La donna, il silenzio e la legge: Paolo scrisse davvero 1 Corinzi 14,34-35?

Introduzione

All’interno della Prima Lettera ai Corinzi, uno degli scritti più vibranti e pastoralmente complessi del Nuovo Testamento, si annida un passaggio che ha causato secoli di dibattito e, per molti, di profondo disagio. Si tratta dei versetti 34 e 35 del capitolo 14, dove l’apostolo Paolo sembra imporre un silenzio assoluto e inappellabile alle donne durante le assemblee cristiane: “Come si fa in tutte le chiese dei santi, le donne tacciano nelle assemblee, perché non è loro permesso di parlare; stiano sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualcosa, interroghino i loro mariti a casa; perché è vergognoso per una donna parlare in assemblea”.

Queste parole suonano come una sentenza definitiva. Tuttavia, esse creano una stridente dissonanza con quanto lo stesso Paolo aveva scritto solo tre capitoli prima. In 1 Corinzi 11,5, l’apostolo non solo permette, ma regola con precisione le modalità con cui le donne possono “pregare o profetizzare” durante il culto. Come può Paolo regolamentare un’attività in un capitolo per poi proibirla categoricamente in un altro? Questa palese contraddizione ha spinto un numero crescente di studiosi a sostenere una tesi radicale ma persuasiva: questi due versetti non furono scritti da Paolo. Sarebbero un’interpolazione, una glossa marginale aggiunta da un copista successivo.

Questo articolo intende esplorare la questione, analizzando gli argomenti a favore e contro l’autenticità del passo. Lo faremo attingendo agli strumenti dell’esegesi biblica, come quelli offerti nei commentari di studiosi come C.K. Barrett, Rinaldo Fabris, Friedrich Lang e Giancarlo Biguzzi, e cercando di valutare la coerenza teologica di questi versetti all’interno del quadro più ampio del pensiero paolino, con un’attenzione particolare alla visione di Paolo proposta da Gabriele Boccaccini.

Il caso a favore dell’interpolazione

La tesi che 1 Corinzi 14,34-35 sia un’aggiunta posteriore non si basa su un singolo indizio, ma su una convergenza di prove di diversa natura: testuali, contestuali e teologiche. Come vedremo, il peso di questi argomenti è considerato da molti, tra cui Giancarlo Biguzzi nel suo studio specialistico Velo e silenzio, quasi schiacciante.

Primo, la prova testuale. La critica testuale, la disciplina che studia le antiche copie manoscritte per ricostruire il testo originale, offre l’indizio più forte. Sebbene la maggior parte dei manoscritti greci contenga questi versetti nella posizione attuale, un’importante e antica famiglia di testi, nota come “tradizione occidentale”, presenta un’anomalia decisiva. In questi manoscritti, tra cui spicca il Codex Claromontanus (VI secolo), i versetti 34-35 sono assenti in questo punto ma vengono inseriti alla fine del capitolo, dopo il versetto 40. Come spiega la maggior parte dei commentari critici, ad esempio quello di Barrett (1979), questo fenomeno di un testo “vagante” è un classico segnale di una glossa marginale. È facile immaginare uno scriba che, in un’epoca successiva, scrive un commento o una norma a margine del testo. I copisti successivi, incerti se quella nota facesse parte del testo originale, l’hanno inserita nel corpo del testo per non perderla, ma non essendo sicuri della sua posizione esatta, l’hanno collocata in punti diversi. La presenza di questi versetti in due posizioni differenti è una prova quasi inequivocabile della loro natura secondaria.

Secondo, la prova contestuale. Anche senza considerare i manoscritti, una lettura attenta del capitolo 14 rivela come i versetti 34-35 interrompano bruscamente il flusso del ragionamento di Paolo. L’intero capitolo è dedicato alla gestione ordinata dei doni spirituali, in particolare la glossolalia e la profezia. Paolo sta dando istruzioni su come questi doni debbano essere esercitati per l’edificazione (oikodomé) di tutta la comunità. Come notano commentatori attenti alla struttura letteraria come Rinaldo Fabris (1999), l’argomento scorre in modo perfettamente logico leggendo direttamente dal versetto 33 al versetto 36. Il richiamo a “tutte le chiese dei santi” nel v. 33 funge da introduzione alla domanda retorica e sferzante del v. 36 (“Forse che la parola di Dio è partita da voi?”), con cui Paolo rimprovera l’arroganza dei Corinzi. I versetti 34-35, con il loro divieto specifico per le donne, appaiono come un cuneo inserito in questo discorso, deviando l’attenzione su un argomento completamente nuovo.

Terzo, la prova teologica. Questo è l’argomento più potente. La contraddizione con 1 Corinzi 11,5, dove Paolo presuppone attivamente che le donne preghino e profetizzino, è palese. È teologicamente incoerente che Paolo dedichi sedici versetti a regolamentare un ministero femminile per poi, tre capitoli dopo, proibirlo senza appello. Inoltre, come sottolinea Biguzzi (1994), il linguaggio stesso dei versetti suona estraneo a Paolo. L’appello vago alla “legge” (“come dice anche la legge”) è atipico. Quando Paolo cita la Torah, è solitamente specifico. Qui, non è chiaro a quale legge si riferisca, dato che non esiste alcun comando esplicito nell’Antico Testamento che imponga il silenzio alle donne nelle assemblee. Questo stile di appello generico è, invece, molto più caratteristico degli scritti deutero-paolini, come le Lettere Pastorali (1 Timoteo 2,11-12), che riflettono una fase successiva di istituzionalizzazione della Chiesa.

Le difese dell’autenticità e i tentativi di armonizzazione

Nonostante la forza di queste prove, è doveroso presentare le argomentazioni di chi, come Friedrich Lang (2005) o Heinz-Dietrich Wendland (1976) nei loro commentari, espone anche le ragioni per cui si potrebbe difendere l’autenticità del passo. La prima linea di difesa si basa sul fatto che la stragrande maggioranza dei manoscritti, inclusi i più antichi papiri, contiene i versetti nella loro posizione attuale. Per alcuni, l’evidenza esterna a favore dell’autenticità è più forte di quella contraria.

Per risolvere la contraddizione teologica, vengono proposte diverse strategie di armonizzazione. Una delle più comuni, discussa anche da Franco Manzi (2014), è quella di restringere il significato del verbo “parlare” (lalein). Secondo questa tesi, Paolo non starebbe proibendo ogni forma di espressione vocale, ma solo un tipo specifico di “parlato”, come chiacchiere o domande inopportune che disturbavano lo svolgimento del culto. In questo caso, il divieto non si applicherebbe alla preghiera o alla profezia. Un’altra ipotesi, più raffinata, suggerisce che il “parlare” proibito sia l’atto di “discernere” o “giudicare” le profezie (menzionato in 14,29), un compito che Paolo potrebbe aver riservato ai leader della comunità.

Sebbene ingegnose, queste armonizzazioni, come nota Biguzzi (1994), appaiono spesso forzate. Il verbo lalein è usato da Paolo in tutto il capitolo per indicare sia il parlare in lingue sia la profezia. È difficile sostenere che, solo in questi due versetti, assuma improvvisamente un significato così ristretto.

La coerenza teologica e la prospettiva di Gabriele Boccaccini

Per una valutazione più profonda, è utile chiederci: questo divieto si inserisce coerentemente nel quadro generale della teologia di Paolo? Qui, la prospettiva di Gabriele Boccaccini (2019) diventa particolarmente preziosa. Boccaccini, nel suo Le tre vie di salvezza di Paolo l’ebreo, insiste nel ricollocare Paolo all’interno del suo mondo, quello del giudaismo del Secondo Tempio. Il Paolo di Boccaccini non è il fondatore di una nuova religione in rottura con l’ebraismo, ma un apostolo ebreo con una missione specifica: portare i gentili all’interno del popolo di Dio attraverso la fede in Gesù Cristo, senza imporre loro l’osservanza completa della Torah.

Le comunità fondate da Paolo, in questa visione, sono laboratori escatologici, luoghi in cui la potenza dello Spirito Santo anticipa all’interno delle riunioni di culto la realtà del Regno di Dio, superando barriere sociali. L’effusione dello Spirito, come profetizzato da Gioele, è per tutti, “figli e figlie” (Atti 2,17-18). La libertà carismatica e la partecipazione attiva di tutti i membri al culto sono il segno distintivo di queste comunità. Se consideriamo questo quadro teologico, il divieto rigido e legalistico di 1 Corinzi 14,34-35 appare come un corpo estraneo. Sembra un passo indietro rispetto alla visione di una comunità in cui “non c’è più uomo né donna” (Gal 3,28) in termini di accesso allo Spirito e al ministero. La logica di Paolo nei capitoli 11-14 è quella dell’ordine per l’edificazione, non della soppressione per gerarchia. Un divieto assoluto basato sullo status e sul genere sembra contraddire questo principio fondamentale.

Inoltre, l’appello alla “legge”, visto attraverso la lente di Boccaccini, risulta altamente problematico. Il Paolo storico ha un rapporto complesso con la Torah. Un suo appello così generico e non argomentato alla “legge” per imporre una norma sociale suona molto problematico (quale legge?). Sembra proprio il tentativo di una generazione successiva di “addomesticare” la radicalità dello Spirito reintroducendo strutture gerarchiche più familiari al mondo greco-romano.

Conclusione

Alla luce delle prove testuali, contestuali e teologiche, la tesi dell’interpolazione di 1 Corinzi 14,34-35 risulta la più convincente e coerente. La contraddizione interna con il capitolo 11, l’instabilità della tradizione manoscritta, l’interruzione del flusso argomentativo e, non da ultimo, l’incoerenza con la visione paolina di una comunità carismatica e inclusiva, come quella delineata anche dal quadro di Boccaccini, rendono quasi certo che queste parole non appartengano alla penna dell’apostolo.

Molto probabilmente, si tratta di una glossa aggiunta in un’epoca successiva, forse tra la fine del I e l’inizio del II secolo. In questa fase, come molti storici del cristianesimo primitivo sostengono, la Chiesa stava attraversando un processo di istituzionalizzazione. La spinta carismatica delle origini veniva progressivamente incanalata in strutture più rigide e gerarchiche, e il ruolo pubblico e ministeriale delle donne, così evidente nelle lettere autentiche di Paolo, veniva progressivamente ridimensionato. Uno scriba, leggendo il capitolo 14 e la sua enfasi sull’ordine, potrebbe aver aggiunto a margine una nota che rifletteva la prassi della sua epoca, magari ispirandosi alle norme delle Lettere Pastorali, per “correggere” o “precisare” il pensiero di Paolo. Riconoscere questi versetti come un’interpolazione non significa manomettere la Scrittura, ma praticare un atto di fedeltà storica e teologica, che ci permette di ascoltare con maggiore chiarezza la voce autentica di Paolo.


Bibliografia

Barrett, C.K. (1979). La prima lettera ai Corinti. Bologna: EDB.

Biguzzi, G. (1994). Velo e silenzio: Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-36. Bologna: EDB.

Boccaccini, G. (2019). Le tre vie di salvezza di Paolo l’ebreo: L’apostolo dei gentili nel giudaismo del I secolo. Torino: Claudiana.

Fabris, R. (1999). Prima lettera ai Corinzi. Milano: Paoline.

Lang, F. (2005). Le lettere ai Corinti. Brescia: Paideia Editrice.

Manzi, F. (2014). Prima lettera ai Corinzi. Cinisello Balsamo (MI): San Paolo.

Wendland, H-D. (1976). Le lettere ai Corinti. Brescia: Paideia Editrice.

Posted by Adriano Virgili

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