C’è un suono a Roma che si riconosce prima ancora di vederne la fonte. È un mormorio che cresce, un fragore d’acqua che riecheggia tra i vicoli stretti del centro, promettendo qualcosa di grandioso. Mentre ci si fa strada tra i palazzi color ocra del Rione Trevi, il suono si intensifica, trasformandosi in un boato che sembra scuotere le fondamenta della città. Poi, all’improvviso, la stradina si apre e la vista esplode. È uno shock visivo, un’apparizione quasi irreale: la Fontana di Trevi.
Benvenuti nel cuore pulsante di Roma, in un luogo dove la pietra prende vita e l’acqua canta storie secolari. Se state leggendo questo articolo, probabilmente avete in mente un’immagine precisa: una cascata di marmo e travertino di una bellezza mozzafiato, un’intera facciata di palazzo che si scioglie in una scogliera animata da divinità e creature mitologiche, incastonata come un gioiello prezioso in una piccola piazza che a stento riesce a contenerla. L’effetto è voluto, un colpo di scena teatrale che lascia senza fiato chiunque vi arrivi per la prima volta.
Molti la conoscono per il celebre rito del lancio della monetina, un gesto scaramantico che promette un sicuro ritorno nella Città Eterna. Altri la associano all’indimenticabile, onirica scena de “La Dolce Vita”, con una celestiale Anita Ekberg che invita un esitante Marcello Mastroianni a bagnarsi con lei nelle sue acque cristalline, consacrando la fontana a icona globale di glamour e sogno. Ma la Fontana di Trevi è molto, molto di più. È un’opera teatrale a cielo aperto, il più grandioso e celebre “teatro d’acqua” del mondo, un capolavoro del tardo barocco che fonde architettura, scultura e natura in un’unica, travolgente sinfonia dei sensi.
In questo viaggio insieme, andremo oltre la superficie scintillante delle sue acque. Scaveremo a fondo per scoprire le sue radici, che affondano nell’ingegneria della Roma imperiale. Sveleremo i drammi, le ambizioni papali e le rivalità artistiche che si celano dietro la sua lunga e travagliata costruzione. Decifreremo il complesso e affascinante linguaggio delle sue statue, una per una. E racconteremo le leggende, quelle note e quelle quasi segrete, che avvolgono questo luogo in un’aura di magia senza tempo. Preparatevi, perché stiamo per immergerci nella storia, nell’arte e nell’anima di uno dei monumenti più amati e fotografati del pianeta.
Le radici antiche: la leggenda dell’Acqua Vergine
Per comprendere l’esistenza stessa della Fontana di Trevi, dobbiamo compiere un balzo indietro nel tempo di oltre duemila anni, all’epoca d’oro di Roma. La sua vita, il suo flusso incessante, dipendono da una delle più grandi meraviglie dell’ingegneria romana: l’Acquedotto dell’Acqua Vergine (Aqua Virgo).
La storia inizia nel 19 a.C. con una figura chiave del mondo augusteo: Marco Vipsanio Agrippa. Amico fraterno, geniale stratega, genero e braccio destro dell’imperatore Augusto, Agrippa non fu solo un comandante militare, ma un vero e proprio “ministro dei lavori pubblici” ante litteram. A lui si devono alcune delle più importanti opere che trasformarono il volto di Roma, come il primo Pantheon e le grandiose Terme che portano il suo nome, un immenso complesso di bagni pubblici gratuiti, palestre e giardini nel cuore del Campo Marzio. Per alimentare una struttura così colossale serviva un’enorme quantità di acqua, ma non un’acqua qualsiasi: doveva essere pura, leggera e fredda.
Fu così che Agrippa ordinò la costruzione di un nuovo acquedotto. E qui, la storia si intreccia con la leggenda, aggiungendo un tocco di poesia a un’impresa altrimenti puramente tecnica. Si narra che i soldati romani, incaricati di individuare una sorgente adatta nelle campagne riarse dal sole, stessero vagando ormai stremati dalla sete. Fu allora che apparve loro una giovane fanciulla (virgo in latino), che indicò una polla d’acqua nascosta tra le rocce, fresca e purissima. In onore di quella ragazza provvidenziale, l’acquedotto e l’acqua che trasportava presero il nome di “Acqua Vergine”.
L’acquedotto era un capolavoro di ingegneria idraulica. Lungo circa 20 chilometri, correva per la maggior parte del suo tracciato nel sottosuolo. Questa caratteristica si rivelò fondamentale per la sua sopravvivenza: protetto da agenti atmosferici e possibili sabotaggi, e meno soggetto a crolli, riuscì a superare il Medioevo. Mentre gli altri grandiosi acquedotti che correvano su arcate monumentali venivano tagliati dagli invasori o crollavano per mancanza di manutenzione, l’Acqua Vergine non smise mai del tutto di funzionare.
Il punto in cui oggi ammiriamo la Fontana di Trevi era semplicemente uno degli sbocchi terminali dell’acquedotto, una “mostra” d’acqua, come venivano chiamate. Per oltre mille anni, questo luogo non ebbe nulla di monumentale. Era una fonte pubblica, essenziale per la vita quotidiana degli abitanti del rione. Immaginiamo una semplice parete da cui fuoriuscivano tre cannelle che riversavano l’acqua in tre distinte vasche di raccolta. Un luogo puramente funzionale, il cui unico lusso era la qualità eccezionale dell’acqua. Il nome stesso, “Trevi”, pare derivi proprio dalla sua posizione geografica, all’incrocio di “tre vie” (via De’ Crociferi, via Poli e via delle Muratte), che in latino volgare divenne “trivio”, e da lì, per contrazione, Trevi.
I primi passi: Rinascimento e ambizioni barocche
La metamorfosi da semplice fontanile a opera d’arte iniziò nel Rinascimento. Nella metà del Quattrocento, Roma stava lentamente riemergendo dalle rovine del Medioevo. Papa Niccolò V, un pontefice umanista, lanciò un ambizioso programma di rinnovamento urbano per restituire alla città la sua antica grandezza. Nel 1453, decise di dare un aspetto più decoroso alla mostra dell’Acqua Vergine. Affidò l’incarico a due giganti del primo Rinascimento: il teorico e architetto Leon Battista Alberti e il suo collaboratore Bernardo Rossellino.
Il loro intervento fu sobrio ed elegante, in pieno stile rinascimentale. Sostituirono le vecchie vasche con un unico bacino rettangolare, addossato a una parete a bugnato su cui fu apposta una grande lapide commemorativa con gli stemmi papali. Era il primo tentativo di dare una veste artistica al luogo, ma la fontana rimaneva un’opera contenuta, priva di slancio scenografico.
Il vero punto di svolta, il momento in cui nacque l’idea di qualcosa di grandioso, arrivò quasi due secoli dopo, in piena esplosione del Barocco. Nel 1629, il soglio pontificio era occupato da Maffeo Barberini, Papa Urbano VIII, un uomo di straordinaria cultura ma anche di smisurata ambizione, desideroso di legare il nome della sua famiglia a opere immortali. Insoddisfatto dell’aspetto modesto della fontana quattrocentesca, decise che Roma meritava un finale monumentale per un acquedotto così prestigioso.
L’architetto a cui si rivolse non poteva che essere il dominatore assoluto della scena artistica romana, l’uomo che stava plasmando il volto barocco della città: Gian Lorenzo Bernini. Bernini concepì un progetto rivoluzionario. Innanzitutto, spostò l’asse della fontana, ruotandola di novanta gradi per renderla un fondale scenografico visibile dal Palazzo del Quirinale, la residenza papale. La sua idea era quella di un “teatro d’acqua”, con statue, giochi di luce e una scala imponente. I lavori iniziarono, ma si arenarono quasi subito. I costi erano esorbitanti e per finanziarli, Urbano VIII impose nuove tasse, tra cui una particolarmente odiata sul vino, che colpì duramente il popolo romano. Il malcontento esplose in satire e “pasquinate”, e il progetto fu bloccato, anche a causa della morte del pontefice nel 1644. Del passaggio dei Barberini, noti per la spregiudicatezza con cui riutilizzavano i monumenti antichi (da cui il detto “Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini”), rimase un’eredità fondamentale: la nuova collocazione della fontana e, soprattutto, l’idea che quel luogo dovesse ospitare non una semplice fontana, ma un grandioso spettacolo.
Il concorso del 1730: una gara all’ultimo colpo di scalpello
Il sogno di Bernini rimase nel cassetto per quasi un secolo. Fu Papa Clemente XII Corsini a rispolverarlo. Nel 1730, ormai anziano e quasi cieco ma animato da una ferrea volontà, decise che era giunto il momento di dare a Roma quella fontana che attendeva da troppo tempo. Per assicurarsi il miglior progetto possibile, indisse un grande concorso pubblico, una pratica comune all’epoca per le grandi commissioni papali.
La gara vide la partecipazione dei più illustri architetti attivi a Roma, tra cui nomi del calibro di Luigi Vanvitelli, che di lì a poco avrebbe progettato la maestosa Reggia di Caserta, e Ferdinando Fuga. L’ambiente artistico era in fermento, in un’epoca di transizione tra gli ultimi fasti del Barocco e le nuove tendenze del Rococò e del nascente Neoclassicismo.
Inizialmente, la vittoria fu assegnata ad Alessandro Galilei, un architetto di grande talento, che però aveva una “colpa” imperdonabile agli occhi dei romani: era fiorentino, proprio come il Papa. La scelta scatenò un’incredibile ondata di proteste. L’orgoglio e il campanilismo romano esplosero: non si poteva accettare che un’opera così simbolica per la città fosse affidata a un forestiero. Il malcontento fu così forte e diffuso che il Papa, saggiamente, fece marcia indietro. La prestigiosa commissione fu così riassegnata al secondo classificato: un architetto romano di nome Nicola Salvi.
Salvi, membro dell’Accademia di San Luca, non era solo un architetto, ma anche un uomo di profonda cultura, un poeta e un filosofo. Questo background intellettuale si rivelò decisivo. Egli seppe riprendere e superare le idee di Bernini, sviluppandole in un progetto del tutto originale. La sua intuizione geniale fu quella di non concepire la fontana come un oggetto a sé stante, ma di fonderla indissolubilmente con la facciata del retrostante Palazzo Poli, di proprietà dei Duchi di Poli. Il palazzo non sarebbe stato più uno sfondo passivo, ma parte integrante dell’opera, un palcoscenico monumentale per il dramma dell’acqua.
La costruzione di un capolavoro (1732-1762)
I lavori per la Fontana di Trevi iniziarono nel 1732. Fu un cantiere colossale, che andò avanti per trent’anni, un’intera generazione. L’impresa fu ardua e complessa, segnata da difficoltà tecniche, costi enormi e anche dal dramma personale del suo creatore. Le gigantesche lastre di travertino, la stessa pietra color crema del Colosseo, venivano estratte dalle cave di Tivoli e trasportate a Roma con un enorme dispendio di energie. Lavorare in uno spazio così ristretto, nel cuore di una città densamente popolata, presentava sfide logistiche quotidiane.
Nicola Salvi dedicò gli ultimi vent’anni della sua vita a questo progetto con una dedizione quasi ossessiva. Sovrintendeva a ogni fase, dal disegno dei più piccoli dettagli scultorei alla scelta dei materiali, passando ore e ore nel cantiere. Purtroppo, questo sforzo immane minò la sua salute. Salvi morì nel 1751, quando l’opera era a buon punto ma non ancora terminata. Non riuscì a vedere il suo capolavoro compiuto.
La direzione dei lavori fu allora affidata a Giuseppe Pannini, che ebbe il compito delicato di portare a termine la fontana rispettando il più fedelmente possibile i disegni e lo spirito del progetto originale di Salvi. A lui si devono alcune scelte esecutive e la supervisione della fase finale di scultura e assemblaggio. Finalmente, nel 1762, trent’anni dopo la posa della prima pietra, la Fontana di Trevi fu ufficialmente inaugurata da Papa Clemente XIII Rezzonico, e le sue acque poterono sgorgare in tutta la loro magnificenza.
Il teatro dell’acqua: decifrare le statue
La Fontana di Trevi è molto più di una bella decorazione. È una complessa macchina allegorica, una narrazione in pietra e acqua che celebra la potenza benefica della natura e la storia dell’Acqua Vergine. Salvi ha concepito la facciata del Palazzo Poli come un maestoso arco di trionfo che fa da sfondo alla rappresentazione.
- Oceano, il Titano Dominatore: Al centro della scena, eretto su un cocchio a forma di grande conchiglia, non c’è Nettuno, il dio del mare, come molti erroneamente credono. La figura dominante è quella di Oceano, un titano, una divinità più antica e primordiale che nella mitologia greca rappresentava l’immenso fiume che circondava il mondo, la fonte di tutte le acque dolci e salate. Questa scelta non è casuale: Salvi volle rappresentare l’origine stessa dell’acqua in tutte le sue forme. La statua, scolpita magistralmente da Pietro Bracci dopo la morte di Salvi, emana una potenza straordinaria. Il volto fiero, la barba fluente che si confonde con i getti d’acqua, la muscolatura possente e il gesto imperioso della mano lo rendono il fulcro dinamico di tutta la composizione.
- I Cavalli Marini e i Tritoni: Il cocchio di Oceano è trainato da due ippocampi, cavalli marini dalle code pisciformi, a loro volta guidati da due giovani e muscolosi tritoni. I due animali sono rappresentati in modo diametralmente opposto, in una delle allegorie più riuscite e immediate della fontana. Il cavallo di sinistra è “agitato”, selvaggio e irrequieto. Si impenna, con le narici dilatate e lo sguardo furente, quasi a voler sfuggire al controllo del tritone. Rappresenta la natura indomabile dell’acqua, la sua forza distruttiva: il mare in tempesta, le alluvioni. Il cavallo di destra è invece “calmo”, placido e sottomesso, e simboleggia l’aspetto benefico e controllato dell’acqua: un lago tranquillo, un fiume navigabile, l’acqua che irriga i campi.
- Le Allegorie della Prosperità: Nelle due grandi nicchie laterali, ai fianchi di Oceano, due figure femminili personificano i doni che l’acqua porta all’umanità. A sinistra, l’elegante statua dell’Abbondanza, scolpita da Filippo della Valle, regge una cornucopia traboccante di frutti e fiori, simbolo della ricchezza e della fertilità che l’acqua garantisce. A destra, la statua della Salubrità, il cui modello fu di Giovanni Grossi, tiene in mano una coppa da cui si abbevera un serpente, un antico simbolo legato a Esculapio, dio della medicina. È un chiaro riferimento alla purezza e alle proprietà benefiche dell’Acqua Vergine, che per secoli ha garantito la salute dei romani.
- I Bassorilievi della Leggenda: Sopra le due nicchie laterali, due grandi pannelli a bassorilievo fungono da “flashback”, raccontando in pietra le origini della fontana. La loro posizione non è casuale: sono posti in dialogo con le statue sottostanti. A destra, sopra la Salubrità, il rilievo di Andrea Bergondi illustra la scena leggendaria della vergine romana che indica la sorgente ai soldati di Agrippa. A sinistra, sopra l’Abbondanza, il rilievo di Giovanni Battista Grossi raffigura un momento più istituzionale: Agrippa che approva il progetto dell’acquedotto, presentato dai suoi architetti. La storia si lega così all’allegoria.
- La Scogliera Vivente: Tutta la parte inferiore della fontana è concepita come una scogliera rocciosa che sembra emergere organicamente dal basamento del palazzo, confondendo il confine tra artificio e natura. Tra le rocce sono scolpite diverse piante, come il cappero, il fico selvatico e l’edera, che sembrano crescere spontaneamente. L’acqua non cade in un unico getto, ma sgorga da innumerevoli punti, scivolando sulle rocce, formando piccole cascate e rivoli, creando un effetto sonoro polifonico e un movimento continuo e vibrante che anima l’intera piazza.
Leggende, aneddoti e cinema
Oltre alla sua magnificenza artistica, la Fontana di Trevi è un luogo carico di storie, tradizioni e aneddoti che ne hanno alimentato il mito attraverso i secoli.
- Il Lancio della Monetina: È la tradizione più famosa e praticata al mondo. Il rito, noto a tutti, vuole che, dando le spalle alla vasca, si lanci una monetina con la mano destra sopra la spalla sinistra. Questo gesto garantirebbe il sicuro ritorno a Roma. La leggenda, nel tempo, si è arricchita di varianti: lanciare due monete aiuterebbe a trovare un nuovo amore, mentre lanciarne tre porterebbe dritti al matrimonio. Questa usanza, resa immortale dal film del 1954 “Tre soldi nella fontana”, ha radici profonde, che risalgono probabilmente ad antichi riti pagani in cui si gettavano offerte e piccoli doni nelle sorgenti e nei pozzi per propiziarsi le divinità delle acque. Oggi, si stima che nella fontana vengano gettati oltre un milione di euro all’anno. Il denaro viene regolarmente raccolto e interamente devoluto alla Caritas di Roma per finanziare opere di assistenza ai più bisognosi.
- La Fontanina degli Innamorati: Sul lato destro della fontana, un po’ defilata rispetto alla grandiosità della scena principale, si trova una piccola e deliziosa vasca con due cannelli d’acqua che si incrociano prima di cadere nel bacino: è la Fontanina degli Innamorati. Una leggenda romantica vuole che le coppie che bevono insieme da questa fontanella rimarranno unite e fedeli per sempre. Anticamente, la tradizione era legata alle partenze: quando un giovane doveva lasciare Roma per un lungo periodo (spesso per il servizio militare), la sera prima della partenza la fidanzata lo accompagnava a bere un sorso di quest’acqua da un bicchiere nuovo, che veniva poi rotto. Il gesto sigillava un patto d’amore che avrebbe resistito alla lontananza e garantito il ritorno del giovane.
- L’Asso di Coppe e la Vendetta di Salvi: Guardando la fontana, sul lato sinistro, si nota un grande vaso di travertino decorato che sembra quasi fuori posto, parzialmente staccato dal resto della scogliera. La sua presenza è legata a un aneddoto gustoso che rivela il carattere fiero di Nicola Salvi. Durante gli anni della costruzione, proprio in quel punto si trovava la bottega di un barbiere, che non perdeva occasione per criticare aspramente il lavoro dell’architetto, dispensando consigli non richiesti e giudizi taglienti. Esasperato dalle continue lamentele, Salvi decise di vendicarsi con arguzia. Fece scolpire quel grande vaso, soprannominato dai romani l’Asso di Coppe per la sua somiglianza con la carta da gioco, e lo posizionò esattamente lì, in modo da ostruire completamente la vista della fontana dalla porta della bottega del barbiere impiccione.
- La Fontana e il Grande Schermo: Nessun altro monumento a Roma, forse nemmeno il Colosseo, ha un legame così forte con il cinema. Fu “La Dolce Vita” di Federico Fellini (1960) a consacrarla definitivamente nell’immaginario collettivo globale. La scena notturna, quasi un sogno, in cui Anita Ekberg si immerge nella vasca è una delle più potenti e celebrate della storia del cinema. Ha trasformato la fontana da semplice capolavoro d’arte a simbolo universale di Roma, di bellezza, di un certo modo di vivere. Ma già prima, film come “Vacanze Romane” (1953) e il già citato “Tre soldi nella fontana” (1954) l’avevano resa una tappa obbligata per i turisti di tutto il mondo. E come dimenticare il grande Totò che, in “Totòtruffa 62”, tenta di venderla a un ingenuo turista americano?
La fontana oggi: un eterno splendore
Visitare la Fontana di Trevi oggi rimane un’esperienza indimenticabile. Per coglierne appieno la magia, il consiglio è di recarvisi in momenti di minor affollamento, come la mattina all’alba, quando la luce radente accarezza i marmi, o la notte tarda, quando l’illuminazione artificiale la trasforma in un palcoscenico incantato e il suono dell’acqua regna incontrastato sulla piazza silenziosa.
Tra il 2014 e il 2015, la fontana è stata protagonista di un grandioso e meticoloso restauro, finanziato dalla casa di moda Fendi, che le ha restituito il suo candore originale. L’intervento ha ripulito il travertino e i marmi di Carrara dallo smog e dalle incrostazioni di calcare, facendo riemergere dettagli e sfumature cromatiche che si erano persi nel tempo. Durante i lavori, una passerella panoramica permise a milioni di visitatori di attraversare la fontana “a secco”, un’opportunità unica per ammirare da vicino la potenza delle sculture.
La Fontana di Trevi non è una reliquia statica del passato. È un organismo vivo, un cuore che pulsa al ritmo della città, un luogo di pellegrinaggio laico per milioni di persone. È uno sfondo per innumerevoli proposte di matrimonio, un catalizzatore di desideri affidati a una monetina, un luogo di incontro e di semplice, pura meraviglia. È la prova che a Roma la bellezza non è solo qualcosa da contemplare nei musei, ma un’esperienza da vivere, che ti sorprende e ti travolge nel mezzo della vita quotidiana. E la promessa, per chiunque le affidi un desiderio, è quella di poter tornare, ancora una volta, a perdersi nel suo incantesimo.