Origini cristiane

«Babilonia» nella Prima lettera di Pietro: un’analisi storico-esegetica dell’identificazione con Roma

«Babilonia» nella Prima lettera di Pietro: un’analisi storico-esegetica dell’identificazione con Roma

Introduzione: un enigma geografico e il suo peso storico

Alla chiusura di uno degli scritti più pastoralmente intensi del Nuovo Testamento, la Prima lettera di Pietro, si trova un saluto apparentemente semplice che ha però costituito per secoli un complesso enigma esegetico: «Vi saluta la comunità che è in Babilonia, eletta come voi, e Marco, mio figlio» (1 Pt 5,13). Questa singola menzione di “Babilonia” come luogo di origine della lettera ha polarizzato la discussione accademica, dando vita a due principali filoni interpretativi. Il primo, letteralista, suggerisce che l’autore si trovasse effettivamente nella Babilonia storica in Mesopotamia, o in un omonimo avamposto militare in Egitto. Il secondo, simbolico, sostiene che “Babilonia” sia un criptonimo, un nome in codice per la città di Roma, capitale dell’Impero.

Sebbene l’opzione letterale non sia priva di una sua logica superficiale, essa si scontra con una quasi totale assenza di prove a supporto. Al contrario, un’analisi approfondita basata sulla convergenza di indizi provenienti da discipline diverse – la storiografia patristica, l’esegesi letteraria, l’analisi del linguaggio simbolico dell’epoca e la ricostruzione storica – ha portato la schiacciante maggioranza dei ricercatori moderni a identificare con un alto grado di certezza la Babilonia petrina con la capitale dell’Impero. Questo articolo si propone di esplorare in modo succinto le ragioni di tale consenso, dimostrando come l’ipotesi romana non sia semplicemente la più probabile, ma l’unica in grado di rendere conto in modo coerente di tutti i dati a nostra disposizione. A complicare e, al contempo, arricchire il quadro, si aggiunge la fondamentale questione dell’autenticità della lettera: fu davvero l’apostolo Pietro a scriverla, o si tratta di un’opera pseudepigrafa? Come vedremo, questa domanda, lungi dal rendere la questione irrisolvibile, getta una luce ulteriore e decisiva sull’enigma di “Babilonia”.

Le alternative in campo: l’insostenibilità dell’ipotesi letterale

Prima di esaminare le prove a favore di Roma, è necessario analizzare la fragilità delle ipotesi alternative. La più discussa è senza dubbio quella della Babilonia mesopotamica. I suoi sostenitori argomentano, non a torto, che nel I secolo d.C. la regione ospitava una delle più grandi e vitali comunità ebraiche della diaspora, risalente all’esilio del VI secolo a.C. Lo storico Flavio Giuseppe, ad esempio, testimonia la sua importanza demografica e culturale. In quest’ottica, si ipotizza che Pietro, in qualità di “apostolo dei circoncisi” (Gal 2,8), avrebbe potuto logicamente estendere la sua missione a questa importante enclave giudaica.

Tuttavia, questa costruzione, per quanto plausibile in astratto, si rivela storicamente insostenibile. L’ostacolo più grande è un invalicabile “argomento dal silenzio”. Nelle prime comunità cristiane, la memoria dei luoghi di predicazione e, soprattutto, di martirio degli apostoli principali era un patrimonio prezioso, custodito e tramandato con cura. Esistono tradizioni, per quanto talvolta leggendarie, sulla missione di Tommaso in India, di Giovanni a Efeso, di Marco ad Alessandria. Eppure, come sottolinea la quasi totalità degli studiosi moderni, «non esiste alcuna tradizione cristiana, fonte letteraria, o leggenda che colleghi in qualche modo l’apostolo Pietro, o i suoi compagni Marco e Silvano, alla Babilonia sull’Eufrate» (Ehrman, 2008, p. 99). Tutta la tradizione successiva, a partire dalla fine del I secolo, punta inequivocabilmente e unanimemente in un’unica direzione per l’ultima fase della vita di Pietro: Roma. Il silenzio totale su una missione mesopotamica non è un’assenza neutra, ma un’evidenza negativa fortissima.

Un’altra ipotesi letterale, ancora più debole, identifica la località con un forte militare romano chiamato Babilonia, situato in Egitto, vicino all’odierno Cairo. Questa opzione, tuttavia, ha ancora meno frecce al suo arco. Si trattava di un presidio militare di secondaria importanza, privo di una significativa comunità ebraica (concentrata soprattutto ad Alessandria) e, ancora una volta, totalmente assente da qualsiasi tradizione legata alla missione petrina. Karl Hermann Schelkle (1981), nel suo commentario, la elenca tra le possibilità teoriche ma la scarta rapidamente per la sua implausibilità storica. In assenza di qualsiasi prova esterna, l’ipotesi letterale, in entrambe le sue varianti, rimane una pura speculazione basata su una lettura decontestualizzata del toponimo.

La questione dell’autore: pseudepigrafia e le sue implicazioni

Un nodo fondamentale per l’interpretazione di 1 Pietro è la questione della sua paternità. Se da un lato la lettera si apre con una chiara auto-attribuzione («Pietro, apostolo di Gesù Cristo»), dall’altro molti studiosi moderni avanzano seri dubbi sulla sua autenticità, suggerendo che si tratti di un’opera pseudepigrafa, scritta cioè da un discepolo o da un membro della “scuola petrina” verso la fine del I secolo (ca. 80-95). Le ragioni a sostegno di questa tesi sono principalmente di natura linguistica e teologica:

  • La qualità del greco: La lingua della lettera è un greco colto, elegante e stilisticamente elaborato, con un ricco vocabolario e una sintassi complessa. Molti studiosi ritengono improbabile che tale livello di raffinatezza letteraria potesse appartenere a un pescatore galileo la cui lingua madre era l’aramaico. Sebbene la menzione di Silvano come scriba (5,12) possa spiegare questa qualità, alcuni vedono in essa un artificio letterario tipico della pseudepigrafia per conferire verosimiglianza all’opera.
  • La teologia della lettera: Il pensiero teologico di 1 Pietro sembra riflettere una fase matura del cristianesimo primitivo. L’autore mostra una notevole familiarità con la tradizione paolina (specialmente con le lettere ai Romani e agli Efesini), che integra armonicamente con temi tipicamente petrini. Questa sintesi, secondo alcuni, suggerisce un’epoca successiva a quella dei due apostoli, in cui un autore di seconda generazione poteva attingere e rielaborare il loro insegnamento. Gilberto Marconi (2000, p. 7), ad esempio, la definisce opera di un «Autore anonimo, con buona probabilità esponente di spicco del gruppo dei cristiani residenti a Roma, intorno all’ultimo decennio del I secolo».

Questa discussione ha un’implicazione diretta e potente sulla questione di “Babilonia”. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’ipotesi pseudepigrafa, lungi dal rendere l’identificazione con Roma più debole, la rafforza enormemente. Se la lettera fu scritta da un discepolo della scuola petrina a Roma verso la fine del I secolo, la scelta di “Babilonia” diventa una mossa letteraria e teologica carica di significato. Un autore che scriveva in quella città, decenni dopo il martirio di Pietro sotto Nerone, avrebbe avuto tutte le ragioni per:

  1. Ancorare l’opera alla tradizione del martirio: Usare “Babilonia” come nome in codice per Roma significava collocare retroattivamente la voce autorevole del maestro nella città del suo martirio, la capitale del potere che lo aveva messo a morte.
  2. Rafforzare l’autorità della chiesa di Roma: Firmare la lettera con il nome di Pietro da “Babilonia” (Roma) serviva a consolidare l’eredità petrina della comunità romana, presentandola come la custode del suo insegnamento.
  3. Rendere il messaggio più potente: Il simbolo di Babilonia, in un’epoca di persecuzioni (come quelle sotto Domiziano), avrebbe risuonato con forza tra i destinatari, collegando le loro sofferenze a quelle del principe degli apostoli nella capitale dell’impero ostile.

In questo scenario, “Babilonia” non è solo un dato geografico nascosto, ma una scelta teologica e strategica che lega indissolubilmente il messaggio della lettera alla città di Roma e alla memoria del martirio di Pietro.

Le prove convergenti: perché Roma?

Che l’autore sia Pietro stesso (con Silvano come scriba) o un discepolo della sua scuola, le prove che puntano a Roma come luogo di origine (reale o simbolico) della lettera sono schiaccianti e provengono da più direzioni.

La memoria più antica: la testimonianza patristica

Come già accennato, l’identificazione di Babilonia con Roma è attestata in modo sorprendentemente precoce. La fonte principale è lo storico Eusebio di Cesarea, che riporta una tradizione risalente a Papia di Gerapoli e Clemente di Alessandria. Eusebio scrive: «E si dice che Pietro faccia menzione di Marco nella sua prima lettera, che si dice anche abbia composto nella stessa Roma, e che lo indichi egli stesso, chiamando la città, metaforicamente, Babilonia» (Storia Ecclesiastica, II, 15, 2). La testimonianza di Papia (ca. 110-130) è importante perché ci riporta a una memoria quasi contemporanea ai fatti. Questa non era un’opinione isolata. A fine II secolo, Ireneo di Lione (Contro le Eresie, III, 1, 1) e Tertulliano di Cartagine confermano la predicazione e il martirio di Pietro a Roma. Tertulliano scrive con enfasi: «Quanto è felice quella Chiesa alla quale gli apostoli hanno donato tutta la loro dottrina insieme col loro sangue!» (De praescriptione haereticorum, 36), riferendosi esplicitamente a Roma.

Il linguaggio del potere: “Babilonia” come simbolo

L’uso di “Babilonia” come nome in codice per Roma era un’immagine diffusa e potente nella letteratura giudaica del tempo. Specie dopo la distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C., l’analogia tra Roma e l’antica Babilonia divenne immediata e potente. Come scrive Joachim Gnilka (2003, p. 109), «L’appellativo dispregiativo di Babilonia per Roma era corrente… Roma era considerata il centro del potere ostile a Dio. In questo senso essa era la Babilonia escatologica». Questa identificazione simbolica è ben attestata in opere come gli Oracoli Sibillini (libro V, 143, 159), il Quarto libro di Esdra e l’Apocalisse di Baruc. Inserita in questo contesto culturale, la menzione di Babilonia in 1 Pietro appare tutt’altro che strana; è, al contrario, un riferimento culturale e teologico immediatamente riconoscibile dai suoi primi lettori.

Coerenza interna: teologia dell’esilio e indizi prosopografici

Gli indizi più convincenti provengono dall’analisi interna della lettera stessa. La Prima lettera di Pietro è, nella sua essenza, una “lettera dell’esilio”. Si apre con un indirizzo esplicito «agli eletti che vivono come stranieri nella diaspora (διασπορά) del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia» (1 Pt 1,1). L’intero scritto è costruito sull’identità dei credenti come “stranieri e pellegrini” (2,11). La menzione finale di “Babilonia” è la chiave di volta di questa cornice teologica. Paul J. Achtemeier (1996), nel suo autorevole commentario, spiega come la lettera utilizzi l’esperienza dell’esilio di Israele come modello per comprendere la condizione cristiana. In quest’ottica, la menzione di Babilonia è il culmine di questa teologia, identificando la capitale dell’impero come il luogo per eccellenza della prova e della testimonianza.

A questo si aggiunge l’elemento prosopografico, un vero e proprio puzzle umano la cui unica soluzione plausibile è Roma. La menzione congiunta di Pietro, Marco e Silvano punta in modo quasi inequivocabile alla capitale.

  • Pietro e Marco: Come già visto, la tradizione che lega Marco a Pietro come suo “interprete” (ἑρμηνευτής) a Roma è antichissima e solidissima. Markus Bockmuehl (2017, p. 134) la definisce «una delle più antiche e meglio attestate tradizioni della chiesa primitiva».
  • Marco a Roma: La sua presenza a Roma è attestata indipendentemente anche da Colossesi 4,10 e Filemone 24, dove Paolo, scrivendo dalla sua prigionia romana, menziona Marco come suo collaboratore.
  • Silvano: La figura di Silvano (il Sila degli Atti) rafforza ulteriormente il quadro. Egli era un cittadino romano (At 16,37), una figura di spicco della chiesa di Gerusalemme e un compagno di missione di Paolo. La sua presenza a Roma, crocevia dell’Impero e centro nevralgico della missione cristiana, è del tutto logica e verosimile.

L’ipotesi romana, quindi, permette di collocare tutti i pezzi del puzzle in modo coerente. Qualsiasi altra ipotesi costringe a creare scenari storici privi di qualsiasi fondamento documentale.

Conclusione: oltre l’enigma, la certezza morale

L’identificazione della Babilonia di 1 Pietro 5,13 con Roma non è un dogma, ma il risultato di un rigoroso processo storico-critico. È la conclusione che si impone quando si lascia che le prove parlino da sole, in un quadro di convergenza che unisce la memoria più antica della Chiesa, l’analisi del linguaggio simbolico dell’epoca, la coerenza teologica interna della lettera e l’evidenza prosopografica. La discussione sulla pseudepigrafia, lungi dall’indebolire questa conclusione, la cementa: che sia stato Pietro a dettare la lettera a Silvano prima del suo martirio, o un suo discepolo a scriverla a Roma in sua vece per onorarne la memoria, il punto di riferimento geografico, storico e teologico rimane la capitale dell’Impero. Comprendere questo dettaglio non è un mero esercizio accademico; significa cogliere la profonda urgenza del messaggio della lettera: un appello alla speranza, alla santità e alla perseveranza, rivolto a una comunità dispersa da parte di chi condivide la sua stessa condizione di esilio, testimoniando la fede proprio dal cuore della “Babilonia” del suo tempo.


Bibliografia

  • Achtemeier, P.J., 1996. La Prima Lettera di Pietro: Commento storico esegetico. Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana.
  • Bockmuehl, M., 2017. Simon Pietro nella Scrittura e nella memoria: L’apostolo nella chiesa antica. Torino: Claudiana.
  • Ehrman, B.D., 2008. Pietro, Paolo e Maria Maddalena: Storia e leggenda dei primi seguaci di Gesù. Milano: Mondadori.
  • Gianotto, C., 2018. Pietro: Il primo degli apostoli. Bologna: Il Mulino.
  • Gnilka, J., 2003. Pietro e Roma: La figura di Pietro nei primi due secoli. Brescia: Paideia Editrice.
  • Marconi, G., 2000. Prima lettera di Pietro. Roma: Città Nuova.
  • Nicolaci, M., 2016. Prima lettera di Pietro: Introduzione, traduzione e commento. Cinisello Balsamo: San Paolo.
  • Schelkle, K.H., 1981. Le lettere di Pietro. La lettera di Giuda. Brescia: Paideia Editrice.

 

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Petrus in Urbe: analisi storica della presenza e del martirio di Pietro a Roma

Petrus in Urbe: analisi storica della presenza e del martirio di Pietro a Roma

Introduzione: una questione storica, non teologica

La questione della presenza e del martirio dell’apostolo Pietro a Roma rappresenta uno dei nodi storiografici più affascinanti e dibattuti delle origini cristiane. Per secoli, la discussione è stata inestricabilmente legata a controversie di natura teologica e ecclesiologica, in particolare riguardo al primato papale. Tuttavia, un’analisi storica rigorosa impone di scindere nettamente i due piani: l’indagine sulla permanenza e la morte di Pietro nella capitale dell’Impero è un problema che va affrontato con gli strumenti della critica storica, basandosi sulla valutazione delle fonti letterarie e dei dati archeologici, indipendentemente dalle sue successive implicazioni dottrinali. Il consenso raggiunto dalla storiografia moderna, che include studiosi di diverse confessioni e anche atei e agnostici, non si fonda su un atto di fede, ma su un’attenta ponderazione delle prove disponibili.

Questo articolo si propone di esaminare in modo compiuto le evidenze che sostengono la tesi, oggi largamente maggioritaria, secondo cui Pietro soggiornò, subì il martirio e fu sepolto a Roma. L’argomentazione centrale non si basa su una singola prova inconfutabile, ma sulla straordinaria convergenza di molteplici e indipendenti linee di testimonianze che, pur con diversi gradi di certezza, puntano tutte nella medesima direzione. Se prese singolarmente, molte di queste testimonianze possono apparire come meri indizi; tuttavia, quando vengono esaminate nel loro insieme e incrociate tra loro, si completano e si confermano reciprocamente, costruendo un caso di alta probabilità storica.

È fondamentale, fin da subito, chiarire una sfumatura fondamentale: affermare la presenza e il martirio di Pietro a Roma non significa sostenerne il ruolo di “fondatore” della comunità cristiana locale, nel senso di primo evangelizzatore. Le fonti storiche, sia cristiane che pagane, suggeriscono con forza l’esistenza di una fiorente comunità cristiana nella capitale ben prima del probabile arrivo dell’apostolo. Lo storico romano Svetonio, ad esempio, riporta che l’imperatore Claudio espulse da Roma gli ebrei attorno al 49 a causa di tumulti sorti “per istigazione di Cresto” (impulsore Chresto), un probabile riferimento a conflitti interni alle sinagoghe romane riguardo alla figura di Cristo. Questa notizia, corroborata dagli Atti degli Apostoli (18,2), dimostra l’esistenza di un nucleo cristiano a Roma già negli anni ’40 del I secolo. Inoltre, la stessa Lettera ai Romani di Paolo, scritta attorno al 57, si rivolge a una comunità già ben strutturata, la cui fede era “nota in tutto il mondo” (Rm 1,8), e nella quale Paolo stesso non si era ancora recato, in accordo con il suo principio di non edificare sul fondamento altrui (Rm 15,20). La presenza di Pietro a Roma, quindi, va collocata in una fase successiva, probabilmente negli ultimi anni della sua vita, e il suo ruolo fu quello di conferire autorità apostolica a una comunità già esistente, non di iniziarla.

Le prime tracce letterarie: un mosaico di indizi (I – inizio II secolo)

Le prime fonti cristiane che toccano la questione della presenza di Pietro a Roma sono spesso indirette, allusive e talvolta caratterizzate da un silenzio eloquente. L’analisi critica di questi testi del I e dell’inizio del II secolo permette di assemblare un mosaico di indizi che, pur non fornendo prove dirette, gettano le basi per la tradizione successiva.

L’argomento del silenzio: la Lettera ai Romani e gli Atti degli Apostoli

Un punto di partenza obbligato nell’analisi è il cosiddetto “argomento del silenzio”. Due testi fondamentali del Nuovo Testamento, la Lettera ai Romani di Paolo (ca. 57) e gli Atti degli Apostoli (redatti probabilmente tra l’80 e l’85), non menzionano la presenza di Pietro a Roma. Nella sua lettera, Paolo invia saluti a numerosi membri della comunità romana (capitolo 16), ma il nome di Pietro non compare. Allo stesso modo, gli Atti descrivono l’arrivo di Paolo a Roma come prigioniero (ca. 60-62) e i suoi incontri con i capi della comunità locale, senza fare alcun cenno a Pietro.

Questo silenzio, anziché confutare la presenza di Pietro a Roma, serve a delimitarla cronologicamente. Esso dimostra con alta probabilità che Pietro non si trovava nella capitale prima del 62 circa. Ciò invalida le tradizioni più tarde, come quelle riportate da Girolamo, che parlano di un lungo “episcopato” petrino a Roma a partire dal regno di Claudio (ca. 42). Tuttavia, non esclude affatto un arrivo successivo. La persecuzione neroniana, tradizionalmente indicata come il contesto del martirio di Pietro e Paolo, scoppiò nel 64. Il silenzio di Paolo e degli Atti, quindi, restringe la possibile permanenza di Pietro a Roma agli ultimi anni della sua vita, un lasso di tempo perfettamente compatibile con la tradizione del suo martirio sotto Nerone. L’argomento del silenzio, lungi dall’essere una prova contraria, diventa così uno strumento per una maggiore precisione storica, suggerendo un soggiorno romano breve e terminale, culminato nel martirio.

L’enigmatica affermazione degli Atti secondo cui Pietro, dopo la sua fuga dalla prigione di Gerusalemme, si recò “in un altro luogo” (At 12,17) lascia aperta ogni possibilità, inclusa quella di un’attività missionaria itinerante che lo avrebbe infine condotto a Roma.

Una morte annunciata: la profezia nel Vangelo secondo Giovanni

Una delle più antiche e significative testimonianze letterarie sul destino di Pietro proviene dal Vangelo secondo Giovanni, la cui redazione finale è datata tra il 90 e il 100. Nel capitolo 21, il Cristo risorto si rivolge a Pietro con parole profetiche: “In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. L’evangelista stesso aggiunge un commento esplicativo: “Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio” (Gv 21,18-19).

L’importanza di questo passo è duplice. In primo luogo, fornisce una testimonianza precoce, indipendente e non romana del fatto del martirio di Pietro. Scritto con ogni probabilità in una comunità dell’Asia Minore, il testo dimostra che alla fine del I secolo la notizia della morte violenta di Pietro era già consolidata e diffusa nel mondo cristiano. In secondo luogo, la frase “tenderai le tue mani” (ἐκτενεῖςταˋςχεῖραˊςσου) era un’espressione idiomatica riconoscibile nel mondo antico per indicare la crocifissione. Il Vangelo di Giovanni, quindi, non solo attesta il martirio, ma ne suggerisce anche la modalità specifica. Questa profezia ex eventu stabilisce un punto fermo nella tradizione: già nel I secolo, si sapeva che Pietro era morto martire, e molto probabilmente crocifisso. Questo importante dettaglio convergerà in seguito con le fonti romane che specificheranno dove tale martirio ebbe luogo.

Saluti da “Babilonia”: la Prima lettera di Pietro e il suo contesto romano

Un altro indizio fondamentale si trova nella Prima Lettera di Pietro. Indipendentemente dalla complessa questione della sua paternità (se sia autografa, redatta con l’aiuto di un segretario come Silvano, o pseudepigrafa), la lettera si conclude con un saluto inequivocabile: “Vi saluta la comunità radunata in Babilonia, e anche Marco, mio figlio” (1 Pt 5,13).

Gli studiosi sono pressoché unanimi nel riconoscere che “Babilonia” è qui un criptonimo per Roma. La città di Babilonia sull’Eufrate nel I secolo era insignificante (anche se la sua regione ospitava effettivamente una nutrita comunità giudaica), mentre Roma, come nuova potenza imperiale che aveva distrutto il Tempio di Gerusalemme nel 70, era diventata nella letteratura apocalittica giudaica e cristiana la “nuova Babilonia”, simbolo di oppressione e idolatria. L’uso di questo nome in codice, probabilmente per ragioni di prudenza in un clima di persecuzione, ancora la lettera e la tradizione petrina a Roma.

La menzione di Marco è altrettanto significativa. Essa crea una rete di connessioni intertestuali con altre tradizioni antiche. Papia di Gerapoli (ca. 110) e più tardi Ireneo di Lione (ca. 180) affermano esplicitamente che Marco fu l’interprete di Pietro e che il suo Vangelo trascrisse la predicazione dell’apostolo a Roma. La co-presenza di Pietro e Marco a “Babilonia” in 1 Pietro rafforza potentemente questo legame, suggerendo un ambiente romano comune per tutte queste figure. Che la lettera sia stata scritta da Pietro stesso o, più probabilmente, da un discepolo a suo nome dopo la sua morte, essa attesta l’esistenza di una solida tradizione che collocava l’apostolo e il suo entourage nella capitale dell’impero.[1, 1]

Testimonianze cruciali dall’epoca sub-apostolica: Clemente Romano e Ignazio di Antiochia

Due documenti della fine del I e dell’inizio del II secolo trasformano questi indizi in certezze. Il primo è la Prima Lettera di Clemente Romano ai Corinzi, scritta da Roma intorno al 96. Clemente, per esortare alla concordia, cita gli esempi degli apostoli “più illustri” e “più giusti”, Pietro e Paolo. Di Pietro scrive che, a causa dell’invidia, “sopportò non una o due, ma molte pene e che dopo aver resa una tale testimonianza (μαρτυρήσας), giunse al meritato luogo della gloria”. Clemente prosegue legando la loro sorte a quella di una “grande moltitudine di eletti” (πολὺ πλῆθος ἐκλεκτῶν) che subì il martirio “tra di noi” (ἐν ἡμῖν).

Questa testimonianza è di capitale importanza. Scritta da Roma, a una sola generazione di distanza dagli eventi, essa fornisce la prima connessione letteraria esplicita e inequivocabile tra il martirio di Pietro e la città di Roma. L’espressione “grande moltitudine” riecheggia in modo impressionante la “ingens multitudo” di cui parla lo storico pagano Tacito nella sua descrizione della persecuzione dei cristiani da parte di Nerone nel 64 (Annali XV, 44). Clemente non sta semplicemente riportando un fatto, ma sta evocando un evento storico specifico e traumatico, la persecuzione neroniana, ben noto sia al suo uditorio romano che a quello di Corinto.

Poco più di un decennio dopo, intorno al 110, un’altra voce esterna conferma la tradizione. Ignazio, vescovo di Antiochia di Siria, mentre viene condotto a Roma per subire il martirio, scrive una lettera alla chiesa della capitale. In essa, dichiara umilmente: “Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato” (Lettera ai Romani 4,3). La forza di questa affermazione risiede nella sua natura casuale e presupposta. Ignazio, un testimone esterno di grande autorevolezza, dà per scontato che i cristiani romani riconoscano una speciale autorità fondante che Pietro e Paolo hanno esercitato specificamente nella loro comunità. Ciò dimostra che la tradizione non era una mera rivendicazione locale romana, ma un fatto riconosciuto nei maggiori centri della cristianità, consolidandone ulteriormente la credibilità storica.

Il consolidarsi della tradizione (fine del II secolo)

Se nel I secolo le prove sono un mosaico di indizi, verso la fine del II secolo la tradizione della presenza e del martirio di Pietro a Roma si consolida, diventando esplicita, universale e incontestata. Questo processo è strettamente legato alla crescente necessità delle chiese di affermare la propria “apostolicità” di fronte alle sfide interne ed esterne.

I “trofei degli apostoli”: la testimonianza di Gaio e il ponte verso l’archeologia

Un punto di svolta si ha intorno all’anno 200 con la testimonianza del presbitero romano Gaio, riportata dallo storico Eusebio di Cesarea. In una disputa con un eretico frigio di nome Proclo, che vantava le tombe degli apostoli nella sua regione, Gaio replica con sicurezza: “Io posso mostrarti i trofei (τρόπαια) degli apostoli. Se infatti vorrai recarti in Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che hanno fondato questa chiesa” (Eusebio, Storia ecclesiastica 2.25.7).

Questa dichiarazione segna un passaggio cruciale dalla memoria letteraria alla topografia fisica e verificabile. Un tropaion non è un semplice ricordo, ma un monumento di vittoria, che in un contesto martiriale indica una tomba o un santuario venerato. Gaio fornisce due luoghi precisi e distinti: il colle Vaticano per Pietro e la via Ostiense per Paolo. Ciò indica l’esistenza, all’inizio del III secolo, di una tradizione topografica specifica e ben consolidata a Roma, legata a monumenti fisici. La testimonianza di Gaio diventerà la chiave di volta letteraria per l’interpretazione delle scoperte archeologiche del XX secolo, fornendo un ponte diretto tra le fonti scritte e i resti materiali.

Un coro di voci: il consenso pan-mediterraneo

Nello stesso periodo, testimonianze provenienti da tutto l’Impero confermano che la tradizione romana era ormai un dato acquisito per l’intera cristianità.

  • Dionigi, vescovo di Corinto (ca. 170), in una lettera ai Romani citata da Eusebio, afferma che Pietro e Paolo “dopo avere insegnato insieme in Italia, resero la loro testimonianza [subirono il martirio] nello stesso periodo di tempo”.
  • Ireneo, vescovo di Lione in Gallia (ca. 180), nella sua opera Contro le eresie, parla della chiesa di Roma come della “più grande e più antica e a tutti nota chiesa, fondata e costituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo”.
  • Tertulliano, da Cartagine in Nord Africa (ca. 200), è ancora più specifico, scrivendo che a Roma “Pietro eguaglia la passione del Signore [cioè fu crocifisso], dove Paolo è incoronato della stessa morte di Giovanni” (De praescriptione haereticorum 36).

A queste voci si aggiungono quelle di autori del III secolo che rafforzano ulteriormente questo consenso. Origene di Alessandria (ca. 185-254), uno dei più grandi teologi dell’antichità, riporta nel suo Commento alla Genesi, citato da Eusebio, che Pietro, “dopo aver predicato agli ebrei della diaspora, alla fine venne a Roma e fu crocifisso a testa in giù, come egli stesso aveva chiesto di patire”. Questa testimonianza, proveniente da un centro intellettuale fondamentale come Alessandria, non solo conferma il martirio a Roma ma aggiunge il dettaglio della crocifissione capovolta. Allo stesso modo, Cipriano, vescovo di Cartagine (morto martire nel 258), nei suoi scritti sulla disciplina ecclesiastica, fa costantemente riferimento alla “cattedra di Pietro” come fondamento dell’unità della Chiesa, presupponendo come fatto indiscutibile il legame fondativo dell’apostolo con la sede romana.

La convergenza di queste voci da Grecia, Gallia, Nord Africa ed Egitto, che si aggiungono a quelle di Roma e della Siria, dimostra l’esistenza di un consenso pan-mediterraneo ormai consolidato tra la fine del II e l’inizio del III secolo. Questa diversità geografica rende estremamente improbabile l’ipotesi di una tarda invenzione romana a scopo propagandistico. È molto più plausibile che queste fonti, così distanti tra loro, stiano tutte attestando una tradizione comune, più antica e radicata in un evento storico reale. È anche in questo periodo che si consolida l’abbinamento retorico di Pietro e Paolo come “co-fondatori”, una costruzione teologica che risponde alla crescente necessità della chiesa di Roma di affermare la sua “doppia apostolicità” nelle dispute ecclesiastiche, in particolare contro le rivendicazioni delle chiese orientali.

Pietro “fondatore” della Chiesa di Roma? Analisi di un’affermazione storica

L’affermazione di Ireneo e Gaio che Pietro e Paolo “fondarono” la chiesa di Roma sembra contraddire le prove, già esaminate, di una comunità cristiana pre-petrina. La soluzione a questa apparente aporia risiede nella comprensione del significato di “fondazione” nel contesto ecclesiastico del II secolo. Come già accennato, la testimonianza dello storico pagano Svetonio sull’editto di Claudio del 49 fornisce una prova esterna e inconfutabile di una presenza cristiana a Roma già negli anni ’40. Questo dato storico rende impossibile che Pietro sia stato il fondatore nel senso del primo missionario che portò il Vangelo nella capitale.

Il termine “fondare” (in greco θεμελιόω, themelioō), usato da Ireneo e altri, deve quindi essere interpretato non in senso cronologico, ma in senso ecclesiologico e autoritativo. Per gli autori del tardo II secolo, Pietro e Paolo non “fondarono” le prime chiese domestiche, ma “fondarono” la sede apostolica di Roma, conferendole la loro autorità, la loro tradizione e la gloria del loro martirio. La loro opera fu quella di strutturare e dare un fondamento apostolico a una comunità già esistente. Questa distinzione è essenziale per una corretta analisi storica: essa risolve la contraddizione apparente e illumina l’evoluzione della tradizione, che passa dal semplice ricordo del martirio alla costruzione teologica della sede apostolica.

Sotto la basilica: le prove e le controversie dell’archeologia

Se le fonti letterarie costruiscono un caso solido basato su una memoria convergente, l’archeologia del XX secolo ha fornito una straordinaria corroborazione materiale, spostando il dibattito dal regno del testo a quello del suolo. Gli scavi condotti sotto la Basilica di San Pietro in Vaticano tra il 1939 e il 1949, e proseguiti negli anni successivi, hanno rivelato una sequenza stratigrafica che si allinea in modo impressionante con la tradizione letteraria.

La necropoli vaticana: un contesto storico verificabile

Le esplorazioni archeologiche hanno portato alla luce una vasta necropoli pagana e cristiana, in uso dal I al IV secolo, situata sul pendio del colle Vaticano. Questo cimitero si trovava immediatamente adiacente al Circo di Gaio e Nerone, l’impianto dove, secondo lo storico Tacito, ebbe luogo la brutale persecuzione dei cristiani del 64. Questa scoperta è di per sé di enorme importanza. La legge romana imponeva che le sepolture avvenissero al di fuori delle mura cittadine (extra pomerium), e il ritrovamento di un’area cimiteriale attiva nel I secolo proprio accanto al luogo del martirio fornisce il contesto archeologico perfetto per la sepoltura di una delle vittime di quella persecuzione. L’archeologia, quindi, conferma la plausibilità topografica della tradizione: il luogo conservato dalla memoria come sito della tomba di Pietro era effettivamente un cimitero funzionante al momento della sua morte.

L’edicola del II secolo e la decisione di Costantino: il “trofeo di Gaio”

Il cuore della scoperta archeologica è stata l’identificazione di una semplice tomba a fossa (designata come “Tomba P”), risalente al I secolo, situata in un’area modesta della necropoli. Sopra questa umile sepoltura, intorno al 160, fu eretto un piccolo monumento a edicola, addossato a un muro intonacato di rosso (il “Muro Rosso”). Questa struttura corrisponde perfettamente, per datazione e tipologia, al “trofeo” menzionato da Gaio intorno al 200. La monumentalizzazione di una tomba così povera, in netto contrasto con i ricchi mausolei circostanti, è la prova archeologica che quel punto era oggetto di una venerazione speciale da parte della comunità cristiana della metà del II secolo.

La prova più potente, tuttavia, è la decisione presa dall’imperatore Costantino nel IV secolo. Per costruire la sua grandiosa basilica in onore di Pietro, Costantino intraprese un’opera ingegneristica colossale e costosissima. Fece sbancare parte del colle Vaticano e interrare gran parte della necropoli, un atto che violava le leggi romane e la sacralità delle tombe, pur di centrare l’altare della sua basilica esattamente sopra quella piccola edicola del II secolo. Nessun imperatore avrebbe affrontato tali difficoltà tecniche e costi esorbitanti, né avrebbe commesso un tale sacrilegio, se non fosse stato mosso da una convinzione assoluta e incrollabile che quel preciso punto custodisse le spoglie del Principe degli Apostoli. L’archeologia dimostra così, senza ombra di dubbio, l’esistenza e la precisa localizzazione di questa credenza nel IV secolo, legandola direttamente al monumento del II secolo e, di conseguenza, alla tomba del I secolo.

I graffiti votivi e le reliquie contese: culto e controversia

Ulteriori scoperte hanno arricchito il quadro. Su un muro costruito successivamente a fianco dell’edicola (il “Muro g”), sono stati rinvenuti centinaia di graffiti cristiani, incisi da pellegrini tra il III e l’inizio del IV secolo. Molti di questi contengono invocazioni e acclamazioni a Cristo, a Maria e a Pietro, fornendo la prova diretta di un culto petrino attivo in quel luogo preciso, che colma il vuoto cronologico tra il monumento di Gaio del II secolo e la basilica di Costantino del IV. Sullo stesso Muro Rosso, l’epigrafista Margherita Guarducci identificò il famoso graffito ΠΕΤΡ… ΕΝΙ (PETR… ENI), da lei interpretato come Πέτρος ἔνι, “Pietro è qui [dentro]”.

La questione più dibattuta riguarda i resti ossei. All’interno di un loculo ricavato nel Muro g, rivestito di marmo e ritenuto una sistemazione di epoca costantiniana, furono trovate delle ossa umane. Analisi successive determinarono che appartenevano a un unico individuo di sesso maschile, di corporatura robusta, di età compresa tra i 60 e i 70 anni, e che le ossa, incrostate di terra, erano state avvolte in un prezioso tessuto di porpora intessuto d’oro. La datazione al radiocarbonio, eseguita decenni dopo su alcuni frammenti, ha indicato una compatibilità con il I secolo. Sebbene l’identificazione di queste ossa con quelle di Pietro non possa essere provata con certezza scientifica assoluta e rimanga oggetto di dibattito, la loro presenza in quel contesto è un ulteriore, straordinario tassello di un puzzle coerente. La posizione storica non si fonda sull’autenticità delle reliquie, ma sulla sequenza archeologica ininterrotta: una tomba del I secolo, venerata con un monumento nel II, oggetto di un culto con graffiti nel III, e infine suggellata da una basilica imperiale nel IV, tutto concentrato sullo stesso, umile punto della necropoli vaticana.

Sintesi storica e consenso storiografico

L’esame congiunto delle fonti letterarie e dei dati archeologici permette di formulare una conclusione storica solida. La persuasione degli storici non deriva da un singolo elemento decisivo, ma dalla forza cumulativa e dalla coerenza interna di un insieme di prove eterogenee.

La forza della convergenza e l’assenza di tradizioni alternative

Il caso della presenza e del martirio di Pietro a Roma si basa su un principio di convergenza. Abbiamo una tradizione letteraria che nasce nel I secolo con allusioni e profezie (Giovanni, 1 Pietro, Clemente), si consolida nel II secolo in un consenso pan-mediterraneo (Ignazio, Dionigi, Ireneo, Tertulliano) e diventa topograficamente precisa all’inizio del III (Gaio). Parallelamente, abbiamo una tradizione archeologica che testimonia la venerazione di una specifica tomba sul colle Vaticano a partire dalla metà del II secolo, un culto che si intensifica nel III e riceve la sua consacrazione definitiva nel IV con la costruzione della basilica costantiniana. Le due linee di prova, letteraria e materiale, si sostengono e si illuminano a vicenda.

A questa convergenza si aggiunge un potente argomento ex silentio: nessuna altra città del mondo antico ha mai rivendicato di possedere la tomba di Pietro. In un’epoca caratterizzata da un’intensa competizione tra le sedi episcopali per vantare origini apostoliche, il silenzio di rivali potenti come Antiochia (dove Pietro soggiornò a lungo) o Gerusalemme è estremamente significativo. Esso suggerisce che la tradizione romana era così antica, così forte e così universalmente accettata da non poter essere messa in discussione. La combinazione di una tradizione positiva convergente e l’assenza totale di una tradizione alternativa rende l’ipotesi della sua storicità di gran lunga la più economica e plausibile.

Distinguere storia e leggenda: il martirio e il mito del “Quo vadis?”

Una corretta analisi storica richiede di distinguere il nucleo storico dagli abbellimenti leggendari successivi. Un esempio classico è la famosa vicenda del “Quo vadis, Domine?”, secondo cui Pietro, in fuga da Roma, avrebbe incontrato Cristo sulla via Appia e, dopo il dialogo con lui, sarebbe tornato indietro per affrontare il martirio. Questo racconto non compare in nessuna fonte antica, ma ha origine negli Atti di Pietro, uno scritto apocrifo della fine del II secolo, ricco di elementi fantasiosi e non attendibile come fonte storica per i dettagli degli eventi.

Tuttavia, anche la leggenda, se letta criticamente, può fornire una conferma indiretta. Le leggende non nascono nel vuoto; esse fioriscono attorno a un nucleo di verità percepita o di tradizione consolidata. L’esistenza stessa di una narrazione come quella del “Quo vadis?” presuppone che, per l’uditorio della fine del II secolo, il quadro generale fosse già un dato di fatto: Pietro si trovava a Roma e lì subì il martirio durante la persecuzione neroniana. La leggenda serve a drammatizzare e a dare un significato teologico a questo nucleo storico, non a inventarlo. Pertanto, anche la letteratura apocrifa, pur essendo inaffidabile per i fatti, rafforza la storicità della tradizione di fondo.

Lo stato della questione: il consenso della critica moderna

Oggi, la stragrande maggioranza degli storici del cristianesimo antico — protestanti, cattolici e laici — accetta come un fatto di alta probabilità storica che Pietro abbia subito il martirio a Roma sotto Nerone. Questo consenso è il risultato di un lungo processo di depolarizzazione della questione. Per secoli, la negazione della presenza di Pietro a Roma è stata una bandiera della polemica anti-cattolica. Il punto di svolta si ebbe a metà del XX secolo, in particolare con l’opera dello studioso protestante Oscar Cullmann, Petrus. Jünger, Apostel, Märtyrer (1952).

Cullmann e altri dopo di lui hanno dimostrato in modo convincente che è possibile e necessario separare la questione storica (la presenza e morte di Pietro a Roma) da quella dogmatica (la successione e il primato papale). Questa distinzione ha permesso alla critica storica, libera da preclusioni confessionali, di valutare le prove per quello che sono. Il consenso moderno non è quindi un compromesso ecumenico, ma il risultato di un’analisi critica rigorosa e multidisciplinare che riconosce il peso schiacciante della convergenza delle fonti letterarie e archeologiche.

Conclusione: un fatto storico svincolato dal dogma

In conclusione, l’affermazione che l’apostolo Pietro soggiornò e morì martire a Roma si basa su un fondamento storico eccezionalmente solido, costruito non su una singola prova, ma su una fitta rete di testimonianze convergenti. Le prime tracce letterarie del I secolo, pur essendo indirette, delineano già un quadro coerente: una profezia della sua crocifissione, un saluto da “Babilonia” (Roma) e il ricordo del suo martirio “tra di noi” da parte della comunità romana. Nel II secolo, questa tradizione diventa un consenso universale, attestato da scrittori in tutto il Mediterraneo, e si ancora a una topografia precisa con i “trofei” sul colle Vaticano.

Questa catena ininterrotta di memoria letteraria trova una straordinaria conferma nella sequenza archeologica scoperta sotto la Basilica di San Pietro: una tomba del I secolo, monumentalizzata nel II, oggetto di un culto devozionale nel III e infine consacrata da una basilica imperiale nel IV. L’assenza totale di qualsiasi tradizione rivale in altre città apostoliche rafforza ulteriormente la storicità della rivendicazione romana.

È essenziale, tuttavia, ribadire che questa conclusione storica è indipendente dalla sua complessa e vasta eredità teologica. Affermare che Pietro morì a Roma non implica alcuna presa di posizione sulla natura del suo ministero, sulla sua durata o sulla dottrina della successione apostolica. Significa semplicemente riconoscere che, sulla base delle prove disponibili e secondo i canoni della moderna critica storica, la tradizione che lega indissolubilmente la fine della vita del pescatore di Galilea alla capitale dell’Impero Romano possiede un grado di probabilità storica così elevato da rasentare la certezza.

Bibliografia

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Posted by Adriano Virgili in Roma, Storia del cristianesimo, 0 comments