del nostro critico e di chiunque fondi la propria etica sulla reazione emotiva, suona non solo “paracula”, ma mostruosa, ripugnante. Sembra la quintessenza dell’insensibilità morale, un sofisma disumano per assolvere un tiranno cosmico. Ma questo avviene solo perché, ancora una volta, si insiste nel misurare Dio con un metro che non è il suo, nel giudicare la Sua bontà con la nostra.
La nostra risposta “sì” non è un’affermazione di tipo morale-psicologico. Non stiamo dicendo che Dio prova una benevola compassione nel nostro senso umano e poi sceglie di non agire. Stiamo facendo un’affermazione di tipo ontologico, l’unica che si può fare su Dio. Come abbiamo ripetuto fino alla noia, la bontà di Dio è il suo stesso Essere. Egli è Ipsum Bonum Subsistens, il Bene Stesso Sussistente. Per Lui, “essere buono” non è un modo di agire, ma il suo stesso modo di esistere.
Qual è, dunque, l’atto primario e fondamentale della bontà di Dio verso la bambina che soffre? È l’atto con cui, in ogni istante del suo tormento, Egli la tiene in essere. La sua esistenza, anche nella sofferenza, è una partecipazione all’Essere e dunque al Bene di Dio. L’alternativa non è una vita senza dolore, ma il non-essere, il nulla assoluto. La bontà di Dio si manifesta nel suo dono incessante dell’essere a una creatura che, pur ferita da una terribile privazione, è e rimane intrinsecamente un bene in quanto esistente.
Questa, ne siamo consapevoli, è la “dura parola” della metafisica. È una prospettiva che chiede di elevare lo sguardo al di là dell’orrore immediato e umanamente insopportabile del malum poenae (la sofferenza), per contemplare la verità dell’essere. Chiede di comprendere che l’indifferenza non è quella di Dio, che sostiene la vita, ma quella di una natura creata le cui leggi operano con una costanza che non fa distinzioni.
Il critico, con il suo sistema, arriva a una conclusione emotivamente soddisfacente (Dio è malvagio o non esiste) ma filosoficamente inconsistente, perché fondata su un’etica sentimentale e su una metafisica “minimalista” che non riesce a rendere conto della realtà. La visione classica arriva a una conclusione emotivamente “scandalosa” (Dio è buono anche di fronte al male innocente), ma che è l’unica logicamente coerente all’interno di un quadro metafisico robusto che distingue tra il Creatore e la creatura, tra l’Essere e l’ente, tra la bontà ontologica e la bontà morale.
In conclusione, abbiamo risposto. Senza fuffa e senza sofismi, ma con la pazienza della distinzione che è il pane quotidiano e, per alcuni, apparentemente indigesto, della filosofia. Abbiamo cercato di mostrare come le domande poste dal nostro critico, pur nella loro veemenza, non fossero che trappole logiche ben congegnate, costruite però con i materiali inadeguati di una visione del mondo troppo piccola per contenere la vastità del problema che pretendeva di risolvere. Abbiamo risposto smontando quelle trappole, pezzo per pezzo, non per il gusto della demolizione, ma per rivelare le fondamenta fallaci su cui poggiavano.
Se le risposte che abbiamo fornito possono suonare insoddisfacenti, elusive o “paracule” a un orecchio non avvezzo al linguaggio della metafisica, ciò non dipende da una loro presunta vacuità, ma, al contrario, dalla loro densità. Esse presuppongono un universo concettuale, una grammatica del pensiero – quella del teismo classico – che il nostro critico sembra ignorare o voler deliberatamente scartare. È come tentare di spiegare la meccanica quantistica a chi si rifiuta di andare oltre la fisica di Newton: le conclusioni appariranno sempre paradossali o assurde. Il problema non risiede nella risposta, ma nell’incapacità o nella non volontà della domanda di accogliere una complessità che trascende il semplice “sì” o “no” di un dibattito da salotto.
Abbiamo tentato, in questa sede, di offrire alcuni strumenti di questa grammatica metafisica. Ma è ovvio che una replica, per quanto estesa, non può sostituirsi alla lettura organica e completa di un’opera. Pertanto, se un sincero desiderio di comprensione anima chi ci ha letto fin qui, l’invito non può che essere quello di accostarsi direttamente al testo che ha scatenato questo dibattito. La lettura de Il Dio incolpevole offrirà l’occasione per un giudizio più ponderato, permettendo di valutare se le tesi lì esposte siano davvero un cumulo di “minchiate” e “paraculaggini” o se, piuttosto, rappresentino un serio tentativo, esposto peraltro in una prosa chiara e accessibile, di ripresentare la profondità e la coerenza di una tradizione di pensiero che ha ancora molto da dire all’uomo contemporaneo. Lì, il lettore troverà esposti con maggiore ampiezza e sistematicità i concetti che qui abbiamo potuto solo tratteggiare, e potrà giudicare da sé, senza il filtro deformante di una critica preconcetta.
Che questa nostra replica sia dunque intesa non come l’inizio di una polemica a distanza, che si prospetta sterile e senza fine, ma come la sua conclusione. Non abbiamo alcuna intenzione di ingaggiare un botta e risposta con il nostro critico, poiché è evidente che, al momento, parliamo lingue diverse. Finché la discussione rimarrà sul piano dell’invettiva e del fraintendimento delle categorie fondamentali, ogni ulteriore scambio sarebbe solo una ripetizione di quanto già detto. La nostra risposta è, per quanto ci riguarda, esaustiva e definitiva. Lasciamo che sia il lettore attento, e non il polemista, a giudicarne la validità, e lasciamo il nostro critico a contemplare, se lo vorrà, i pezzi della sua stessa trappola logica, da lui scambiata per una fortezza inespugnabile.
La mia replica:
https://www.leternoassente.com/?p=7188
C.G.
Ti rispondo qui, tra i commenti al mio articolo, poiché, a quanto vedo, il tuo blog è un cenacolo in cui solo gli atei paiono avere diritto di parola. Pazienza.
Mi rinfacci, con una certa stizza, di non aver avuto la «buona creanza» di citare il tuo nome. Dal momento che tu stesso ti celi dietro uno pseudonimo, e non amando io per principio gli anonimati polemici, ho preferito limitarmi a linkare il tuo pezzo e a chiamarti, con tutto il rispetto per la funzione che svolgi, «il critico». Sono quisquilie, come dici tu stesso, ma talvolta rivelatrici.
Veniamo al sodo. Sia chiaro: nessuno nega che si possa dissentire dalla metafisica tomistica e dal teismo classico. La storia della filosofia è un cimitero di sistemi e un campo di battaglia di idee. Ma allora, se si vuole dissentire, bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di argomentare contro di questi, e non pretendere che il proprio argomento ateologico, costruito su altre premesse (nel tuo caso, un materialismo che postuli come evidente), valga contro l’idea di Dio che il teismo classico fa propria. Altrimenti si finisce per combattere un uomo di paglia, un fantoccio teologico buono per i pamphlet, non per la filosofia.
Tu affermi, come se fosse un dato osservativo e non una massiccia assunzione filosofica: «Non esistono delle “essenze”, ma solo gli oggetti, gli eventi, lo spaziotempo». Ma questa, vedi, non è un’osservazione scientifica: è una tesi metafisica tanto quanto le nostre, solo assai meno argomentata. Tu la cali dall’alto in modo ben più apodittico di quanto accusi me di fare. Per noi, l’essenza non è altro che «ciò per cui e in cui l’ente ha l’essere» (id quo et in quo ens habet esse), ciò che definisce una cosa come quel tipo di cosa, rendendola intelligibile. Negarla significa ridurre la realtà a un flusso inintelligibile di accadimenti, cosa che nemmeno la tua amata scienza, che cerca costanti e leggi universali, si sognerebbe di fare. Questi sono temi di cui appunto si discute in ambito metafisico e non è un caso che l’essenzialismo, specie nella sua declinazione neo-aristotelica, sia attualmente una delle correnti maggiormente in crescita nel panorama della filosofia analitica.
Il tuo scandalo di fronte alla bontà di Dio, che giudichi «mostruosa e ripugnante», nasce dal volerla misurare con il metro finito e passionale della «sensibilità umana». Ma come insegna l’Aquinate, le perfezioni come la bontà si dicono di Dio e delle creature solo in modo analogo (secundum analogiam). Dio non ha la bontà come un attributo morale accanto ad altri; Egli è la Bontà stessa, così come è l’Essere stesso (ipsum Esse subsistens). La Sua Volontà non può che volere il Bene, che è Egli medesimo. Che questo non coincida con l’assenza di mali fisici o con la nostra consolazione sentimentale è un problema per la nostra comprensione, non per la coerenza di Dio.
Riprendi il mio accenno alla meccanica quantistica, notando che la questa ha verifiche sperimentali, mentre la metafisica tomista non ne ha. È però un paragone che non regge. La metafisica non cerca verifiche sperimentali; essa indaga le condizioni di possibilità di qualunque esperienza e di qualunque ente, inclusi gli oggetti della fisica. Si fonda sui primi principi dell’essere, come quello di non-contraddizione, senza i quali neppure il tuo naturalismo potrebbe essere pensato o enunciato. È, per sua natura, la scienza prima.
Affermi che in te c’è Ivan Karamazov, ma anche un’argomentazione razionale. Permettimi di dubitarne, con tutta la stima per la tua onestà. L’argomentazione che presenti è intrisa di quel medesimo sentimentalismo che, pur nobile, non può assurgere a criterio di verità. Combatti un Dio che la tua sensibilità trova «ripugnante», ma questo Dio non è quello di cui parla il teismo classico e in cui il Magistero della Chiesa cattolica, per esempio, professa la propria fede. È una proiezione, un idolo costruito a immagine e somiglianza della tua indignazione. La tua conclusione non è “Dio non esiste”, ma “Non voglio che un tale Dio esista”. È una posizione rispettabile, ma appartiene al foro interiore della passione, non a quello della ragione.
Anzitutto il mio non è uno pseudonimo: mi chiamo davvero Choam Goldberg, ho una vita, un lavoro, una famiglia, una storia. Il fatto che io sia un personaggio inventato e rappresentato da un’altra persona, la cui vita coincide solo in parte con la mia, non mi rende meno degno di attenzione e di rispetto. Se vuoi altri dettagli sulla mia vita, trovi la mia bio nel mio sito personale: https://www.choamgoldberg.com/. Inoltre i commenti nel mio blog sono aperti solo agli atei perché l’esperienza passata mi ha dimostrato che i contributi dei credenti sono per la grande maggioranza spazzatura intellettuale che fa perdere solo tempo. Non è il tuo caso, ma io la pretesa all’ingresso la lascio.
Certo che la mia è un’assunzione metafisica. Non ho mai negato la necessità di una metafisica. Solo che la mia metafisica è semplice, la tua no. Io non ho bisogno delle essenze per spiegare il mondo che osservo. «Ciò per cui e in cui l’ente ha l’essere» è una definizione che per me non ha alcun senso. Che significa che un ente *ha* l’essere? Un ente è. Ed è così come è, con tutte le sue proprietà individuali.
Tu parli di idee e di princìpi dei quali io non vedo alcuna necessità. Per esempio la finalità: “ogni agente agisce per un fine” sarà anche un principio cardine della metafisica tomista, ma se conduce a speculazioni sul fine dell’azione di un elettrone sinceramente più che inutile mi sembra ridicolo. Quale mai sarebbe il fine dell’elettrone? La finalità nel cosmo la vedi tu perché la vuoi vedere, non perché c’è. E tu vedi nel cosmo una finalità perché proietti su di esso un modo di pensare peculiare degli umani, del quale però la Natura non ha alcun bisogno. Mi spiego con un esempio. Il reverendo Paley va a spasso per la campagna e trova un orologio e pensa che un oggetto così complesso deve per forza avere un artefice intelligente, che lo ha fabbricato con un fine ben preciso. Paley ha un buon motivo per pensarlo, poiché vede l’alternativa possibile all’orologio: la stessa materia dell’orologio, ma disordinata e sparpagliata. Ottimo anche il tuo esempio della biblioteca: siccome la biblioteca è ordinata, allora un bibliotecario deve averla ordinata. L’alternativa possibile è evidente: montagne di libri gettati alla rinfusa in ogni angolo. Con una ingiustificata analogia, tu – e prima di te Tommaso e tutti gli altri, ovviamente – pensi che, siccome c’è un ordine mirabile nella Natura, allora ci deve essere un artefice intelligente. Già, ma sei sicuro che un’alternativa sia possibile? Sei sicuro che la Natura sarebbe potuta essere disordinata e priva di leggi? Io dico che la Natura è come è e basta, con il suo ordine mirabile. E non per questo diventa un flusso inintelligibile di accadimenti, proprio perché nella Natura c’è un ordine mirabile.
La Natura è un fatto bruto che io mi limito a registrare? Esatto. Non vedo che cosa ci sia da spiegare. D’altronde pure tu hai il tuo fatto bruto che non spieghi: Dio. Usi Dio per spiegare la Natura, ma poi non spieghi Dio se non dicendo che Dio è e basta. Ebbene, io mi fermo un passo prima: la Natura è e basta.
Voi credenti credete in quel Dio lì, con quelle caratteristiche lì. Ok, so’ scelte. Avrete i vostri motivi: le esperienze, la cultura, l’educazione, le sensazioni interiori, va’ a sapere. Non sono affari miei. Dopodiché però alcuni fra voi si rendono conto dei grossi problemi con quel Dio lì quando lo confrontate con la realtà dei fatti. Non sto parlando di te oggi. Anche, ma non solo. Sto parlando dei teologi che, fin dai primi secoli del cristianesimo, sono andati a sbattere contro la realtà. A quel punto l’onestà intellettuale imporrebbe di rinunciare all’ipotesi. Ma non si può, perché l’ipotesi è intoccabile, l’ipotesi è una scelta pregressa e indiscutibile e perfino indubitabile. Cioè un dogma. Tocca inventare qualcosa. Questo qualcosa è appunto la filosofia tomista: un Dio costruito a tavolino apposta per evitare che si scontri con la realtà. Un Dio che riuscite a definire buono anche se fa morire male i bambini, anche se *vuole* far morire male i bambini. Un Dio che giudica e condanna e punisce chi fa morire male i bambini, ma lui per primo lo fa perché tanto chissenefrega, lui è un’altra cosa per definizione, perché voi lo avete ridefinito. Un’idea astratta: il Bene, la Bontà, l’Ipsum Bonum Subsistens, l’Atto Puro. Come possa poi questa idea astratta essere anche una persona e avere una volontà e prendere delle decisioni e dare ordini e premiare e punire e infine addirittura diventare un uomo fatto di atomi mica lo hai spiegato però.
Per tenere in piedi questo Dio fatto su misura, inventate – i teologi tomisti hanno inventato – assurdità come il Male che sarebbe l’assenza di Bene. E dite cose come “la malattia è l’assenza della salute”. Eh? Questo sarebbe vero se esistesse un umano perfettamente sano. Ma un umano perfettamente sano non esiste. Oppure sì? Se sì, mostramelo. Qualsiasi umano reale tu mi mostri, io riuscirò a scovare un piccolo acciacco o un malessere che lo renderà imperfetto. L’essere umano ideale e perfetto nell’Iperuranio è un’idea che Platone si è inventato – con tutti i danni enormi che ha provocato quando poi è stato assimilato dal cristianesimo – ma della quale io non vedo alcuna necessità. La malattia è nient’altro che una fonte di disagio, di fastidio o di dolore di un preciso essere umano, proprio quello lì e non un altro, del quale quell’essere umano reale desidera liberarsi il più rapidamente possibile. Un tumore è un tumore, un’infezione è un’infezione, non una mancanza in una salute che altrimenti sarebbe perfetta.
Potrei proseguire punto per punto, concetto per concetto. Ma non voglio dilungarmi.
La metafisica tomista non cerca verifiche sperimentali? Ok, ma non è quella la differenza fondamentale, che invece sta nella diversa necessità epistemica. Il paragone lo hai proposto tu, quando hai cercato di farmi passare per il sempliciotto che non vuole andare oltre Newton. Se io voglio capire la Natura, ho bisogno della meccanica quantistica: funziona, è semplice ed elegante, è concettualmente economica, spiega tante cose, permette di prevederne tante altre. Invece se io voglio spiegare il mondo sul piano filosofico non ho bisogno della metafisica tomista e del suo armamentario di idee, concetti, categorie, princìpi che vanno ben oltre il principio di non contraddizione. E insieme a me tante scuole di pensiero naturaliste, che la metafisica tomista l’hanno superata da un pezzo. Tu tieniti il tuo tomismo e io mi tengo il mio naturalismo panteista.
Infatti dalla tua risposta al mio articolo sembra che, se qualcuno non aderisce alla metafisica tomista, allora poveretto: dev’essere o ingenuo o ignorante oppure mosso da emozioni che obnubilano la sua ragione, perché ormai la filosofia tomista spiega tutto quello che c’è da spiegare. Ecco, anche no. Le emozioni ci sono e giocano un ruolo – non l’ho mai negato – ma la ragione viene ancora prima. Ed è una ragione diversa dalla metafisica tomista. E pure più semplice, più economica.
Aggiungo un’ultima cosa, sebbene l’abbia già scritta nel mio articolo: se davvero pensate che Dio sia come lo hai descritto, se davvero quella è la teologia ufficiale della Chiesa cattolica, allora per essere onesti dovete spiegarlo anzitutto agli altri credenti. Perché davvero là fuori ci sono persone che credono – sinceramente credono, con tutto il cuore credono – che pregando otterranno la grazia da un Dio che le ama e si preoccupa di loro e desidera il loro Bene e che quel Bene non è solo tenerle nell’esistenza ma soprattutto alleviare le loro sofferenze qui e ora. Qualcuno dirà: «Eh, ma se crederci le fa stare meglio, perché noi dovremmo rivelare loro la verità, ossia che Dio fondamentalmente delle loro sofferenze se ne frega e, pur potendo aiutarle, non vuole farlo?». Per onestà, ecco perché dovreste. Perché la Verità è un valore. Non lo dico io. Lo diceva quello là, che sosteneva di essere lui stesso la Verità.
Non so se vuoi andare avanti. Secondo me le posizioni sono chiare e non arriviamo comunque da nessuna parte, però vedi tu.
Mio caro Goldberg,
mi ero risolto a considerare concluso il nostro piccolo cimento intellettuale, non per mancanza di argomenti, ma per un senso di economica processuale: quando le premesse sono così radicalmente divergenti, il dialogo rischia di trasformarsi in un monologo a due voci. Tuttavia, la tua ultima replica, pur ribadendo posizioni a me già note, mi offre lo spunto per un chiarimento più disteso e, spero, definitivamente illuminante su alcuni punti che, a mio avviso, continui a fraintendere in modo piuttosto macroscopico. Accetta dunque questo mio ultimo sforzo non come una polemica, ma come il tentativo di tracciare una mappa accurata di due mondi filosofici, affinché sia chiaro, almeno, perché non riusciamo a incontrarci.
Partiamo, ancora una volta, dalla questione della tua identità, che tratti con una certa leggerezza esistenziale. Io sono un realista. Per un filosofo realista, le parole hanno un peso e si ancorano all’essere. Quando parliamo di un individuo esistente nel mondo, come un uomo, non parliamo di un’idea astratta o di una narrazione, per quanto avvincente. Parliamo di una sostanza prima, un “questo qui” irriducibile. Nella tradizione aristotelico-tomista, ciò che fa di un ente materiale un individuo singolo e non un concetto universale è la sua materia, non una materia qualsiasi, ma la materia signata quantitate – la materia determinata da dimensioni concrete, qui e ora. È questa carne, queste ossa, questo specifico agglomerato di atomi che occupa una porzione definita di spaziotempo, a costituire Socrate come Socrate e non come la mera idea di “uomo”.
Tu mi dici di avere una vita, una famiglia, una storia. Ma queste sono le proprietà di un personaggio. Esistono come testo, come narrazione. Un realista distingue tra un ens reale, un ente che possiede il suo atto di essere in se stesso (ens per se existens), e un ens rationis, un ente che esiste solo nell’intelletto che lo concepisce. Un unicorno, un ippogrifo, o Choam Goldberg, appartengono a questa seconda categoria. La loro “esistenza” è parassitaria, dipende interamente da una mente – quella del tuo autore, quella dei tuoi lettori. Non è un giudizio di valore sulla tua dignità letteraria, che può essere altissima, ma una classificazione ontologica fondamentale. Confondere questi due piani è il primo passo verso quel mondo di idee slegate dalla realtà che Platone, a suo tempo, fu accusato di aver inaugurato.
Questo ci porta al cuore del nostro disaccordo: la confusione tra l’argomento dell’orologiaio di Paley e la Quinta Via di San Tommaso. Ti ringrazio per avermi dato l’opportunità di chiarire questo punto, perché è uno degli errori più diffusi e tenaci nella critica al teismo classico. Tu continui a sferrare colpi contro Paley, e fai anche bene, ma la tua spada trafigge solo un fantoccio che non ci appartiene.
L’argomento di Paley, esposto nella sua Natural Theology del 1802, è un’argomentazione per analogia. Egli dice: se camminando in una brughiera trovassi una pietra, potrei pensare che sia sempre stata lì; ma se trovassi un orologio, con la sua complessità e il suo evidente ordinamento a un fine (segnare l’ora), dovrei necessariamente concludere che ha avuto un artefice intelligente. Allo stesso modo, osservando la complessità e l’apparente disegno dell’universo, dovremmo concludere che esiste un Divino Orologiaio. È un argomento induttivo, a posteriori, basato su un’analogia tra un prodotto umano e il cosmo. La sua debolezza, che tu stesso intravedi, sta nel fatto che l’analogia è imperfetta. Non abbiamo un “universo disordinato” con cui confrontare il nostro per poter inferire il disegno.
La Quinta Via dell’Aquinate, l’argumentum ex gubernatione rerum, è di tutt’altra natura. Non è un argomento basato sulla complessità, ma sulla finalità intrinseca. È un’argomentazione deduttiva che parte da un’osservazione metafisica. San Tommaso scrive nella Summa Theologiae: «Vidimus enim quod aliqua quae cognitione carent, scilicet corpora naturalia, operantur propter finem» (“Vediamo infatti che alcune cose che sono prive di conoscenza, cioè i corpi naturali, agiscono per un fine”). Come lo “vediamo”? Non con gli occhi del corpo, ma con l’intelletto che astrae dalla realtà. Lo vediamo dal fatto che «semper aut frequentius eodem modo operantur, ut consequantur id quod est optimum» (“agiscono sempre, o per lo più, allo stesso modo, per conseguire ciò che è meglio”).
Questo “meglio” non è un giudizio morale, ma il raggiungimento della perfezione propria di quella natura. Un seme di ghianda non diventa un pino o un sasso; diventa una quercia. Un elettrone si comporta costantemente secondo le leggi della fisica che definiscono il suo essere elettrone. Questa tendenza costante verso un fine specifico è ciò che Tommaso chiama finalità. Tu chiedi, con ironia, quale sia il fine dell’elettrone. Il suo fine è essere un elettrone, attualizzare la sua forma, agire secondo la sua natura e partecipare all’ordine complessivo dell’universo. La finalità non implica una coscienza o un “progetto” nell’elettrone stesso.
Qui arriva il passo decisivo dell’argomento tomista: «Ea autem quae non habent cognitionem, non tendunt in finem nisi directa ab aliquo cognoscente et intelligente, sicut sagitta a sagittario» (“Ora, le cose che non hanno conoscenza non tendono a un fine se non dirette da un essere conoscente e intelligente, come la freccia dall’arciere”). La freccia non sa dove sta andando. La sua direzione verso il bersaglio non è sua, ma è l’intelligenza dell’arciere impressa nel suo moto. Allo stesso modo, quando miliardi di enti privi di conoscenza agiscono costantemente per un fine, questa loro tendenza ordinata non può venire dal caso o da loro stessi. Deve essere l’impronta di un Intelletto ordinatore che ha stabilito la loro natura e il loro fine. Non si tratta di un’analogia esterna come quella di Paley, ma della necessità di una causa per un effetto osservato: la finalità intrinseca richiede un ordinatore intelligente. L’argomento non riguarda quanto l’universo sia “bello” o “complesso”, ma il fatto che i suoi componenti agiscano in modo intelligibile e finalizzato.
Passiamo al tuo rifugio nel “fatto bruto”. Tu dici: “La Natura è come è e basta… io mi fermo un passo prima”. Affermi che, come io ho Dio come fatto bruto non spiegato, tu hai la Natura. Ma questo è un falso parallelismo, un errore categoriale. La Natura che tu osservi, l’universo fisico, è un immenso aggregato di enti la cui esistenza è palesemente contingente. Un albero, una stella, un atomo, esistono, ma la loro esistenza non è necessaria. Potrebbero non esistere. In termini filosofici, in ogni ente creato la sua essenza (ciò che esso è) è realmente distinta dal suo atto di esistere (esse). L’esistenza è qualcosa che l’ente ha, non qualcosa che è. Il suo essere è ricevuto, partecipato. Ora, una catena di enti contingenti, per quanto infinita, non può essere la causa ultima della propria esistenza. Sarebbe come se un’intera catena di vagoni ferroviari si muovesse senza una locomotiva. L’esistenza contingente esige, per il principio di ragione sufficiente, una causa la cui esistenza non sia a sua volta contingente. Esige un Ente che non ha l’essere, ma che è il suo stesso essere. Un Ente la cui essenza coincide con il suo esistere, un Essere la cui natura è esistere. Questo è l’Essere Necessario per se stesso, ciò che Tommaso chiama Ipsum Esse Subsistens. Dunque, il nostro non è un “fatto bruto” come il tuo. È il solo e unico Ente che non è “bruto” ma assolutamente intelligibile, in quanto fondamento ultimo di ogni essere e di ogni intelligibilità. Fermarsi alla Natura non è semplicità; è rinunciare alla spiegazione al penultimo passo.
Infine, la tua perenne difficoltà con il concetto del male come privatio boni. Con un sospiro, ti chiedo di seguirmi. Quando dici che un tumore “è un tumore”, e non una “mancanza”, non ti accorgi di cadere in una trappola nominalista. Certo che un tumore è un ente fisico, un ammasso di cellule. Ma perché lo giudichiamo un “male”? Perché lo facciamo se non perché riconosciamo che esso rappresenta una corruzione, una privazione dell’ordine e della funzione propri di un organismo sano? Il male non è un’entità positiva, non è una “cosa”. È l’assenza di un bene che dovrebbe esserci, un bonum debitum. La cecità è un male non perché sia una “cosa”, ma perché è la privazione della vista in un soggetto la cui natura è fatta per vedere. La tua stessa indignazione morale di fronte al dolore e alla sofferenza, che ti onora, perde ogni fondamento razionale se non si ammette un ordine di bene che quella sofferenza viola. Senza una norma teleologica, senza una nozione di “salute” come bene dovuto alla natura umana, un bambino che muore di cancro sarebbe solo un evento biologico tra tanti, né più né meno deprecabile di una stella che collassa. È la tua stessa sensibilità a tradire il tuo nominalismo.
Ecco, mio caro Goldberg. Ho cercato di mostrarti che le nostre non sono solo opinioni diverse, ma visioni del mondo radicate in metafisiche incompatibili. La tua, un naturalismo che si vanta di una semplicità che a me pare una rinuncia. La mia, un realismo metafisico che, pur nella sua complessità, cerca di rendere ragione della totalità del reale, dal moto di un elettrone all’esistenza del pensiero stesso. Parliamo davvero lingue diverse. La mia è quella della filosofia perenne, che cerca l’adaequatio rei et intellectus, la conformità dell’intelletto alla realtà. La tua, con tutto il rispetto per la sua coerenza interna, rimane la lingua di una brillante finzione letteraria. E tra la realtà e la finzione, da realista inguaribile, ho già fatto la mia scelta. Passo e chiudo.
Come prevedevo, non c’è modo di capirsi.
Sorvolo sulla mia natura reale o immaginaria e sulla sua connessione con le idee platoniche nell’Iperuranio. Lascia perdere la persona mia o di chi mi ha inventato e restiamo sul piano degli argomenti. Non ha importanza se questi argomenti li espone un Choam letterario che vive a Lugano o un Luigi materiale che vive a Catania. Importa che gli argomenti siano convincenti.
Non posso che ribadire il mio giudizio sull’inutilità dei concetti che tu proponi.
Ridagli con la finalità, per esempio. Tommaso e tu con lui dite che tutti i corpi naturali agiscono con il fine di adempiere alla perfezione della propria natura: questa è la loro finalità intrinseca. Siccome hanno questo fine, qualcuno quel fine deve averglielo dato. Bah. Per me è tutta roba inutile. Non c’è alcuna perfezione e dunque non c’è alcuna finalità. Ogni ente naturale si comporta nel modo descritto dalle leggi naturali. Prendi la ghianda che diventa quercia, per esempio. Perché diventare una quercia dovrebbe essere la perfezione della natura della ghianda? Magari nel DNA di quella ghianda c’è una mutazione che produce una quercia deforme. Tommaso direbbe: certo, perché quella ghianda mutante e quella quercia deforme soffrono del limite creaturale e subiscono il Male. Però – vedi un po’ – quella quercia deforme è un organismo vitale, perfino più adatto alla sopravvivenza delle querce tradizionali. Si riproduce, si espande, diventa una nuova specie che noi chiamiamo puercia. Le ghiande delle puerce crescono e diventano puerce adulte, integrate e vitali nel proprio ecosistema. Perciò adesso la loro perfezione è diventare puerce, mentre prima diventare puerce era un’imperfezione? Sorvolo sull’elettrone la cui perfezione consisterebbe nel seguire le leggi di Natura che lo definiscono come elettrone, perché è un’altra insensatezza: le leggi di Natura non definiscono proprio niente, le leggi di Natura semmai descrivono. Tutto questo discorso non sta in piedi. Non c’è alcuna finalità metafisica. Nel caso dei viventi c’è solo una finalità materiale: sopravvivere. Qualcuno ci riesce, qualcuno no, ma non per questo i primi si avvicinano alla perfezione più dei secondi.
Passiamo al fatto bruto e alla differenza fra la Natura e Dio. L’esistenza degli enti naturali è palesemente contingente, tu dici. L’avverbio tradisce il tuo pregiudizio: sarà palese per te, ma per me non lo è affatto. Tu affermi che potrebbero anche non esistere. E come lo sai? Presumo perché puoi immaginare tanti mondi possibili nel quale ciascuno degli enti naturali non esiste. Se è così, anche il tuo Dio è contingente. Infatti io riesco benissimo a immaginare un mondo possibile nel quale Dio non esiste. Anzi io non lo immagino: io so di vivere proprio in un mondo senza Dio. Dunque come fai tu a sapere che gli enti naturali sono contingenti e potrebbero non esistere? Io dichiaro che sono necessari. Necessari per definizione. Ontologicamente necessari, proprio come sarebbe il tuo Dio se esistesse. La mia pretesa della necessità degli enti naturali è gratuita, è un atto di fede come la tua pretesa per Dio? Vero. Però la mia è più semplice.
Il caso del tumore rivela clamorosamente la stessa insanabile incomprensibilità reciproca. Pure io con un sospiro – che pazienza ci vuole, uno con l’altro – provo a rispiegarti perché il tumore è un Male dal punto di vista del mio naturalismo panteista. In sintesi estrema: il tumore è un Male perché provoca sofferenza. Non ho bisogno di scomodare perfezioni e beni che dovrebbero esserci ma non ci sono. No no: la sofferenza e basta. Un dato esperienziale, un altro fatto bruto. E sì, un bambino che muore di cancro per la Natura è un evento biologico come una gazzella sbranata da un leone, così come una stella che collassa è un evento fisico. Il Bene e il Male non stanno nell’Iperuranio. Il Bene e il Male sono giudizi di valore soggettivi degli enti senzienti fondati sulla sofferenza individuale. La morte di cancro del bambino è un Male per lui e per chi lo ama. Quando il bambino sarà morto, la sua morte sarà un Bene per i microrganismi che decomporranno il suo cadavere. Il pasto del leone è un Male per la gazzella e un Bene per il leone. La stella che collassa non è né un Bene né un Male, se le radiazioni emesse dalla supernova non provocano il dolore di qualche essere senziente. Nessuno di questi eventi è deprecabile per la Natura. Alcuni lo sono per me, perché io detesto la sofferenza: è un mio istinto naturale. Come ho scritto nell’articolo, è razionale e non lo è. È razionale perché deriva dalla Natura, come ogni istinto. E non è razionale perché non posso dimostrarti che combattere il Male è giusto, è la cosa migliore da fare, così come ti posso dimostrare l’esistenza del bosone di Higgs.
Sì, le nostre metafisiche sono incompatibili e le nostre lingue sono differenti. Per ottenere il risultato di rendere ragione del reale, la metafisica tomista introduce finalità e perfezioni che per il mio naturalismo sono inutili. Perché lo fate? Perché dovete salvare la vostra Verità di fede, perché avete deciso a priori che il vostro Dio esiste. Io non ho bisogno di questa ipotesi e soprattutto non ho bisogno di dogmi.
Mi sembra – sospiro – che stiamo ribadendo sempre gli stessi concetti, sia tu sia io. Possiamo andare avanti, se vuoi insistere, ma temo che continueremmo fino al decadimento dell’ultimo protone. O al Giudizio universale, dal tuo punto di vista.
Mio caro Goldberg,
mi ero onestamente ripromesso di considerare concluso il nostro piccolo cimento intellettuale, tuttavia, confesso di provare un certo diletto in questo nostro scambio e, se mi permetti la sincerità, un così genuino stupore di fronte ad alcuni snodi del tuo pensiero, che non posso esimermi dal replicare un’ultima volta. Il tuo commento è un tale compendio di letture creative della tradizione classica che se ne potrebbe fare un piccolo caso di studio. Ti prego, dunque, di accogliere queste mie parole non come l’ennesimo round di una disputa, ma come il tentativo pacato di dipanare, punto per punto, alcuni nodi concettuali che, mi pare, continuano a sfuggirti, conducendoti a conclusioni che tu ritieni sensate, e che a me appaiono semplicemente il frutto di un profondo fraintendimento.
Affrontiamo di nuovo la questione della finalità, che liquidi con una certa impazienza attraverso l’ameno apologo della “puercia”. In realtà, mio caro amico, il tuo esempio, lungi dal confutare la nozione di finalità, la illustra in modo quasi perfetto, se solo si avesse la pazienza di analizzarlo con un briciolo di rigore in più. Tu affermi che non esiste alcuna “perfezione”, e quindi alcuna finalità. Qui si cela il primo equivoco, radicato in una comprensione quasi caricaturale del termine. Nel linguaggio della filosofia perenne, la “perfezione” (perfectio) di un ente non ha nulla a che vedere con un vago ideale estetico o con un’immobile impeccabilità. È un termine tecnico che indica la piena attualizzazione di un ente, il suo completo dispiegarsi secondo le potenzialità inscritte nella sua natura. È il passaggio dalla potenza all’atto. Si distingue una perfectio prima, che è l’essere stesso della cosa secondo la sua forma sostanziale (il fatto che una ghianda sia una ghianda nella sua struttura intelligibile), e una perfectio secunda, che è l’operazione che da tale forma consegue e che la porta al suo compimento (il processo per cui la ghianda, agendo secondo la sua natura, diviene una quercia adulta). La causa finale non è un progetto esterno imposto alla realtà da un burattinaio celeste, ma è questa tendenza intrinseca, questo dinamismo orientato che ogni ente possiede in virtù di ciò che è. Unumquodque, inquantum est in potentia, tendit in suum actum: et omnis actus est bonus, quia bonum est melius suo non bono. Ogni cosa, in quanto in potenza, tende al proprio atto; e ogni atto, in quanto è un compimento dell’essere, è un bene.
Analizziamo ora, con la dovuta serietà, la tua “puercia”. Una ghianda normale possiede la forma sostanziale della quercia. Il suo fine intrinseco è diventare una quercia matura. Se una mutazione interviene, essa, dal punto di vista della forma “quercia”, è oggettivamente un difetto. È una privatio, una mancanza rispetto al fine inscritto in quella specifica natura. La tua “quercia deforme” è appunto de-forme, privata di una pienezza di forma che le era dovuta per natura. Fin qui, spero, concorderai che la logica è stringente. Ma ecco il tuo colpo di scena: la creatura mutante si rivela più adatta, sopravvive e fonda una nuova specie. Magnifico! Ciò che tu hai descritto, con apprezzabile fantasia, non è altro che un possibile meccanismo di speciazione. E cosa accadrebbe, da un punto di vista metafisico? Se la “puercia” si stabilizzasse come una nuova specie, con caratteristiche proprie e capacità riproduttiva, ciò significherebbe che è emersa una nuova forma sostanziale, una nuova natura stabile e intelligibile. E con una nuova forma, si stabilisce una nuova finalità intrinseca. Il fine di un seme di “puercia” sarà ora, per natura, quello di diventare una “puercia” matura, non una quercia. Il principio non è stato abolito, ma semplicemente riapplicato alla nuova realtà. La finalità, infatti, segue l’essere e la sua forma specifica: operari sequitur esse, l’agire di una cosa consegue al suo essere. Tu non hai eliminato la finalità, l’hai semplicemente vista sorgere in una nuova forma. Per negarla davvero, dovresti dimostrare che gli enti naturali agiscono in modo puramente caotico e casuale, una tesi che renderebbe la scienza stessa, con la sua ricerca di leggi costanti e di regolarità predittive, un esercizio del tutto futile. Quando poi affermi che le leggi di natura “descrivono, non definiscono”, cadi in un classico equivoco nominalista. Per un realista, le leggi fisiche sono la nostra formulazione concettuale delle disposizioni e potenze causali inerenti alle cose, che scaturiscono dalla loro natura intrinseca. La descrizione è possibile solo perché c’è una realtà strutturata e definita da descrivere.
Passiamo ora alla tua audace mossa sulla contingenza, dove il tuo ragionamento si fa, se possibile, ancora più avventuroso. Tu contesti il mio uso dell’avverbio “palesemente”, sospettando un pregiudizio. Forse il termine è stato troppo assertivo, ma si riferiva a una conclusione che scaturisce dall’osservazione più basilare e ineludibile della realtà, non da un assunto aprioristico. L’argomento per la contingenza del mondo non si basa, come tu sembri credere, sulla nostra capacità di immaginare mondi alternativi. È una confusione molto comune, quasi un luogo canonico della critica dilettantistica, ma è fondamentale dirimerla. La contingenza non è una possibilità psicologica, ma una caratteristica metafisica che constatiamo a posteriori nel mondo reale: le cose nascono e muoiono, cambiano, si generano e si corrompono. L’albero fuori dalla mia finestra un tempo non c’era e un giorno non ci sarà più. Questo suo essere soggetto al divenire è il segno inequivocabile che la sua esistenza non è una necessità della sua natura. La sua essenza (l’essere un albero) non include in sé l’atto di esistere. Come afferma l’Aquinate, quod possibile est non esse, quandoque non est (“ciò che è possibile che non sia, talvolta non è”).
Tu ribatti che puoi benissimo immaginare un mondo senza Dio. Certo che puoi. La tua immaginazione può concepire molte cose che non sono metafisicamente possibili. Ma questo non ha alcuna attinenza con la necessità dell’Essere divino. Poi fai un passo ulteriore, il più temerario di tutti: “Io dichiaro che [gli enti naturali] sono necessari. Necessari per definizione”. E ammetti la gratuità di questa mossa, giustificandola come “più semplice”. Mio caro Goldberg, la ricerca filosofica non è una gara a chi formula l’assioma più sbrigativo, ma un tentativo di rendere ragione della realtà. Definire “necessario” ciò che l’esperienza di ogni istante ci mostra come mutevole, dipendente e corruttibile, non è semplicità: è un atto di arbitrio intellettuale, un chiudere gli occhi di fronte all’evidenza per non dover affrontare la domanda che ne consegue. È una posizione che non spiega nulla, ma si limita a negare il problema con un decreto. La nostra posizione, al contrario, non postula Dio come un assioma, ma vi giunge come conclusione necessaria di un ragionamento che parte proprio da quella realtà contingente che tu vorresti ridefinire per fiat. Il tuo è un atto di fede in qualcosa che l’esperienza contraddice; il nostro è un assenso a una conclusione che la ragione esige.
Infine, eccoci di nuovo di fronte al problema del male, che tu credi di risolvere riducendolo alla sofferenza soggettiva. E anche qui, con pazienza, provo a mostrarti come questa via, apparentemente pragmatica, conduca a un’aporia insostenibile. Se il bene e il male sono meri giudizi soggettivi, legati alla sofferenza o al piacere individuale, allora la tua stessa indignazione morale, che pure ti onora, perde ogni fondamento razionale. La morte della gazzella è un male per la gazzella, ma un bene per il leone. La cancrena che corrompe l’arto è un male per il bambino, ma un bene per i batteri. Se le cose stanno così, su quale base oggettiva puoi tu affermare che la tua personale detestazione della sofferenza è un valore universale? Perché il tuo “istinto” dovrebbe prevalere su quello del leone? Se non esiste un bene oggettivo radicato nella natura delle cose, la tua lotta contro il “male” si riduce a una preferenza personale, emotivamente comprensibile ma razionalmente arbitraria. La visione classica, al contrario, fornisce un fondamento solido proprio a quella stessa indignazione che tu senti. Il dolore è l’esperienza soggettiva di un male, ma quel male ha una sua oggettività: è la privatio boni debiti, la privazione di un bene dovuto a una certa natura. Un tumore è un male oggettivo perché priva un corpo umano della salute, che è la sua pienezza funzionale, il suo bene intrinseco. È proprio perché la vita e l’integrità fisica sono un bene oggettivo che la loro privazione è un male oggettivo. E la tua reazione emotiva a questo male, di conseguenza, non è un mero “istinto”, ma una risposta appropriata e razionale alla percezione di un disordine ontologico. Tu, per poter condannare il male, devi implicitamente presupporre quell’ordine di bene che a parole vorresti negare.
Mi accusi, in chiusura, di fare tutto questo per “salvare un dogma di fede”. È un’accusa antica e, francamente, un po’ stantia, nota come fallacia genetica. Si attacca la presunta motivazione dell’interlocutore invece di confrontarsi con la forza dell’argomento. Le conclusioni della metafisica classica, che ho tentato di esporti, si reggono sulla loro coerenza interna e sulla loro capacità di rendere ragione dell’esperienza. Sono un edificio del pensiero, non un puntello per la fede. La nostra incompatibilità, temo, è reale. Ma non risiede nel fatto che una filosofia sia “inutile” e l’altra “necessaria”. Risiede in un diverso approccio fondamentale alla ricerca della verità. Da un lato, vi è il tentativo di costruire, passo dopo passo, un sistema razionale che cerchi di abbracciare la realtà in tutta la sua complessità. Dall’altro, mi sembra di vedere un approccio che, partito da una conclusione prestabilita, si affanna a semplificare e a ridefinire, pur di non rimetterla in discussione. Forse, alla fine, il nostro dialogo non è stato inutile. Se non a convincerci a vicenda, almeno a illuminare con chiarezza la natura del bivio da cui le nostre strade si sono separate. E prendere atto di un dissenso così profondo, con onestà, è già un risultato filosoficamente non trascurabile.
E ora chiudo davvero, in senso letterale, questo confronto che, come tu stesso ammetti, è destinato a non portarci da nessuna parte.
Complimenti Adriano, davvero una ottima disamina che risponde, in modo definitivo, alla sfida della teodicea proposta dal critico. Approvo completamente il fatto di non rispondergli ulteriormente perché il critico usa spesso l’arma del turpiloquio e della denigrazione contro chi sostiene idee diverse dalle sue. Anche io ho risposto alla sua sfida sul problema del male con un mio articolo che è stato pubblicato sul “Club Theologicum”…e non ho altro da aggiungere
Complimenti Adriano, per aver risposto con pazienza e profondità ammirevoli alle provocazioni retoriche dell’ateo medio di oggi. Provocazioni sterili perche chiuse ad un reale confronto con il più ampio orizzonte del pensiero umano, che è per sua natura, ontologicamente aperto alla metafisica.
Purtroppo sappiamo bene che sarà uno sforzo inutile, se il fine è quello di far ragionare un ateo arrabbiato, che rifiuta l’umiltà creaturale e non vuole (non può) riconoscere le aporie e contraddizioni in cui cade continuamente, non capendo che l’indignazione per la sofferenza innocente PRESUPPONE l’idea di sacralità della vita, di bene e male morale oggettivi, che non esistono senza un FONDAMENTO METAFISICO TRASCENDENTE ASSOLUTO: DIO. E quindi per negare, affermano ciòche vorrebbero negare, come hai espresso molto bene).
Ma il tuo è un contributo impagabile per chi, come noi, è genuinamente aperto al Vero, al Bello, al Buono, per chi coltiva un afflato spirituale e un desuderio sincero di ricerca filosofica della Verità. In quest’ottica hai offerto un servizio veramente prezioso, per il quale ti ringrazio.
Il peccato di Lucifero, l’orgoglio che fa mettere l’io al posto di Dio, è la radice di ogni peccato. Ecco perché la chiusura di questi atei alla comprensione metafisica è invincibile, e sembra sempre di parlare a un muro, quando si tenta un dialogo con loro. Hanno la mente e il cuore chiusi dall’interno, e niente e nessuno, dall’esterno, può illuminarli. Neanche Dio, se non decidono di farLo entrare. Ma qui sta il mistero dei misteri, IL CUORE DELL’UOMO, l’abisso insondabile. E noi non possiamo che fermarci, e fare umilmente ciascuno la nostra parte come meglio possiamo. Il resto va lasciato a Dio.
Un caro saluto 👋
Alessandro Franchi
Conversione Costante