Ordine, libertà e profezia: il significato del velo in 1 Corinzi 11

In questo breve articolo, vorrei provare a rispondere ad alcune domande precise e complesse che mi sono state poste riguardo a uno dei passi più famosi e dibattuti della Prima Lettera di Paolo ai Corinzi: quello sul velo (o copricapo) delle donne, che si trova al capitolo 11, versetti 2-16. Si tratta di un testo che ha generato nei secoli interpretazioni molto diverse, influenzando profondamente il dibattito sul ruolo della donna nella Chiesa. Per affrontarlo, mi baserò su un’attenta rilettura del testo paolino alla luce di alcuni fondamentali contributi dell’esegesi biblica contemporanea, i cui riferimenti si trovano nella bibliografia alla fine di questo scritto. Il mio obiettivo è fare chiarezza su tre punti principali: la natura e il significato del velo imposto alle donne di Corinto, la questione se fosse una norma locale o una disposizione universale per tutte le comunità paoline, e infine il ruolo enigmatico degli angeli che Paolo menziona nel suo discorso.

Il contesto storico e culturale di Corinto

Per prima cosa, credo sia impossibile capire le parole di Paolo se non ci si sforza di immaginare la città a cui sta scrivendo. Corinto non era un luogo qualunque. Era una metropoli vivace, un crocevia di popoli e culture nel cuore del Mediterraneo romano. Essendo una colonia romana, vi convivevano la mentalità pragmatica e giuridica dei romani, l’eredità culturale dei greci e un’infinità di culti e usanze provenienti da tutto l’Impero. In un ambiente così variegato, l’abbigliamento non era una semplice questione di gusto personale, ma un potente linguaggio sociale. Il modo in cui una persona si vestiva comunicava immediatamente il suo status, la sua provenienza e la sua rispettabilità. Per una donna, questo era ancora più vero. Nel mondo greco-romano, il gesto di una donna sposata e onorata di coprirsi il capo in pubblico con un lembo della veste o con un velo era un segno visibile del suo onore e della sua appartenenza a una famiglia rispettabile. Non era tanto un’imposizione oppressiva, quanto un modo per affermare la propria dignità e il proprio ruolo sociale. Apparire a capo scoperto poteva essere interpretato come un segnale di trascuratezza, di bassa estrazione sociale o, nel peggiore dei casi, di immoralità, associando la donna a figure di prostitute o cortigiane. Anche nella tradizione giudaica, da cui provenivano Paolo e una parte della comunità, la chioma femminile era considerata un potente elemento di bellezza e seduzione, e per una donna sposata era un dovere di modestia coprirla per non turbare gli uomini e per custodire l’onore del proprio matrimonio.

È in questo scenario che dobbiamo collocare la comunità cristiana di Corinto. Immagino una comunità giovane, entusiasta, composta da persone di ogni tipo: giudei e gentili, persone ricche e istruite e persone umili e schiave. L’annuncio del Vangelo, con la sua incredibile promessa di libertà e di uguaglianza in Cristo, dove “non c’è più uomo né donna”, deve aver avuto un impatto fortissimo. È molto probabile che alcune donne della comunità, sentendosi liberate non solo dal peccato ma anche dalle rigide convenzioni sociali del loro tempo, avessero iniziato a partecipare attivamente alla vita comunitaria, pregando e profetizzando durante le assemblee, ma facendolo a capo scoperto. Dal loro punto di vista, questo era forse un modo per esprimere la loro nuova identità in Cristo. Tuttavia, questo comportamento, per quanto sincero, rischiava di creare enormi problemi. All’interno della comunità, poteva urtare la sensibilità di chi proveniva da una cultura più tradizionale, sia essa giudaica o greco-romana. All’esterno, poteva dare un’immagine completamente distorta della nuova fede, facendola apparire come un movimento che promuoveva il disordine morale e la sovversione delle buone usanze. Quando Paolo interviene, dunque, l’impressione è che la sua preoccupazione non sia l’abbigliamento in sé, ma qualcosa di molto più profondo: l’unità della comunità, il suo buon ordine e la sua capacità di essere una testimonianza credibile per il mondo esterno.

L’argomentazione teologica e retorica di Paolo

Credo sia un errore leggere questo passo come un semplice elenco di regole. A mio avviso, si tratta di una costruzione argomentativa molto sofisticata, in cui Paolo intreccia teologia, interpretazione della Scrittura, appelli al buon senso e alle consuetudini. Non si limita a dare un ordine, ma cerca di spiegare il perché della sua richiesta, fondandola su principi che ritiene essenziali. Il suo punto di partenza è una famosa affermazione di carattere teologico che stabilisce una sorta di “catena” di relazioni: “voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio”. La parola chiave, qui, è “capo”, in greco kephalē. Su questo termine si gioca gran parte dell’interpretazione del passo. La parola greca può avere due significati principali. Può indicare la “fonte”, l'”origine” di qualcosa, oppure può indicare l'”autorità”, il “leader”. Penso che Paolo, con grande abilità retorica, stia usando entrambi i significati. Da un lato, rifacendosi al secondo capitolo della Genesi, pensa all’uomo come “fonte” della donna; dall’altro, stabilisce un ordine funzionale in cui riconosce all’uomo un ruolo di guida. Questo ordine, però, non va inteso come una classifica di valore – come se la donna valesse meno dell’uomo, o l’uomo meno di Cristo – ma come una struttura di relazioni armoniche che, nella sua visione, rispecchia il disegno di Dio per la creazione e per la Chiesa.

Da questo principio generale, Paolo trae le conseguenze pratiche per la liturgia. Un uomo che prega a capo coperto, a suo avviso, “disonora” il suo capo, Cristo, perché è come se mettesse un velo sulla sua relazione diretta con lui. Una donna che prega a capo scoperto, invece, “disonora” il suo capo, l’uomo, perché con quel gesto è come se rifiutasse di riconoscere il proprio posto in questo ordine relazionale. Il gesto acquista un’enorme carica simbolica, e Paolo lo sottolinea con un paragone molto forte: una donna a capo scoperto è come se fosse rasata, un’immagine che nel mondo antico era associata a una punizione infamante, come quella per l’adulterio. La sua è un’argomentazione quasi provocatoria: se non vedete la differenza tra l’essere scoperta e l’essere rasata, e se siete d’accordo che essere rasata è una vergogna, allora per coerenza dovreste coprirvi. È fondamentale notare, però, che Paolo dà per scontato che le donne abbiano il diritto di “pregare e profetizzare” in assemblea. La sua non è una discussione sul se possano farlo, ma sul come debbano farlo per l’edificazione di tutti.

Per dare ancora più peso al suo discorso, Paolo si appella poi alla creazione. Afferma che l’uomo è “immagine e gloria di Dio”, mentre la donna è “gloria dell’uomo”. A prima vista, questa frase sembra quasi contraddire il primo capitolo della Genesi, dove si dice chiaramente che Dio creò l’essere umano, maschio e femmina, a sua immagine. Ma credo che Paolo stia facendo un’operazione precisa: sta temporaneamente mettendo da parte quel testo per concentrarsi sul secondo racconto della creazione, quello dove Eva è tratta da Adamo. In questa specifica logica argomentativa, la donna, essendo creata “dall’uomo” e “per l’uomo”, ne riflette la gloria. Tuttavia, e questo per me è un punto decisivo, Paolo non si ferma qui. Subito dopo aver stabilito questa gerarchia, la corregge e la riequilibra con due versetti di straordinaria importanza: “Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo senza la donna. Come infatti la donna proviene dall’uomo, così l’uomo nasce dalla donna; e tutto viene da Dio”. Quest’espressione, “nel Signore”, cambia tutto. Se l’ordine della creazione stabiliva una provenienza, la realtà della vita e della salvezza in Cristo stabilisce una reciprocità e un’interdipendenza totali. L’uno non può esistere senza l’altra, ed entrambi, in ultima analisi, vengono da Dio. Per me, questa è una mossa tipica di Paolo: usa un argomento gerarchico per risolvere un problema pratico, ma subito dopo lo reinserisce nella verità più profonda della comunione in Cristo, che è una verità di parità e di amore reciproco (che si manifesta proprio durante le assemblee liturgiche, che per Paolo sono già parte del regno veniente).

Una disposizione locale o universale?

A questo punto, possiamo affrontare una delle domande più spinose: le istruzioni di Paolo sul velo erano una norma valida per tutte le chiese e per tutti i tempi, o una soluzione pastorale pensata per la specifica e complicata comunità di Corinto? Devo ammettere che la questione è aperta, e ci sono buoni argomenti per entrambe le posizioni. A favore di una validità universale, c’è il fatto che Paolo non si limita a dare un consiglio pratico, ma costruisce un’argomentazione teologica complessa, basata su principi che lui ritiene universali, come l’ordine della creazione. Inoltre, la sua frase finale, “Se poi qualcuno vuole essere contenzioso, noi non abbiamo tale consuetudine, e neppure le chiese di Dio”, è stata spesso letta come un modo per chiudere la discussione appellandosi a una pratica comune a tutte le chiese. Secondo questa interpretazione, la “consuetudine” sarebbe quella di portare il velo.

Tuttavia, sono sempre più convinto che questo stesso versetto possa essere letto in un modo completamente diverso. La “consuetudine” che le chiese non hanno potrebbe non essere quella del velo, ma quella di “essere contenziosi”, cioè di litigare su tali questioni. Se così fosse, Paolo starebbe dicendo: “Se volete continuare a polemizzare, sappiate che non è il nostro stile, né quello delle altre chiese”. Questa lettura cambierebbe radicalmente la prospettiva. A favore di un’interpretazione più legata al contesto locale, ci sono molti altri indizi. L’intera lettera risponde a problemi specifici di Corinto. Gli argomenti basati sul senso dell’onore e della vergogna, o l’appello alla “natura” che insegnerebbe la giusta lunghezza dei capelli per uomini e donne, sono chiaramente legati alla cultura del I secolo e non possono essere trasportati di peso nel nostro mondo. La mia opinione è che Paolo stia facendo un’operazione pastorale molto precisa. Sta usando dei principi teologici che per lui sono universali (la relazione tra uomo e donna, l’ordine nella comunità) per risolvere un problema concreto e locale (il comportamento di alcune donne che rischiava di creare scandalo a Corinto). La norma specifica, cioè il copricapo, sarebbe quindi lo strumento, culturalmente determinato, per esprimere un principio teologico più profondo. L’obiettivo finale non è imporre un codice di abbigliamento, ma salvaguardare l’unità e la testimonianza della comunità.

Il mistero degli angeli e il potere della donna

Arriviamo infine al versetto più oscuro e, a mio parere, più affascinante di tutto il passo: “Per questo la donna deve avere exousia sulla testa, a motivo degli angeli”. La maggior parte delle traduzioni rende la parola greca exousia con espressioni come “un segno di autorità” o “un velo”, sottintendendo che si tratti di un segno dell’autorità dell’uomo su di lei. Tuttavia, studiando il termine greco, è possibile ritenere che questa sia una forzatura. In tutto il Nuovo Testamento, exousia significa sempre “potere”, “autorità”, “libertà di agire”, “diritto”. Non significa mai, passivamente, “segno di sottomissione”. Quindi, letteralmente, Paolo sta dicendo che la donna deve avere “autorità sulla sua testa”. Questa è un’affermazione rivoluzionaria, che capovolge la lettura tradizionale. Il copricapo non sarebbe il simbolo della sottomissione della donna all’uomo, ma il simbolo dell’autorità della donna stessa. Ma quale autorità? L’autorità, ricevuta da Cristo mediante lo Spirito, di pregare e profetizzare, di essere una voce autorevole nell’assemblea. In questa luce, il velo diventa il segno non del silenzio, ma della legittimità del suo ministero profetico, esercitato però in modo ordinato.

Ma cosa c’entrano gli angeli? Perché questa autorità va esercitata “a motivo degli angeli”? Nel corso della storia, sono state proposte le spiegazioni più varie. Un’antica interpretazione, basata su tradizioni giudaiche, suggeriva che le donne dovessero coprirsi per non tentare con la loro bellezza gli angeli presenti al culto. Oggi, però, questa ipotesi mi sembra piuttosto fantasiosa e poco coerente con il resto del discorso di Paolo. Un’altra possibilità è che gli “angeli” siano dei messaggeri umani, inviati da altre chiese, di fronte ai quali bisognava dare una buona immagine di sé. L’interpretazione che però trovo più convincente e profonda è un’altra. Nella visione del mondo di Paolo, l’assemblea cristiana che prega sulla terra è un riflesso del culto che si celebra perennemente in cielo, alla presenza degli angeli. Questi angeli non sono solo spettatori, ma sono i custodi dell’ordine e dell’armonia della creazione voluti da Dio. Quindi, quando una donna esercita la sua exousia, la sua potente autorità profetica, deve farlo in un modo che rispetti questo ordine cosmico. Il copricapo, simbolo della sua autorità, diventa il segno visibile che lei sta esercitando il suo dono in armonia con il disegno di Dio, sotto lo sguardo benevolo degli angeli che di quell’ordine sono i garanti. Non si copre perché è debole, ma perché è potente, e proprio per questo è chiamata a inserire il suo potere nell’armonia della comunità e della creazione.

Al termine di questa analisi, la mia convinzione è che questo passo, spesso usato per giustificare la sottomissione delle donne, ci riveli in realtà un quadro molto più dinamico e complesso. Paolo non sta scrivendo un trattato di teologia sistematica, ma sta lottando, come un pastore, per tenere insieme una comunità lacerata da alcune tensioni interne: l’ordine della creazione e la novità della salvezza, la differenza tra uomo e donna e la loro totale interdipendenza in Cristo, la libertà dei doni spirituali e la necessità di un ordine che edifichi tutti. Il copricapo, probabilmente una norma legata a quel preciso contesto, diventa per lui il simbolo di un equilibrio difficile ma necessario. Ci mostra una donna che non è messa a tacere, ma che prega e profetizza, esercitando una vera e propria autorità spirituale, e che è chiamata a farlo in un modo che costruisca, e non distrugga, la comunione. È un invito a vivere il potere e la libertà che Cristo ci dona non in modo individualistico, ma sempre al servizio dell’armonia e dell’amore reciproco.

Bibliografia

Barrett, C.K. (1979). La prima lettera ai Corinti. Bologna: EDB.

Biguzzi, G. (1994). Velo e silenzio: Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-36. Bologna: EDB.

Fabris, R. (1999). Prima lettera ai Corinzi. Milano: Paoline.

Lang, F. (2005). Le lettere ai Corinti. Brescia: Paideia Editrice.

Manzi, F. (2014). Prima lettera ai Corinzi. Cinisello Balsamo (MI): San Paolo.

Wendland, H-D. (1976). Le lettere ai Corinti. Brescia: Paideia Editrice.

Posted by Adriano Virgili

3 comments

Articolo molto interessante, purtroppo tra i non credenti è molto diffusa la credenza di un S. Paolo misogino. Si tratta di un pregiudizio davvero difficile da abbattere

Complimenti per l’ottimo articolo, che sfata la presunta misoginia di S.Paolo, e per questo blog su cui sono già presenti degli articoli molto interessanti

Dovrei praticamente postare il capitolo dedicato a Paolo, del mio libro su Cristianesimo e questione femminile, in via di definizione

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