Una sfida radicale a un consenso consolidato
Il volume di Nina E. Livesey, The Letters of Paul in their Roman Literary Context, Cambridge University Press, 2024 si propone come un’opera di rottura, destinata a interrogare le fondamenta degli studi paolini. La sua tesi centrale è tanto diretta quanto radicale: le sette lettere universalmente riconosciute come autentiche di Paolo di Tarso (Romani, 1-2 Corinzi, Galati, Filippesi, 1 Tessalonicesi e Filemone) non sarebbero altro che opere pseudonime, composte non nel I secolo, ma alla metà del II, all’interno della scuola romana di Marcione. Con questa affermazione, Livesey non suggerisce una semplice revisione, ma un completo ripensamento di quasi due secoli di consenso accademico.
Un’analisi approfondita rivela che questa proposta, più che un’innovazione rivoluzionaria, si ricollega consapevolmente a una corrente di pensiero da tempo considerata superata dalla ricerca storico-critica: la “Scuola Radicale Olandese” del tardo XIX secolo. Come i suoi predecessori, Livesey costruisce un’argomentazione complessa e dotta che, tuttavia, solleva notevoli interrogativi se confrontata con le prove testuali e, soprattutto, esterne. È importante ricordare che quella scuola di pensiero fu abbandonata non per un pregiudizio dogmatico, ma perché i suoi presupposti metodologici si rivelarono problematici e le sue conclusioni difficilmente sostenibili di fronte all’evidenza storica.
La presente analisi critica intende esaminare la tesi di Livesey, esponendone prima per sommi capi il contenuto per poi procedere a un confronto con il consenso accademico. Si argomenterà che tale consenso, lungi dall’essere un dogma fideistico, è il risultato convergente di prove filologiche, storiche e letterarie che rendono la sua cronologia del II secolo particolarmente difficile da sostenere.
Esposizione della tesi di Livesey: la costruzione di un Paolo del II secolo
Per comprendere la portata della critica, è necessario esporre con precisione l’architettura argomentativa del volume di Livesey, che si sviluppa attraverso quattro passaggi interconnessi: la decostruzione della prospettiva tradizionale, l’annullamento della storicità di Paolo nel I secolo, la rilettura delle lettere come trattati didattici e, infine, la loro ricollocazione nel contesto marcionita.
La decostruzione della “lettera autentica”
Livesey apre la sua analisi sostenendo che l’attuale consenso sulla storicità e autenticità delle lettere paoline poggia su fondamenta storiografiche viziate, erette principalmente da due figure chiave del XIX e XX secolo: Ferdinand Christian Baur e Adolf Deissmann.
Secondo Livesey, F.C. Baur fu il primo a utilizzare le cosiddette Hauptbriefe (Romani, 1-2 Corinzi, Galati) come documenti storici primari per ricostruire una narrazione delle origini cristiane basata sul conflitto tra un “paolinismo” universalista e un “petrinismo” giudaizzante. In questo modo, Baur avrebbe consacrato queste quattro lettere come fonti storicamente affidabili, un presupposto che la ricerca successiva avrebbe ereditato in modo largamente acritico.
Il secondo pilastro da riconsiderare è Adolf Deissmann. A lui Livesey attribuisce la responsabilità della dicotomia tra “lettere reali” (non letterarie, private, spontanee, come si presume siano quelle di Paolo) e “epistole letterarie” (opere d’arte, destinate a un pubblico più vasto). Questa distinzione, definita da Livesey come romantica e a-storica, avrebbe indotto gli studiosi a classificare erroneamente gli scritti paolini, impedendo di vederli per quello che realmente sarebbero: sofisticate opere letterarie. Smontando l’influenza di queste due figure, Livesey intende dimostrare che l’intero edificio del consenso moderno è un costrutto fragile, pronto a essere rimpiazzato da una valutazione radicalmente nuova.
L’evaporazione della storia: mettere in dubbio Paolo e le sue comunità
Una volta minate le fondamenta storiografiche, Livesey procede a smantellare sistematicamente i pilastri della storicità di Paolo e del suo mondo nel I secolo.
In primo luogo, la figura stessa di Paolo viene decostruita. I celebri passaggi “autobiografici”, come quello in Galati 1-2, non vengono letti come resoconti di eventi reali, ma come abili costrutti retorici (inquadrabili nella tecnica della prosopopea) finalizzati a costruire l’autorità dell’apostolo. Secondo Livesey, al di fuori di questi testi e degli Atti degli Apostoli (considerati anch’essi inaffidabili), non esisterebbe alcuna prova esterna attendibile per collocare storicamente un personaggio come Paolo nel I secolo.
Di conseguenza, anche le comunità a cui le lettere sono indirizzate perdono la loro consistenza storica. Non si tratterebbe di assemblee reali con problemi concreti, ma di destinatari fittizi, un artificio letterario necessario per dare verosimiglianza al genere epistolare e per fungere da pubblico modello a cui gli insegnamenti sono diretti.
Infine, Livesey contesta le ancore cronologiche tradizionali che legano Paolo al I secolo, come il riferimento al proconsole Gallione in Atti 18. Questi dettagli vengono liquidati come elementi letterari inseriti per creare un effetto di realtà, non come prove storiche. La conclusione è netta: non esiste alcuna prova esterna inoppugnabile che attesti l’esistenza delle lettere paoline prima della metà del II secolo.
Paolo come Seneca cristiano: le lettere come trattati didattici
Il cuore della parte analitica del libro risiede nel confronto tra le lettere paoline e le Epistulae morales ad Lucilium di Seneca. Livesey propone questa analogia per dimostrare la sua tesi centrale: le lettere di Paolo sono, come quelle di Seneca, “lettere solo nella forma” (letters-in-form-only), ovvero trattati didattici che sfruttano il genere epistolare per scopi persuasivi.
Secondo l’autrice, entrambi gli epistolari utilizzano le stesse strategie retoriche per veicolare insegnamenti (filosofici per Seneca, teologici per “Paolo”) a un pubblico di lettori secondari, ben più ampio del destinatario esplicito. L’analisi comparata si concentra su tre aspetti principali:
- Creazione del destinatario: Sia Lucilio che le comunità paoline non sono interlocutori reali, ma personaggi “plasmati” dall’autore per fungere da sponda ideale per l’insegnamento.
- Uso di “situazioni occasionali”: I problemi specifici affrontati nelle lettere (le domande di Lucilio, le crisi delle comunità paoline) non sarebbero eventi reali, ma pretesti retorici, scenari costruiti ad arte per introdurre e giustificare una determinata lezione.
- Discorso dell’io: L’autore (Seneca o “Paolo”) utilizza la prima persona e i riferimenti autobiografici non per rivelare se stesso, ma per porsi come exemplum, un modello autorevole il cui percorso di vita convalida il messaggio proposto.
Il contesto marcionita post-Bar Kokhba
Per finire, Livesey presenta la sua tesi ricostruttiva, collocando la nascita delle lettere paoline in un preciso contesto storico e geografico.
Il contesto storico è quello della metà del II secolo, un’epoca segnata dalle conseguenze della disastrosa rivolta di Bar Kokhba (132-135). Secondo Livesey, la radicale svalutazione della Legge ebraica e della circoncisione, così prominente in lettere come Galati e Romani, sarebbe storicamente implausibile nel I secolo, quando i seguaci di Gesù erano ancora profondamente radicati nel giudaismo. Al contrario, tale posizione si adatterebbe perfettamente al clima di aspra polemica e di progressiva separazione tra giudaismo e cristianesimo nascente che caratterizzò il periodo post-rivolta.
Il luogo di origine di queste lettere viene identificato nella scuola di Marcione a Roma, attiva intorno al 144 Marcione è, infatti, la prima figura storica a presentare un canone definito di lettere paoline, il suo Apostolikon. La motivazione dietro questa operazione letteraria sarebbe stata teologica: gli autori marcioniti avrebbero creato queste lettere pseudonime per fornire un’autorità apostolica alla loro dottrina, che esaltava Paolo come unico vero apostolo di un Vangelo “libero dalla Legge”, in netta opposizione a un presunto cristianesimo “giudaizzante” promosso dagli altri apostoli.
Confronto con il consenso accademico: le sfide alla tesi di Livesey
Dopo aver esposto la complessa architettura della tesi di Livesey, è necessario sottoporla a un’analisi critica rigorosa. Tale analisi rivela non solo una profonda divergenza dal consenso accademico, ma anche una serie di fragilità metodologiche che ne minano la plausibilità dalle fondamenta.
Il consenso accademico: convergenza di prove, non tradizione inerte
Il primo punto di divergenza riguarda la rappresentazione del consenso accademico come un’eredità inerte e acritica del XIX secolo. La distinzione tra lettere autentiche (le sette indiscusse), deutero-paoline (come Colossesi e 2 Tessalonicesi) e pseudo-epigrafe (le Pastorali) non è un dogma, ma il risultato di decenni di analisi incrociate che hanno impiegato stilometria computerizzata, analisi lessicale, coerenza teologica e criteri storici. Le sette lettere considerate autentiche (Romani, 1-2 Corinzi, Galati, Filippesi, 1 Tessalonicesi, Filemone) mostrano una coerenza stilistica, un vocabolario e un insieme di preoccupazioni teologiche talmente distintivi da renderle un corpus omogeneo, nettamente differenziato dagli altri scritti attribuiti a Paolo. Sebbene Baur e Deissmann siano state figure influenti, la ricerca successiva ha ampiamente corretto, raffinato e superato i loro limiti, non perpetuandoli ciecamente come l’autrice suggerisce.
La natura occasionale: prova di autenticità o artificio retorico?
Il punto di rottura più evidente nell’argomentazione di Livesey è la sua gestione della “natura occasionale” delle lettere. L’analogia con Seneca, sebbene suggestiva, si rivela problematica. Mentre le “occasioni” nelle lettere di Seneca sono spesso generiche, fungendo da trampolini di lancio per riflessioni filosofiche universali, i problemi affrontati da Paolo sono straordinariamente specifici, contestuali, spesso imbarazzanti e intrinsecamente legati alla vita caotica di una comunità nascente.
Prendiamo come esempio la Prima Lettera ai Corinzi. Paolo non affronta temi astratti, ma una serie di crisi concrete e interconnesse: le fazioni che si richiamano a diverse figure carismatiche (“Io sono di Paolo”, “io di Apollo”, “io di Cefa”) ; un caso di incesto tollerato dalla comunità (un uomo che vive con la moglie del padre) ; membri della comunità che si trascinano a vicenda nei tribunali pagani; domande specifiche sul matrimonio e la verginità in un contesto di “presente necessità” (1 Cor 7,26); il dilemma se sia lecito mangiare carne sacrificata agli idoli, con il rischio di scandalizzare i “deboli”; il disordine durante la Cena del Signore, con i ricchi che mangiano senza aspettare i poveri; e una disputa sulla natura della risurrezione.
La specificità, la crudezza e l’interconnessione di questi problemi costituiscono una forte indicazione della loro realtà storica. L’ipotesi di Livesey richiederebbe di immaginare un geniale falsario del II secolo che non solo inventa una lettera, ma costruisce un intero ecosistema di problemi comunitari fittizi, con una coerenza interna e una verosimiglianza psicologica sbalorditive. Questo ci porta a identificare una potenziale falla metodologica nel suo approccio. L’argomentazione di Livesey sembra basarsi su quella che si potrebbe definire la “fallacia della plausibilità inversa”. Il ragionamento procede così: poiché le lettere, per essere finzioni efficaci, devono apparire autentiche e occasionali, allora più una lettera sembra specifica e legata a una circostanza reale, più è probabile che sia una finzione ben riuscita. Questo ragionamento rischia di essere circolare e di immunizzarsi da ogni confutazione: le prove più evidenti a favore dell’autenticità vengono sistematicamente reinterpretate come prove a favore della finzione. Una metodologia di questo tipo non è facilmente falsificabile: se una lettera è generica, è un trattato; se è specifica, è un trattato ben mascherato. L’approccio storico-critico, al contrario, cerca la spiegazione più economica e plausibile per i dati testuali. E la spiegazione più economica per la specificità quasi caotica di 1 Corinzi è che Paolo stesse rispondendo a problemi reali.
Il ritorno della Scuola Radicale Olandese: una teoria superata per ragioni solide
Inquadrando la sua tesi come un “Dutch Radical Thought 3.0”, Livesey si ricollega a una tradizione di ricerca che fu abbandonata dalla comunità scientifica per ragioni molto solide. La Scuola Radicale Olandese (con figure come Bruno Bauer, A.D. Loman e W.C. van Manen) fu marginalizzata principalmente per due motivi: la sua dipendenza da un argumentum e silentio e la liquidazione aprioristica di tutte le testimonianze patristiche precoci, e l’uso di criteri interni soggettivi, spesso basati su una visione evoluzionistica della dottrina cristiana che oggi è considerata anacronistica. Studiosi successivi, come il celebre Adolf von Harnack, pur essendo estremamente critici, dimostrarono la solidità di un nucleo paolino risalente al I secolo, rendendo le posizioni radicali indifendibili.
Il progetto di Livesey non sembra superare gli ostacoli che fecero fallire i suoi predecessori. Per sostenere una datazione così tarda, è costretta a compiere la stessa mossa metodologica della vecchia scuola: invalidare o ri-datare tutte le prove esterne che la contraddicono. La sua soluzione è semplicemente quella di spostare in blocco testimoni chiave come Clemente Romano e Ignazio di Antiochia nel pieno del II secolo, un’ipotesi che la stragrande maggioranza degli studiosi considera insostenibile. Il “3.0” non rappresenta quindi un avanzamento, ma una ripetizione dello stesso errore fondamentale, mascherato da un nuovo apparato comparativo (l’analogia con Seneca) e da un nuovo contesto (la scuola di Marcione). Livesey non offre nuove prove decisive che avrebbero potuto cambiare l’esito del dibattito originale; al contrario, raddoppia la posta sulla parte più debole dell’argomentazione radicale: la gestione delle prove esterne.
Il contesto interno: Paolo e l’apocalittica giudaica del Secondo Tempio
Un’ulteriore e significativa sfida alla tesi di Livesey emerge non da prove esterne, ma dall’analisi interna della teologia paolina. La ricerca accademica degli ultimi decenni ha progressivamente abbandonato l’immagine di un Paolo “fondatore del cristianesimo” in rottura con il giudaismo, per ricollocarlo saldamente all’interno del variegato panorama del giudaismo del Secondo Tempio. Questa rivalutazione ha portato a bocciare completamente l’idea tradizionale che Paolo rifiutasse la Legge (Torah). Al contrario, come evidenziato da correnti di studio quali la “Paul Within Judaism Perspective” e i lavori di studiosi come Gabriele Boccaccini, l’odierna analisi delle lettere ritenute autentiche dimostra che Paolo non argomenta contro la Legge, ma dall’interno di un quadro concettuale giudaico sul suo ruolo e la sua applicazione ai Gentili alla luce dell’evento messianico. La sua non è una polemica contro il giudaismo, ma un dibattito intra-giudaico. In questa prospettiva, la teologia delle sette lettere autentiche non è una novità assoluta, ma si muove all’interno di un orizzonte di pensiero specificamente giudaico: quello apocalittico.
Questo quadro mentale presuppone che la storia sia divisa in due eoni: l’era presente, dominata dal peccato e dalla morte, e l’era a venire, che sarà inaugurata da un intervento divino decisivo. Paolo interpreta la morte e risurrezione di Gesù come l’evento che ha dato inizio a questa transizione. La sua teologia è permeata da un senso di urgenza e di attesa per il compimento imminente di questa nuova era. Questa tensione escatologica è una caratteristica distintiva delle lettere autentiche:
- In 1 Tessalonicesi, la più antica delle sue lettere, la preoccupazione principale è la parusia (la venuta del Signore) e la sorte dei credenti defunti prima di questo evento (1 Tess 4,13-18).
- In 1 Corinzi, decisioni pratiche su matrimonio e celibato sono prese alla luce della “presente necessità” e della “forma di questo mondo che sta passando” (1 Cor 7,26.31).
- In Romani e Galati, la lotta tra “carne” e “Spirito” non è un dualismo platonico, ma riflette la concezione apocalittica della lotta tra il vecchio e il nuovo eone che si sovrappongono nel presente. La salvezza è un evento futuro, qualcosa che si deve ancora attendere con speranza (Rom 5,9-11).
Questa cornice apocalittica, così radicata nel pensiero giudaico del I secolo, funge da potente marcatore cronologico. Essa si differenzia nettamente dalla teologia che emerge nelle lettere deutero-paoline e pastorali, che il consenso accademico data a un periodo successivo.
- In Colossesi ed Efesini, l’escatologia si fa più “realizzata”. I credenti non sono solo in attesa della risurrezione futura, ma sono già stati “risuscitati con Cristo” e “fatti sedere nei luoghi celesti” (Col 3,1; Ef 2,6). L’urgenza apocalittica si attenua a favore di una riflessione sulla Chiesa come corpo cosmico di Cristo, una realtà già presente e operante nel mondo.
- Nelle Lettere Pastorali (1-2 Timoteo, Tito), l’orizzonte è ancora diverso. La preoccupazione non è più l’imminente fine del mondo, ma la strutturazione della comunità per il lungo periodo. L’enfasi è sulla “sana dottrina”, sulla lotta contro le eresie e sull’istituzione di una gerarchia ecclesiastica (vescovi, presbiteri, diaconi). Questo riflette le preoccupazioni di una Chiesa di seconda o terza generazione che si sta consolidando nel mondo.
Questa traiettoria teologica, che va dall’imminenza apocalittica delle lettere autentiche alla progressiva istituzionalizzazione delle lettere successive, mostra uno sviluppo interno coerente che è difficile da conciliare con l’ipotesi di una creazione ex novo dell’intero corpus (o di un suo nucleo) a metà del II secolo. Un autore marcionita che scrive intorno al 144 avrebbe dovuto non solo ricreare artificialmente una teologia apocalittica giudaica del I secolo per le lettere “autentiche”, ma anche inventare una teologia successiva e diversa per le altre, creando una falsa traiettoria di sviluppo. La spiegazione più semplice e plausibile è che questa traiettoria rifletta un reale sviluppo storico del pensiero cristiano, con le lettere autentiche saldamente ancorate al loro contesto originario del I secolo.
L’anacronismo della tesi marcionita: le prove esterne ignorate
L’ostacolo più insormontabile per la tesi di Livesey è di natura cronologica. Esistono prove consistenti che le lettere di Paolo non solo esistevano, ma erano già state raccolte e godevano di autorità decenni prima che Marcione fondasse la sua scuola a Roma intorno al 144. Queste testimonianze esterne costituiscono una vera e propria “barriera cronologica” che rende la sua ricostruzione storicamente problematica.
La testimonianza delle fonti pre-marcionite
Due testi in particolare mettono in discussione la cronologia di Livesey: la Prima Lettera di Clemente e le lettere di Ignazio di Antiochia.
La Prima Lettera di Clemente, indirizzata dalla chiesa di Roma a quella di Corinto, è datata con un larghissimo consenso accademico intorno al 96. La datazione si basa su prove interne solide, come il riferimento a “calamità improvvise e ripetute” (probabilmente la persecuzione di Domiziano) e la menzione di una successione apostolica che è già arrivata alla terza generazione. In questa lettera, Clemente non solo mostra una profonda familiarità con il pensiero paolino, ma esorta esplicitamente i Corinzi a “prendere in mano la lettera del beato apostolo Paolo” (1 Clem. 47,1), riferendosi direttamente alla crisi delle fazioni descritta in 1 Corinzi. Sono inoltre presenti chiare allusioni a Romani e ad altre lettere, dimostrando che a Roma, alla fine del I secolo, non solo esisteva la Prima Lettera ai Corinzi, ma probabilmente circolava già una raccolta di scritti paolini.
Le lettere di Ignazio di Antiochia, scritte durante il suo viaggio verso il martirio a Roma, sono datate dalla maggioranza degli studiosi intorno al 110, durante il regno di Traiano. Ignazio rivela una conoscenza ancora più vasta del corpus paolino. Nella sua lettera agli Efesini, scrive che Paolo “si ricorda di voi in ogni sua lettera” (Ef. 12,2), un’iperbole che ha senso solo se Ignazio e i suoi lettori conoscevano una raccolta di lettere paoline, inclusa una specificamente indirizzata agli Efesini. Le sue lettere sono intrise di temi e linguaggio paolino, con echi evidenti da 1 Corinzi, Romani e altre epistole su argomenti come l’unità della Chiesa, l’eucaristia e il significato del martirio.
Per sostenere la sua tesi, Livesey è costretta a ipotizzare che sia 1 Clemente sia le lettere di Ignazio siano anch’esse opere della metà del II secolo o successive. Questa mossa, tuttavia, non è supportata da prove indipendenti; è una ri-datazione puramente ad hoc, necessaria unicamente per eliminare le prove che falsificherebbero la sua ipotesi principale. Spostare queste opere crea un effetto a catena che sconvolge l’intera cronologia della letteratura cristiana primitiva. Queste testimonianze, datate secondo il consenso, dimostrano che le lettere paoline non solo esistevano, ma erano già raccolte e considerate autorevoli almeno cinquant’anni prima di Marcione.
Marcione il redattore, non il creatore
Le stesse fonti antiche che ci parlano di Marcione lo descrivono unanimemente non come un creatore di testi, ma come un redattore radicale. Padri della Chiesa come Ireneo e Tertulliano lo accusano di aver “mutilato” e “tagliato” le Scritture preesistenti per adattarle alla sua teologia, non di averle inventate dal nulla. L’esistenza stessa di un aspro dibattito testuale tra Marcione e i suoi oppositori, con accuse reciproche di falsificazione, presuppone l’esistenza di un testo di partenza comune su cui disputare. Marcione non ha creato le lettere di Paolo; le ha trovate e le ha redatte per i suoi scopi.
Il silenzio delle lettere su temi chiave del II secolo
Un ultimo argomento e contrario indebolisce ulteriormente la tesi marcionita. Se le lettere fossero state scritte nella scuola di Marcione, ci si aspetterebbe che riflettessero in modo esplicito la sua teologia distintiva: un dualismo ontologico tra il Dio Creatore, malvagio o inferiore, e il Dio buono e alieno rivelato da Gesù; una cristologia doceta (Cristo non aveva un corpo veramente umano); un rifiuto totale e programmatico delle Scritture ebraiche come opera di un dio inferiore. Le sette lettere indiscusse, invece, non mostrano nulla di tutto ciò. Pur essendo critiche sull’obbligo della Legge per i Gentili, esse argomentano costantemente a partire dalle Scritture ebraiche (si pensi all’uso di Abramo in Romani 4 e Galati 3) e presuppongono un unico Dio, Creatore e Padre di Gesù Cristo.
Un esercizio accademico stimolante ma problematico
In sintesi, il libro di Nina E. Livesey, pur essendo un’opera erudita e provocatoria, incontra ostacoli significativi nel suo intento di smantellare il consenso accademico sull’autenticità delle lettere paoline. La sua argomentazione si basa su una dipendenza metodologica da una teoria da tempo superata (la Scuola Radicale Olandese), su un’interpretazione della natura occasionale delle lettere come puro artificio retorico e, soprattutto, su un problematico rifiuto delle prove esterne che rendono la sua cronologia del II secolo difficile da sostenere. Inoltre, la sua tesi non tiene conto della struttura interna del corpus paolino, che mostra una chiara traiettoria di sviluppo teologico a partire da un orizzonte apocalittico giudaico del I secolo.
Il volume può essere letto come un complesso esercizio controfattuale: un’esplorazione di “cosa succederebbe se” le lettere paoline fossero state scritte nella scuola di Marcione. Tuttavia, poiché le premesse di questo “se” sono storicamente problematiche, l’esercizio, per quanto dotto, rimane un’ipotesi che fatica a trovare conferme. Non riesce a produrre una ricostruzione delle origini cristiane che sia più plausibile di quella standard; al contrario, richiede una serie di forzature e di ipotesi ad hoc che la rendono meno coerente.
Lungi dallo smantellare il consenso accademico, il tentativo radicale di Livesey ne dimostra, per contrasto, la robustezza. Il modello di un Paolo storico del I secolo, che scrive lettere occasionali a comunità reali per affrontare problemi concreti all’interno di un quadro mentale apocalittico giudaico, rimane la spiegazione più coerente, economica e storicamente fondata per l’insieme delle prove a nostra disposizione. Il libro di Livesey, in ultima analisi, si rivela un affascinante ma problematico edificio argomentativo, costruito su fondamenta che appaiono, a un’analisi approfondita, insicure.