1 Corinzi

La donna, il silenzio e la legge: Paolo scrisse davvero 1 Corinzi 14,34-35?

La donna, il silenzio e la legge: Paolo scrisse davvero 1 Corinzi 14,34-35?

Introduzione

All’interno della Prima Lettera ai Corinzi, uno degli scritti più vibranti e pastoralmente complessi del Nuovo Testamento, si annida un passaggio che ha causato secoli di dibattito e, per molti, di profondo disagio. Si tratta dei versetti 34 e 35 del capitolo 14, dove l’apostolo Paolo sembra imporre un silenzio assoluto e inappellabile alle donne durante le assemblee cristiane: “Come si fa in tutte le chiese dei santi, le donne tacciano nelle assemblee, perché non è loro permesso di parlare; stiano sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualcosa, interroghino i loro mariti a casa; perché è vergognoso per una donna parlare in assemblea”.

Queste parole suonano come una sentenza definitiva. Tuttavia, esse creano una stridente dissonanza con quanto lo stesso Paolo aveva scritto solo tre capitoli prima. In 1 Corinzi 11,5, l’apostolo non solo permette, ma regola con precisione le modalità con cui le donne possono “pregare o profetizzare” durante il culto. Come può Paolo regolamentare un’attività in un capitolo per poi proibirla categoricamente in un altro? Questa palese contraddizione ha spinto un numero crescente di studiosi a sostenere una tesi radicale ma persuasiva: questi due versetti non furono scritti da Paolo. Sarebbero un’interpolazione, una glossa marginale aggiunta da un copista successivo.

Questo articolo intende esplorare la questione, analizzando gli argomenti a favore e contro l’autenticità del passo. Lo faremo attingendo agli strumenti dell’esegesi biblica, come quelli offerti nei commentari di studiosi come C.K. Barrett, Rinaldo Fabris, Friedrich Lang e Giancarlo Biguzzi, e cercando di valutare la coerenza teologica di questi versetti all’interno del quadro più ampio del pensiero paolino, con un’attenzione particolare alla visione di Paolo proposta da Gabriele Boccaccini.

Il caso a favore dell’interpolazione

La tesi che 1 Corinzi 14,34-35 sia un’aggiunta posteriore non si basa su un singolo indizio, ma su una convergenza di prove di diversa natura: testuali, contestuali e teologiche. Come vedremo, il peso di questi argomenti è considerato da molti, tra cui Giancarlo Biguzzi nel suo studio specialistico Velo e silenzio, quasi schiacciante.

Primo, la prova testuale. La critica testuale, la disciplina che studia le antiche copie manoscritte per ricostruire il testo originale, offre l’indizio più forte. Sebbene la maggior parte dei manoscritti greci contenga questi versetti nella posizione attuale, un’importante e antica famiglia di testi, nota come “tradizione occidentale”, presenta un’anomalia decisiva. In questi manoscritti, tra cui spicca il Codex Claromontanus (VI secolo), i versetti 34-35 sono assenti in questo punto ma vengono inseriti alla fine del capitolo, dopo il versetto 40. Come spiega la maggior parte dei commentari critici, ad esempio quello di Barrett (1979), questo fenomeno di un testo “vagante” è un classico segnale di una glossa marginale. È facile immaginare uno scriba che, in un’epoca successiva, scrive un commento o una norma a margine del testo. I copisti successivi, incerti se quella nota facesse parte del testo originale, l’hanno inserita nel corpo del testo per non perderla, ma non essendo sicuri della sua posizione esatta, l’hanno collocata in punti diversi. La presenza di questi versetti in due posizioni differenti è una prova quasi inequivocabile della loro natura secondaria.

Secondo, la prova contestuale. Anche senza considerare i manoscritti, una lettura attenta del capitolo 14 rivela come i versetti 34-35 interrompano bruscamente il flusso del ragionamento di Paolo. L’intero capitolo è dedicato alla gestione ordinata dei doni spirituali, in particolare la glossolalia e la profezia. Paolo sta dando istruzioni su come questi doni debbano essere esercitati per l’edificazione (oikodomé) di tutta la comunità. Come notano commentatori attenti alla struttura letteraria come Rinaldo Fabris (1999), l’argomento scorre in modo perfettamente logico leggendo direttamente dal versetto 33 al versetto 36. Il richiamo a “tutte le chiese dei santi” nel v. 33 funge da introduzione alla domanda retorica e sferzante del v. 36 (“Forse che la parola di Dio è partita da voi?”), con cui Paolo rimprovera l’arroganza dei Corinzi. I versetti 34-35, con il loro divieto specifico per le donne, appaiono come un cuneo inserito in questo discorso, deviando l’attenzione su un argomento completamente nuovo.

Terzo, la prova teologica. Questo è l’argomento più potente. La contraddizione con 1 Corinzi 11,5, dove Paolo presuppone attivamente che le donne preghino e profetizzino, è palese. È teologicamente incoerente che Paolo dedichi sedici versetti a regolamentare un ministero femminile per poi, tre capitoli dopo, proibirlo senza appello. Inoltre, come sottolinea Biguzzi (1994), il linguaggio stesso dei versetti suona estraneo a Paolo. L’appello vago alla “legge” (“come dice anche la legge”) è atipico. Quando Paolo cita la Torah, è solitamente specifico. Qui, non è chiaro a quale legge si riferisca, dato che non esiste alcun comando esplicito nell’Antico Testamento che imponga il silenzio alle donne nelle assemblee. Questo stile di appello generico è, invece, molto più caratteristico degli scritti deutero-paolini, come le Lettere Pastorali (1 Timoteo 2,11-12), che riflettono una fase successiva di istituzionalizzazione della Chiesa.

Le difese dell’autenticità e i tentativi di armonizzazione

Nonostante la forza di queste prove, è doveroso presentare le argomentazioni di chi, come Friedrich Lang (2005) o Heinz-Dietrich Wendland (1976) nei loro commentari, espone anche le ragioni per cui si potrebbe difendere l’autenticità del passo. La prima linea di difesa si basa sul fatto che la stragrande maggioranza dei manoscritti, inclusi i più antichi papiri, contiene i versetti nella loro posizione attuale. Per alcuni, l’evidenza esterna a favore dell’autenticità è più forte di quella contraria.

Per risolvere la contraddizione teologica, vengono proposte diverse strategie di armonizzazione. Una delle più comuni, discussa anche da Franco Manzi (2014), è quella di restringere il significato del verbo “parlare” (lalein). Secondo questa tesi, Paolo non starebbe proibendo ogni forma di espressione vocale, ma solo un tipo specifico di “parlato”, come chiacchiere o domande inopportune che disturbavano lo svolgimento del culto. In questo caso, il divieto non si applicherebbe alla preghiera o alla profezia. Un’altra ipotesi, più raffinata, suggerisce che il “parlare” proibito sia l’atto di “discernere” o “giudicare” le profezie (menzionato in 14,29), un compito che Paolo potrebbe aver riservato ai leader della comunità.

Sebbene ingegnose, queste armonizzazioni, come nota Biguzzi (1994), appaiono spesso forzate. Il verbo lalein è usato da Paolo in tutto il capitolo per indicare sia il parlare in lingue sia la profezia. È difficile sostenere che, solo in questi due versetti, assuma improvvisamente un significato così ristretto.

La coerenza teologica e la prospettiva di Gabriele Boccaccini

Per una valutazione più profonda, è utile chiederci: questo divieto si inserisce coerentemente nel quadro generale della teologia di Paolo? Qui, la prospettiva di Gabriele Boccaccini (2019) diventa particolarmente preziosa. Boccaccini, nel suo Le tre vie di salvezza di Paolo l’ebreo, insiste nel ricollocare Paolo all’interno del suo mondo, quello del giudaismo del Secondo Tempio. Il Paolo di Boccaccini non è il fondatore di una nuova religione in rottura con l’ebraismo, ma un apostolo ebreo con una missione specifica: portare i gentili all’interno del popolo di Dio attraverso la fede in Gesù Cristo, senza imporre loro l’osservanza completa della Torah.

Le comunità fondate da Paolo, in questa visione, sono laboratori escatologici, luoghi in cui la potenza dello Spirito Santo anticipa all’interno delle riunioni di culto la realtà del Regno di Dio, superando barriere sociali. L’effusione dello Spirito, come profetizzato da Gioele, è per tutti, “figli e figlie” (Atti 2,17-18). La libertà carismatica e la partecipazione attiva di tutti i membri al culto sono il segno distintivo di queste comunità. Se consideriamo questo quadro teologico, il divieto rigido e legalistico di 1 Corinzi 14,34-35 appare come un corpo estraneo. Sembra un passo indietro rispetto alla visione di una comunità in cui “non c’è più uomo né donna” (Gal 3,28) in termini di accesso allo Spirito e al ministero. La logica di Paolo nei capitoli 11-14 è quella dell’ordine per l’edificazione, non della soppressione per gerarchia. Un divieto assoluto basato sullo status e sul genere sembra contraddire questo principio fondamentale.

Inoltre, l’appello alla “legge”, visto attraverso la lente di Boccaccini, risulta altamente problematico. Il Paolo storico ha un rapporto complesso con la Torah. Un suo appello così generico e non argomentato alla “legge” per imporre una norma sociale suona molto problematico (quale legge?). Sembra proprio il tentativo di una generazione successiva di “addomesticare” la radicalità dello Spirito reintroducendo strutture gerarchiche più familiari al mondo greco-romano.

Conclusione

Alla luce delle prove testuali, contestuali e teologiche, la tesi dell’interpolazione di 1 Corinzi 14,34-35 risulta la più convincente e coerente. La contraddizione interna con il capitolo 11, l’instabilità della tradizione manoscritta, l’interruzione del flusso argomentativo e, non da ultimo, l’incoerenza con la visione paolina di una comunità carismatica e inclusiva, come quella delineata anche dal quadro di Boccaccini, rendono quasi certo che queste parole non appartengano alla penna dell’apostolo.

Molto probabilmente, si tratta di una glossa aggiunta in un’epoca successiva, forse tra la fine del I e l’inizio del II secolo. In questa fase, come molti storici del cristianesimo primitivo sostengono, la Chiesa stava attraversando un processo di istituzionalizzazione. La spinta carismatica delle origini veniva progressivamente incanalata in strutture più rigide e gerarchiche, e il ruolo pubblico e ministeriale delle donne, così evidente nelle lettere autentiche di Paolo, veniva progressivamente ridimensionato. Uno scriba, leggendo il capitolo 14 e la sua enfasi sull’ordine, potrebbe aver aggiunto a margine una nota che rifletteva la prassi della sua epoca, magari ispirandosi alle norme delle Lettere Pastorali, per “correggere” o “precisare” il pensiero di Paolo. Riconoscere questi versetti come un’interpolazione non significa manomettere la Scrittura, ma praticare un atto di fedeltà storica e teologica, che ci permette di ascoltare con maggiore chiarezza la voce autentica di Paolo.


Bibliografia

Barrett, C.K. (1979). La prima lettera ai Corinti. Bologna: EDB.

Biguzzi, G. (1994). Velo e silenzio: Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-36. Bologna: EDB.

Boccaccini, G. (2019). Le tre vie di salvezza di Paolo l’ebreo: L’apostolo dei gentili nel giudaismo del I secolo. Torino: Claudiana.

Fabris, R. (1999). Prima lettera ai Corinzi. Milano: Paoline.

Lang, F. (2005). Le lettere ai Corinti. Brescia: Paideia Editrice.

Manzi, F. (2014). Prima lettera ai Corinzi. Cinisello Balsamo (MI): San Paolo.

Wendland, H-D. (1976). Le lettere ai Corinti. Brescia: Paideia Editrice.

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Ordine, libertà e profezia: il significato del velo in 1 Corinzi 11

Ordine, libertà e profezia: il significato del velo in 1 Corinzi 11

In questo breve articolo, vorrei provare a rispondere ad alcune domande precise e complesse che mi sono state poste riguardo a uno dei passi più famosi e dibattuti della Prima Lettera di Paolo ai Corinzi: quello sul velo (o copricapo) delle donne, che si trova al capitolo 11, versetti 2-16. Si tratta di un testo che ha generato nei secoli interpretazioni molto diverse, influenzando profondamente il dibattito sul ruolo della donna nella Chiesa. Per affrontarlo, mi baserò su un’attenta rilettura del testo paolino alla luce di alcuni fondamentali contributi dell’esegesi biblica contemporanea, i cui riferimenti si trovano nella bibliografia alla fine di questo scritto. Il mio obiettivo è fare chiarezza su tre punti principali: la natura e il significato del velo imposto alle donne di Corinto, la questione se fosse una norma locale o una disposizione universale per tutte le comunità paoline, e infine il ruolo enigmatico degli angeli che Paolo menziona nel suo discorso.

Il contesto storico e culturale di Corinto

Per prima cosa, credo sia impossibile capire le parole di Paolo se non ci si sforza di immaginare la città a cui sta scrivendo. Corinto non era un luogo qualunque. Era una metropoli vivace, un crocevia di popoli e culture nel cuore del Mediterraneo romano. Essendo una colonia romana, vi convivevano la mentalità pragmatica e giuridica dei romani, l’eredità culturale dei greci e un’infinità di culti e usanze provenienti da tutto l’Impero. In un ambiente così variegato, l’abbigliamento non era una semplice questione di gusto personale, ma un potente linguaggio sociale. Il modo in cui una persona si vestiva comunicava immediatamente il suo status, la sua provenienza e la sua rispettabilità. Per una donna, questo era ancora più vero. Nel mondo greco-romano, il gesto di una donna sposata e onorata di coprirsi il capo in pubblico con un lembo della veste o con un velo era un segno visibile del suo onore e della sua appartenenza a una famiglia rispettabile. Non era tanto un’imposizione oppressiva, quanto un modo per affermare la propria dignità e il proprio ruolo sociale. Apparire a capo scoperto poteva essere interpretato come un segnale di trascuratezza, di bassa estrazione sociale o, nel peggiore dei casi, di immoralità, associando la donna a figure di prostitute o cortigiane. Anche nella tradizione giudaica, da cui provenivano Paolo e una parte della comunità, la chioma femminile era considerata un potente elemento di bellezza e seduzione, e per una donna sposata era un dovere di modestia coprirla per non turbare gli uomini e per custodire l’onore del proprio matrimonio.

È in questo scenario che dobbiamo collocare la comunità cristiana di Corinto. Immagino una comunità giovane, entusiasta, composta da persone di ogni tipo: giudei e gentili, persone ricche e istruite e persone umili e schiave. L’annuncio del Vangelo, con la sua incredibile promessa di libertà e di uguaglianza in Cristo, dove “non c’è più uomo né donna”, deve aver avuto un impatto fortissimo. È molto probabile che alcune donne della comunità, sentendosi liberate non solo dal peccato ma anche dalle rigide convenzioni sociali del loro tempo, avessero iniziato a partecipare attivamente alla vita comunitaria, pregando e profetizzando durante le assemblee, ma facendolo a capo scoperto. Dal loro punto di vista, questo era forse un modo per esprimere la loro nuova identità in Cristo. Tuttavia, questo comportamento, per quanto sincero, rischiava di creare enormi problemi. All’interno della comunità, poteva urtare la sensibilità di chi proveniva da una cultura più tradizionale, sia essa giudaica o greco-romana. All’esterno, poteva dare un’immagine completamente distorta della nuova fede, facendola apparire come un movimento che promuoveva il disordine morale e la sovversione delle buone usanze. Quando Paolo interviene, dunque, l’impressione è che la sua preoccupazione non sia l’abbigliamento in sé, ma qualcosa di molto più profondo: l’unità della comunità, il suo buon ordine e la sua capacità di essere una testimonianza credibile per il mondo esterno.

L’argomentazione teologica e retorica di Paolo

Credo sia un errore leggere questo passo come un semplice elenco di regole. A mio avviso, si tratta di una costruzione argomentativa molto sofisticata, in cui Paolo intreccia teologia, interpretazione della Scrittura, appelli al buon senso e alle consuetudini. Non si limita a dare un ordine, ma cerca di spiegare il perché della sua richiesta, fondandola su principi che ritiene essenziali. Il suo punto di partenza è una famosa affermazione di carattere teologico che stabilisce una sorta di “catena” di relazioni: “voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio”. La parola chiave, qui, è “capo”, in greco kephalē. Su questo termine si gioca gran parte dell’interpretazione del passo. La parola greca può avere due significati principali. Può indicare la “fonte”, l'”origine” di qualcosa, oppure può indicare l'”autorità”, il “leader”. Penso che Paolo, con grande abilità retorica, stia usando entrambi i significati. Da un lato, rifacendosi al secondo capitolo della Genesi, pensa all’uomo come “fonte” della donna; dall’altro, stabilisce un ordine funzionale in cui riconosce all’uomo un ruolo di guida. Questo ordine, però, non va inteso come una classifica di valore – come se la donna valesse meno dell’uomo, o l’uomo meno di Cristo – ma come una struttura di relazioni armoniche che, nella sua visione, rispecchia il disegno di Dio per la creazione e per la Chiesa.

Da questo principio generale, Paolo trae le conseguenze pratiche per la liturgia. Un uomo che prega a capo coperto, a suo avviso, “disonora” il suo capo, Cristo, perché è come se mettesse un velo sulla sua relazione diretta con lui. Una donna che prega a capo scoperto, invece, “disonora” il suo capo, l’uomo, perché con quel gesto è come se rifiutasse di riconoscere il proprio posto in questo ordine relazionale. Il gesto acquista un’enorme carica simbolica, e Paolo lo sottolinea con un paragone molto forte: una donna a capo scoperto è come se fosse rasata, un’immagine che nel mondo antico era associata a una punizione infamante, come quella per l’adulterio. La sua è un’argomentazione quasi provocatoria: se non vedete la differenza tra l’essere scoperta e l’essere rasata, e se siete d’accordo che essere rasata è una vergogna, allora per coerenza dovreste coprirvi. È fondamentale notare, però, che Paolo dà per scontato che le donne abbiano il diritto di “pregare e profetizzare” in assemblea. La sua non è una discussione sul se possano farlo, ma sul come debbano farlo per l’edificazione di tutti.

Per dare ancora più peso al suo discorso, Paolo si appella poi alla creazione. Afferma che l’uomo è “immagine e gloria di Dio”, mentre la donna è “gloria dell’uomo”. A prima vista, questa frase sembra quasi contraddire il primo capitolo della Genesi, dove si dice chiaramente che Dio creò l’essere umano, maschio e femmina, a sua immagine. Ma credo che Paolo stia facendo un’operazione precisa: sta temporaneamente mettendo da parte quel testo per concentrarsi sul secondo racconto della creazione, quello dove Eva è tratta da Adamo. In questa specifica logica argomentativa, la donna, essendo creata “dall’uomo” e “per l’uomo”, ne riflette la gloria. Tuttavia, e questo per me è un punto decisivo, Paolo non si ferma qui. Subito dopo aver stabilito questa gerarchia, la corregge e la riequilibra con due versetti di straordinaria importanza: “Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo senza la donna. Come infatti la donna proviene dall’uomo, così l’uomo nasce dalla donna; e tutto viene da Dio”. Quest’espressione, “nel Signore”, cambia tutto. Se l’ordine della creazione stabiliva una provenienza, la realtà della vita e della salvezza in Cristo stabilisce una reciprocità e un’interdipendenza totali. L’uno non può esistere senza l’altra, ed entrambi, in ultima analisi, vengono da Dio. Per me, questa è una mossa tipica di Paolo: usa un argomento gerarchico per risolvere un problema pratico, ma subito dopo lo reinserisce nella verità più profonda della comunione in Cristo, che è una verità di parità e di amore reciproco (che si manifesta proprio durante le assemblee liturgiche, che per Paolo sono già parte del regno veniente).

Una disposizione locale o universale?

A questo punto, possiamo affrontare una delle domande più spinose: le istruzioni di Paolo sul velo erano una norma valida per tutte le chiese e per tutti i tempi, o una soluzione pastorale pensata per la specifica e complicata comunità di Corinto? Devo ammettere che la questione è aperta, e ci sono buoni argomenti per entrambe le posizioni. A favore di una validità universale, c’è il fatto che Paolo non si limita a dare un consiglio pratico, ma costruisce un’argomentazione teologica complessa, basata su principi che lui ritiene universali, come l’ordine della creazione. Inoltre, la sua frase finale, “Se poi qualcuno vuole essere contenzioso, noi non abbiamo tale consuetudine, e neppure le chiese di Dio”, è stata spesso letta come un modo per chiudere la discussione appellandosi a una pratica comune a tutte le chiese. Secondo questa interpretazione, la “consuetudine” sarebbe quella di portare il velo.

Tuttavia, sono sempre più convinto che questo stesso versetto possa essere letto in un modo completamente diverso. La “consuetudine” che le chiese non hanno potrebbe non essere quella del velo, ma quella di “essere contenziosi”, cioè di litigare su tali questioni. Se così fosse, Paolo starebbe dicendo: “Se volete continuare a polemizzare, sappiate che non è il nostro stile, né quello delle altre chiese”. Questa lettura cambierebbe radicalmente la prospettiva. A favore di un’interpretazione più legata al contesto locale, ci sono molti altri indizi. L’intera lettera risponde a problemi specifici di Corinto. Gli argomenti basati sul senso dell’onore e della vergogna, o l’appello alla “natura” che insegnerebbe la giusta lunghezza dei capelli per uomini e donne, sono chiaramente legati alla cultura del I secolo e non possono essere trasportati di peso nel nostro mondo. La mia opinione è che Paolo stia facendo un’operazione pastorale molto precisa. Sta usando dei principi teologici che per lui sono universali (la relazione tra uomo e donna, l’ordine nella comunità) per risolvere un problema concreto e locale (il comportamento di alcune donne che rischiava di creare scandalo a Corinto). La norma specifica, cioè il copricapo, sarebbe quindi lo strumento, culturalmente determinato, per esprimere un principio teologico più profondo. L’obiettivo finale non è imporre un codice di abbigliamento, ma salvaguardare l’unità e la testimonianza della comunità.

Il mistero degli angeli e il potere della donna

Arriviamo infine al versetto più oscuro e, a mio parere, più affascinante di tutto il passo: “Per questo la donna deve avere exousia sulla testa, a motivo degli angeli”. La maggior parte delle traduzioni rende la parola greca exousia con espressioni come “un segno di autorità” o “un velo”, sottintendendo che si tratti di un segno dell’autorità dell’uomo su di lei. Tuttavia, studiando il termine greco, è possibile ritenere che questa sia una forzatura. In tutto il Nuovo Testamento, exousia significa sempre “potere”, “autorità”, “libertà di agire”, “diritto”. Non significa mai, passivamente, “segno di sottomissione”. Quindi, letteralmente, Paolo sta dicendo che la donna deve avere “autorità sulla sua testa”. Questa è un’affermazione rivoluzionaria, che capovolge la lettura tradizionale. Il copricapo non sarebbe il simbolo della sottomissione della donna all’uomo, ma il simbolo dell’autorità della donna stessa. Ma quale autorità? L’autorità, ricevuta da Cristo mediante lo Spirito, di pregare e profetizzare, di essere una voce autorevole nell’assemblea. In questa luce, il velo diventa il segno non del silenzio, ma della legittimità del suo ministero profetico, esercitato però in modo ordinato.

Ma cosa c’entrano gli angeli? Perché questa autorità va esercitata “a motivo degli angeli”? Nel corso della storia, sono state proposte le spiegazioni più varie. Un’antica interpretazione, basata su tradizioni giudaiche, suggeriva che le donne dovessero coprirsi per non tentare con la loro bellezza gli angeli presenti al culto. Oggi, però, questa ipotesi mi sembra piuttosto fantasiosa e poco coerente con il resto del discorso di Paolo. Un’altra possibilità è che gli “angeli” siano dei messaggeri umani, inviati da altre chiese, di fronte ai quali bisognava dare una buona immagine di sé. L’interpretazione che però trovo più convincente e profonda è un’altra. Nella visione del mondo di Paolo, l’assemblea cristiana che prega sulla terra è un riflesso del culto che si celebra perennemente in cielo, alla presenza degli angeli. Questi angeli non sono solo spettatori, ma sono i custodi dell’ordine e dell’armonia della creazione voluti da Dio. Quindi, quando una donna esercita la sua exousia, la sua potente autorità profetica, deve farlo in un modo che rispetti questo ordine cosmico. Il copricapo, simbolo della sua autorità, diventa il segno visibile che lei sta esercitando il suo dono in armonia con il disegno di Dio, sotto lo sguardo benevolo degli angeli che di quell’ordine sono i garanti. Non si copre perché è debole, ma perché è potente, e proprio per questo è chiamata a inserire il suo potere nell’armonia della comunità e della creazione.

Al termine di questa analisi, la mia convinzione è che questo passo, spesso usato per giustificare la sottomissione delle donne, ci riveli in realtà un quadro molto più dinamico e complesso. Paolo non sta scrivendo un trattato di teologia sistematica, ma sta lottando, come un pastore, per tenere insieme una comunità lacerata da alcune tensioni interne: l’ordine della creazione e la novità della salvezza, la differenza tra uomo e donna e la loro totale interdipendenza in Cristo, la libertà dei doni spirituali e la necessità di un ordine che edifichi tutti. Il copricapo, probabilmente una norma legata a quel preciso contesto, diventa per lui il simbolo di un equilibrio difficile ma necessario. Ci mostra una donna che non è messa a tacere, ma che prega e profetizza, esercitando una vera e propria autorità spirituale, e che è chiamata a farlo in un modo che costruisca, e non distrugga, la comunione. È un invito a vivere il potere e la libertà che Cristo ci dona non in modo individualistico, ma sempre al servizio dell’armonia e dell’amore reciproco.

Bibliografia

Barrett, C.K. (1979). La prima lettera ai Corinti. Bologna: EDB.

Biguzzi, G. (1994). Velo e silenzio: Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-36. Bologna: EDB.

Fabris, R. (1999). Prima lettera ai Corinzi. Milano: Paoline.

Lang, F. (2005). Le lettere ai Corinti. Brescia: Paideia Editrice.

Manzi, F. (2014). Prima lettera ai Corinzi. Cinisello Balsamo (MI): San Paolo.

Wendland, H-D. (1976). Le lettere ai Corinti. Brescia: Paideia Editrice.

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