Nel tessuto urbano di Roma, lungo il rettifilo di corso Vittorio Emanuele II, un’arteria pulsante che attraversa il rione Parione, sorge un edificio che trascende la sua funzione di luogo di culto per incarnare un’intera epoca storica, spirituale e artistica: la chiesa di santa Maria in Vallicella. Ai più, tuttavia, e specialmente ai romani, è nota con l’affettuoso e storico appellativo di “Chiesa Nuova”. Questo nome, di per sé, racconta una storia di rinnovamento, di rinascita spirituale nel cuore della Roma del Cinquecento, un’epoca di profonde crisi e altrettanto profonde riforme. La sua vicenda è inestricabilmente legata a una delle figure più luminose e rivoluzionarie della cristianità romana, san Filippo Neri (1515-1595), il “santo della gioia”, l’apostolo di Roma che seppe contrapporre alla severità della Controriforma un messaggio di carità, umiltà e letizia. Fu lui a fondare qui la Congregazione dell’oratorio, e fu la sua visione a plasmare questo luogo, trasformandolo in un faro di spiritualità e in uno dei più sfolgoranti manifesti del barocco.
La storia: dalle origini medievali alla visione di san Filippo Neri
Il toponimo “in Vallicella” ci riporta a un tempo in cui quest’area, non lontana dal Tevere, era un avvallamento del terreno, una “vallicella” appunto, soggetta a periodici allagamenti. In questo luogo modesto sorgeva, almeno dal XII secolo, una piccola chiesa parrocchiale, menzionata in un catalogo di papa Urbano III del 1186. Per secoli, la sua esistenza trascorse senza particolari eventi, fino a quando la Provvidenza, nella visione dei fedeli, non la destinò a un ruolo di primo piano nella storia religiosa della città.
La svolta avvenne a metà del Cinquecento, nel clima di clima di fervore e rinnovamento che caratterizzava quest’epoca emerse la figura di Filippo Neri. Fiorentino di nascita ma romano d’adozione, Filippo era un sacerdote atipico, un mistico che viveva la sua fede nelle piazze e tra la gente comune. A partire dal 1551, presso la vicina chiesa di san Girolamo della Carità, iniziò a riunire attorno a sé un gruppo di laici e sacerdoti per incontri informali. Questi “ragionamenti” o “esercizi spirituali”, come li chiamava, consistevano in letture bibliche, preghiere, discussioni libere e, soprattutto, canti. La musica, in particolare la lauda polifonica, divenne uno strumento fondamentale del suo apostolato, un modo per elevare l’anima a Dio con gioia e semplicità. Da questi incontri nacque, quasi spontaneamente, la Congregazione dell’oratorio. Non un ordine religioso tradizionale, con voti solenni e una rigida gerarchia, ma una libera associazione di preti secolari e laici tenuti insieme da un vincolo di pura carità e dal comune desiderio di una vita cristiana più autentica.
L’approccio di Filippo, che combinava una profonda dottrina con un umorismo disarmante, un’intensa vita di preghiera con un’incessante attività caritativa verso i poveri, i malati e i pellegrini, ebbe un successo travolgente. Ben presto, la comunità divenne così numerosa da necessitare di una sede più ampia. Fu papa Gregorio XIII Boncompagni che, il 15 luglio 1575, con la bolla Copiosus in misericordia Dominus, riconobbe ufficialmente la Congregazione e le fece dono della vecchia e ormai fatiscente chiesetta della Vallicella. La bolla papale concedeva inoltre il permesso di demolire il vecchio edificio e di costruirne uno nuovo, “magis ampla et magnifica”, più ampio e magnifico, insieme a una casa per i padri. Nasceva così il progetto della “Chiesa Nuova”.
I lavori iniziarono con sorprendente rapidità, appena due mesi dopo, il 17 settembre 1575. L’entusiasmo era tale che lo stesso Filippo Neri, ormai sessantenne, diede il primo colpo di piccone. I fondi provenivano in gran parte da generose donazioni di cardinali, nobili e cittadini comuni, affascinati dal carisma del santo e dal suo progetto. Il cardinale Pier Donato Cesi, in particolare, fu uno dei più munifici benefattori. Il primo architetto a cui fu affidato il progetto fu Matteo di Città di Castello, un collaboratore di Giacomo Barozzi da Vignola. Il suo disegno iniziale prevedeva una chiesa a navata unica, sul modello controriformato della vicina chiesa del Gesù, all’epoca il punto di riferimento per l’architettura sacra a Roma. Questo modello, con la sua aula spaziosa e le cappelle laterali, era ideale per la predicazione e per concentrare l’attenzione dei fedeli sull’altare.
Tuttavia, i lavori procedettero a fasi. Una prima sezione della chiesa, sufficiente per le funzioni religiose, fu completata già nel 1577. Tra il 1586 e il 1590, la direzione del cantiere passò a Martino Longhi il Vecchio, architetto di fiducia della famiglia Cesi. Fu Longhi a modificare in modo sostanziale il progetto originario, conferendo alla chiesa l’aspetto che conosciamo oggi. Pur mantenendo l’impianto a navata unica, aggiunse un ampio transetto e una profonda abside semicircolare, disegnando una pianta a croce latina. Questa scelta non era puramente estetica: rispondeva all’esigenza liturgica e comunitaria dei filippini, che necessitavano di più spazio per il coro e per le celebrazioni solenni. Le cappelle laterali, inoltre, furono concepite come passaggi intercomunicanti, creando delle navate minori che facilitavano il flusso dei fedeli. La grande cupola, priva di tamburo, fu eretta nel 1590, anch’essa su disegno di Longhi. San Filippo Neri morì il 26 maggio 1595, senza vedere la sua chiesa ultimata. La consacrazione solenne avvenne infine nel 1599.
L’architettura: un dialogo tra austerità controriformata e magnificenza barocca
L’architettura della Chiesa Nuova rappresenta un momento di transizione fondamentale tra il tardo rinascimento e l’incipiente barocco, riflettendo la duplice anima della spiritualità filippina: rigorosa nella dottrina ma gioiosa e magnifica nella lode a Dio.
La facciata
Completata tra il 1594 e il 1606 su disegno di Fausto Rughesi, la facciata in travertino è uno dei più nobili esempi di questo stile di transizione. Sebbene il suo schema generale, con due ordini sovrapposti collegati da volute e coronati da un timpano, derivi chiaramente dal modello del Gesù di Vignola e Della Porta, se ne distacca per una maggiore complessità e un più accentuato senso plastico. Rughesi articola la superficie con una successione ritmica di lesene e semicolonne corinzie che creano un vibrante chiaroscuro. Il corpo centrale, suddiviso in tre campate e leggermente aggettante, concentra l’attenzione sul portale principale, sormontato da un’edicola con la statua di santa Maria in Vallicella. La sovrapposizione di un timpano triangolare a uno curvilineo spezzato introduce un elemento di dinamismo che anticipa le soluzioni più audaci di Borromini e Bernini. L’effetto complessivo è di una solenne grandiosità, temperata però da un’eleganza classica e da un equilibrio compositivo che la rendono un modello di armonia.
L’interno
Varcata la soglia, si è accolti da uno spazio che colpisce per la sua ampiezza e luminosità. L’aula a croce latina, lunga e alta, coperta da una maestosa volta a botte, guida lo sguardo in un percorso prospettico ininterrotto verso la crociera e l’abside, fulcro visivo e liturgico dell’edificio. Se l’architettura cinquecentesca di Martino Longhi il Vecchio definisce la struttura con un linguaggio ancora severo e classicheggiante, basato sull’ordine corinzio delle paraste che scandiscono le pareti, è la decorazione seicentesca a trasformare questo spazio in un tripudio barocco. La scelta di una navata unica rispondeva all’esigenza controriformata di creare uno spazio unitario per l’assemblea, ma la presenza del vasto transetto e delle cappelle comunicanti la rende più complessa e articolata rispetto al modello gesuitico, conferendole una “ariosa spazialità” che invita alla partecipazione comunitaria. La luce gioca un ruolo fondamentale: piove abbondante dalle ampie finestre del cleristorio e, soprattutto, dalla lanterna della cupola, inondando la crociera e mettendo in risalto la ricchezza delle decorazioni.
Lo splendore dell’arte: un trionfo di pittura e scultura
Se il Cinquecento donò alla chiesa il suo corpo architettonico, fu il Seicento a donarle la sua anima artistica. Sotto la guida del successore di Filippo, il cardinale Cesare Baronio, e grazie alla continua generosità dei mecenati, i più grandi maestri del barocco romano furono chiamati a celebrare la gloria di Dio, della Vergine e del nuovo santo. Il risultato è una delle più straordinarie gallerie d’arte del XVII secolo, un vero e proprio manifesto della pittura barocca.
Il ciclo pittorico di Pietro da Cortona
Il protagonista indiscusso di questa impresa decorativa fu Pietro da Cortona (1596-1669), pittore e architetto che, insieme a Bernini e Borromini, definì il linguaggio del barocco romano. Tra il 1647 e il 1665, Cortona realizzò il grandioso ciclo di affreschi che adorna la volta della navata, la cupola e il catino absidale. Con la sua pittura illusionistica, dinamica e cromaticamente esuberante, l’artista sfonda le barriere architettoniche, aprendo lo spazio a visioni celesti di una potenza scenografica senza precedenti.
- La volta della navata (1664-1665): Il grande affresco centrale raffigura La visione di san Filippo Neri durante la costruzione della chiesa. L’episodio narrato è quello miracoloso in cui la Vergine Maria sarebbe apparsa per sorreggere una trave pericolante del soffitto, proteggendo gli operai. Cortona interpreta l’evento con un’immaginazione teatrale. Al centro, la Madonna col Bambino, sorretta da un turbine di angeli, indica il punto del pericolo. Sotto, san Filippo in preghiera assiste alla scena. L’intera composizione è concepita come un’enorme apertura nel cielo, con il tetto della chiesa scoperchiato e le figure che fluttuano in uno spazio aereo e luminoso, confondendo magistralmente realtà e finzione.
- La cupola (1647-1651): Nella calotta, Cortona dipinse il Trionfo della Trinità e dei santi protettori della chiesa in Paradiso. È un capolavoro di prospettiva aerea e di composizione vorticosa. Al centro, in un fulgore di luce divina, appaiono la Trinità e la Vergine, circondati da una schiera festante di santi legati alla storia della chiesa (tra cui san Giovanni Battista, san Pietro e san Paolo) e angeli musicanti. La pittura sembra annullare la consistenza materica della cupola, trascinando l’osservatore in un gorgo celeste. Nei pennacchi, i quattro profeti Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele sono raffigurati con una possanza michelangiolesca, ma animati da un pathos e da un dinamismo tipicamente barocchi.
- L’abside (1655-1660): Il catino absidale è dominato dalla spettacolare Assunzione della Vergine. La Madonna è sollevata verso il cielo da una moltitudine di angeli, in una composizione ascendente che completa il ciclo mariano iniziato sull’altare maggiore e proseguito sulla volta. L’intensità emotiva e la ricchezza cromatica di questa scena ne fanno uno dei vertici dell’arte di Cortona.
I capolavori fiamminghi di Rubens
Persino prima dell’intervento di Cortona, l’altare maggiore era stato impreziosito da un trittico di eccezionale valore, opera del giovane Peter Paul Rubens (1577-1640) durante il suo primo soggiorno romano. La commissione, ricevuta nel 1606, fu complessa. Un primo dipinto su tela fu rifiutato a causa dei riflessi di luce che ne impedivano la corretta visione. Rubens, con geniale intuito, propose allora di dipingere su tre grandi lastre di ardesia (lavagna), un materiale non riflettente che garantiva una perfetta leggibilità. La pala centrale raffigura la Madonna con il Bambino adorata da angeli, nota come Madonna della Vallicella. È un’immagine di una bellezza regale e al contempo tenera. Un ingegnoso meccanismo, ancora oggi funzionante, permette di far scendere questa pala, rivelando un’icona più antica, un affresco della Madonna col Bambino del XIV secolo, ritenuta miracolosa e proveniente dalla vecchia chiesetta. Le due pale laterali, poste sulle pareti del presbiterio, raffigurano i Santi Gregorio Magno, Papia e Mauro (a sinistra) e le Sante Flavia Domitilla, Nereo e Achilleo (a destra), martiri le cui reliquie erano state portate nella chiesa dal cardinale Baronio. In queste opere, Rubens fonde la monumentalità della statuaria classica con il colorismo caldo della pittura veneta e un realismo tipicamente fiammingo, creando opere di un’energia e di un impatto drammatico straordinari.
Un percorso tra le cappelle
Le dieci cappelle laterali costituiscono una vera e propria antologia della pittura romana tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. Ogni cappella era affidata al patronato di una famiglia nobile o di un cardinale, che ne finanziava la decorazione, chiamando a raccolta i migliori artisti del tempo.
- Cappella di san Filippo Neri (transetto sinistro): È il cuore pulsante della chiesa. Progettata da Onorio Longhi e poi da Paolo Maruscelli, fu completata nel 1606. È uno scrigno sfarzoso, rivestito di marmi preziosi, diaspri, alabastri, lapislazzuli e madreperla, a testimonianza della venerazione per il santo. Sotto l’altare, un’urna di cristallo e bronzo dorato custodisce il suo corpo. La pala d’altare, che mostra La Vergine che appare a san Filippo Neri, è una splendida copia in mosaico di un capolavoro di Guido Reni, il cui originale è conservato negli appartamenti del santo.
- Cappella della Presentazione (transetto sinistro): Accanto a quella di san Filippo, ospita uno dei più grandi capolavori della chiesa: la Presentazione di Maria al Tempio (1603) di Federico Barocci. L’opera è un esempio sublime della sensibilità del pittore urbinate, con la sua tavolozza delicata, i suoi effetti di luce soffusa e la grazia commovente delle figure.
- Cappella della Visitazione (quarta a sinistra): Contiene un’altra gemma di Federico Barocci, La Visitazione (1586), un’opera che affascina per l’intimità del dialogo tra Maria ed Elisabetta e per la straordinaria resa atmosferica e luministica.
- Cappella della Crocifissione (prima a destra): Custodisce una solenne e intensa Crocifissione (1583 circa) di Scipione Pulzone, detto il Gaetano, un pittore che interpretò con grande rigore le istanze della pittura controriformata, coniugando un disegno preciso con un’austera emotività.
- Cappella Spada (transetto destro): Dedicata a san Carlo Borromeo e progettata da Carlo Rainaldi, questa cappella è un elegante esempio di barocco maturo. La pala d’altare di Carlo Maratta, raffigurante La Madonna col Bambino tra i santi Carlo Borromeo e Ignazio di Loyola (1675), è un’opera di grande equilibrio classico e raffinatezza pittorica.
L’oratorio dei filippini: il capolavoro rivoluzionario di Borromini
Indissolubilmente legato alla chiesa è il complesso dell’Oratorio dei filippini, che si affaccia sulla piazza laterale. Costruito tra il 1637 e il 1650, è il capolavoro architettonico di Francesco Borromini (1599-1667) e uno degli edifici più innovativi e geniali di tutto il barocco. I padri filippini chiesero a Borromini un edificio che fosse funzionale alle loro attività (musica, predicazione, studio) e che esprimesse la loro spiritualità, basata sull’umiltà e sulla comunità. Borromini rispose con un’architettura che è l’antitesi della facciata classicheggiante della chiesa.
La facciata dell’oratorio, realizzata in mattoni per sottolineare la povertà del materiale, è un organismo plastico e vibrante. La sua celebre superficie concava sembra quasi respirare, espandendosi per accogliere il visitatore, mentre il corpo centrale, convesso, crea un’onda dinamica che percorre l’intera struttura. Le finestre, dalle cornici fantasiose e originali, e il singolare timpano mistilineo, detto “oratoriano”, rompono con ogni regola classicista, creando un linguaggio architettonico completamente nuovo, basato sulla curva, sul movimento e sull’invenzione. All’interno, la Sala Borromini, destinata agli esercizi musicali e spirituali, è un gioiello di acustica e di eleganza, mentre la Biblioteca Vallicelliana, anch’essa progettata da Borromini, è uno dei più begli esempi di biblioteca barocca.
Conclusione
La Chiesa Nuova non è semplicemente un monumento da visitare, ma un’esperienza da vivere. È un luogo dove la storia di Roma si intreccia con la storia della fede, dove la grandiosità dell’arte barocca non schiaccia ma esalta un messaggio spirituale ancora vivo e potente. Entrare in santa Maria in Vallicella significa dialogare con la genialità di maestri come Rubens, Pietro da Cortona e Borromini, ma soprattutto significa incontrare l’eredità di san Filippo Neri. È la sua visione di una fede gioiosa, colta e aperta al mondo che anima ancora oggi queste mura, rendendo la Chiesa Nuova non solo un museo di capolavori, ma una casa per l’anima, un faro di bellezza e spiritualità che continua a illuminare il cuore di Roma.