Introduzione: la filosofia come anticamera della fede
In un panorama accademico in cui, specialmente nei dipartimenti di filosofia, l’ateismo, il naturalismo e il fisicalismo rappresentano le correnti di pensiero dominanti, la pubblicazione di un’opera come Faith and Reason: Philosophers Explain Their Turn to Catholicism costituisce un evento di notevole interesse intellettuale. Il testo in esame, curato da Brian Besong e Jonathan Fuqua, non è una semplice raccolta di testimonianze di fede, ma un’articolata esplorazione del percorso che ha condotto dieci filosofi professionisti, formati al rigore della logica e dell’argomentazione, ad abbracciare la fede cattolica. Il contesto, come sottolineato da Besong nella sua introduzione, rende queste conversioni tutt’altro che aneddotiche; esse emergono come il punto d’arrivo di un’intensa e spesso sofferta ricerca della verità in un ambiente intellettuale prevalentemente ostile alla religione.
Il volume si apre con una prefazione di Francis J. Beckwith che inquadra magistralmente la natura stessa della conversione. Lungi dall’essere un atto di volontà istantaneo o un “salto nel buio”, il cambiamento di convinzioni profonde è descritto come un processo lento e graduale, un susseguirsi di “piccoli e apparentemente insignificanti cambiamenti” che portano a un “aggiustamento intellettuale”. Questo cammino, pur essendo eminentemente razionale, è percepito dai protagonisti non come un monologo della ragione, ma come un dialogo in cui la ricerca umana della verità si intreccia con l’iniziativa di quella che chiamano una “speciale grazia divina”. La toccante storia personale di Beckwith, legata alla malattia del padre e alla scoperta di una medaglia di sant’Antonio che questi portava segretamente con sé, funge da paradigma di questa misteriosa interazione tra l’ordinario e lo straordinario, tra l’evento casuale e il segno provvidenziale.
Questo articolo si propone di analizzare come, per gli autori del volume, il rigoroso esercizio della ragione filosofica, lungi dal condurre allo scetticismo o alla negazione, sia diventato il principale veicolo del loro cammino verso la fede cattolica. Si esploreranno sia i percorsi “negativi”, caratterizzati dal crollo di visioni del mondo alternative come il materialismo e il protestantesimo, sia i percorsi “positivi”, segnati da una crescente attrazione per la coerenza, la bellezza e il potere esplicativo del cattolicesimo.
Il naufragio delle certezze secolari: dall’ateismo al teismo
Per molti degli autori, il viaggio verso il cattolicesimo non inizia con un’attrazione per la fede, ma con una profonda crisi intellettuale interna alle loro visioni del mondo secolari. Il teismo non viene adottato come un rifugio irrazionale, ma emerge come l’unica alternativa filosoficamente sostenibile dopo il collasso delle certezze materialiste e naturaliste.
La crisi del materialismo
Una tappa fondamentale per diversi autori è la disillusione nei confronti del materialismo e del fisicalismo, ovvero la tesi secondo cui la realtà è interamente riconducibile a materia e processi fisici. Edward Feser e Brian Cutter, partendo da presupposti atei, giungono alla medesima conclusione: la mente umana, con le sue proprietà irriducibili come la coscienza, l’intenzionalità e la capacità di pensiero astratto, rappresenta uno scoglio insormontabile per una visione puramente fisica della persona. Feser, influenzato da filosofi come John Searle e Gottlob Frege, riconosce l’incapacità del materialismo di spiegare il significato e la razionalità stessa, vedendo nei tentativi riduzionisti un mascherato eliminativismo, ossia la negazione dell’esistenza stessa della mente. Cutter, in un percorso analogo, abbandona quello che definisce “naturalismo a punto fisso” per un approccio più “mooreano”, che dà peso all’evidenza del senso comune. Questo cambiamento metodologico lo porta a scontrarsi con l’evidenza introspettiva che la coscienza è “chiaramente qualcosa di completamente diverso dai movimenti della materia”, un dato che il fisicalismo lo costringeva a negare disonestamente.
Il caso di J. Budziszewski è forse il più emblematico e drammatico. Egli non si limita a criticare il materialismo, ma tenta di seguirlo fino alle sue estreme conseguenze nichiliste, “mordendo il proiettile fisicalista”. Questo lo conduce a negare non solo Dio, ma anche il libero arbitrio, la responsabilità e persino l’esistenza di un “io” stabile. Il suo percorso illustra come questa posizione sia esistenzialmente e moralmente insostenibile, un vero e proprio “suicidio” intellettuale. Ciò che lo salva da questo abisso non è un argomento filosofico, ma la percezione insopprimibile e fattuale della sua “condizione oggettivamente malvagia”, un’intuizione della coscienza che funge da crepa nel muro del suo nichilismo, costringendolo a riammettere la realtà del bene e, di conseguenza, di un ordine morale oggettivo.
L’intelligibilità del mondo e il principio di ragione sufficiente
Un altro pilastro del naturalismo che vacilla sotto l’analisi di questi filosofi è l’idea che l’universo possa essere un “fatto bruto e inintelligibile”. Edward Feser, in particolare, descrive come la sua riconsiderazione dell’argomento cosmologico di Leibniz lo abbia portato a una rivalutazione del principio di ragione sufficiente, secondo cui tutto ciò che esiste ha una spiegazione. Per Feser, negare questo principio per evitare la conclusione teistica (l’esistenza di un ente necessario) equivale a negare la possibilità stessa della spiegazione, sia in filosofia che nella scienza. Il suo esperimento mentale, in cui contempla un angolo polveroso della sua stanza e poi l’intero universo come “materia bruta e insensata, priva di qualsiasi spiegazione”, gli rivela il “brivido” esistenziale e l’insanità di una visione del mondo priva di significato, scopo e intelligibilità. L’ateismo coerente, conclude, porta a una visione del mondo che è semplicemente “folle”.
Il percorso di questi pensatori mostra un modello ricorrente e significativo. La loro apertura al teismo non nasce da un desiderio emotivo o da un “salto di fede”, ma dal fallimento razionale delle alternative. Il materialismo si rivela incapace di spiegare la mente; il nichilismo non riesce a rendere conto della morale; il naturalismo non giustifica l’intelligibilità del cosmo. È questo naufragio intellettuale a creare un vuoto che solo il teismo sembra in grado di colmare razionalmente. Questa via negativa non è un’abdicazione della ragione, ma una sua applicazione rigorosa che, eliminando le ipotesi insostenibili, lascia il teismo come la conclusione più plausibile.
Al di là della riforma: la ricerca dell’autorità e dell’unità
Per i filosofi provenienti da un background protestante, la conversione al cattolicesimo è spesso preceduta da una crisi epistemologica e strutturale interna al protestantesimo stesso. Il disaccordo non verte tanto su singole dottrine, quanto sui principi fondanti che dovrebbero garantire la verità e l’unità, ma che, alla prova dei fatti, si rivelano fonti di instabilità e frammentazione.
La crisi del principio sola Scriptura
Il pilastro della riforma, il principio della sola Scriptura, viene sottoposto a una critica devastante da parte di diversi autori. La questione si articola su due problemi fondamentali: il canone e l’interpretazione. Logan Paul Gage articola con lucidità il problema del canone: come può la Bibbia essere l’unica e infallibile autorità se non può definire se stessa? Se la Bibbia non contiene un indice divinamente ispirato dei propri libri, allora la determinazione del canone deve poggiare su un’autorità esterna alla Bibbia stessa. La sua ricerca storica lo porta a concludere che solo un’autorità vivente e apostolica, cioè la Chiesa, poteva stabilire con certezza quali libri fossero da considerarsi parola di Dio.
Il problema dell’interpretazione è vissuto in modo drammatico da Neal Judisch. Osservando la controversia sulla “federal vision” all’interno della sua comunione presbiteriana, si rende conto di un paradosso paralizzante: pur condividendo l’adesione alla sola Scriptura e alle medesime confessioni di fede, i membri della sua Chiesa non riuscivano a raggiungere un accordo su questioni dottrinali fondamentali, precipitando in “scismi e divisioni” e scambiandosi accuse di eresia. Questa esperienza diretta del fallimento pratico del principio lo spinge a metterne in discussione la validità teorica. Se la sola Scriptura non può preservare l’unità, forse il principio stesso è sbagliato.
Bryan Cross affronta una crisi simile, ma in un contesto diverso: un dialogo con dei missionari mormoni. Quando cerca di confutare le loro dottrine appellandosi alla Bibbia, si scontra con la loro contro-narrazione, che include una nuova rivelazione (il Libro di Mormon) e la tesi di una “grande apostasia” della Chiesa primitiva. Cross si rende conto di non possedere un principio non circolare per difendere la sua interpretazione contro la loro. Entrambi rifiutavano l’autorità dei padri della Chiesa come normativa, lasciando il dibattito in una situazione di stallo insolubile, basato unicamente su interpretazioni private in conflitto.
La riconsiderazione della giustificazione (sola fide)
Un altro caposaldo della riforma, la giustificazione per sola fede (sola fide), viene messo in discussione attraverso un’analisi storica e teologica rigorosa. Il saggio di Robert C. Koons, scritto mentre era ancora un luterano convinto, è emblematico di questo processo. Koons giunge alla conclusione che la dottrina luterana della giustificazione, così come formulata nel XVI secolo, non è una riscoperta dell’insegnamento degli apostoli o dei padri della Chiesa, ma un'”innovazione senza precedenti”. Critica aspramente il metodo dei riformatori, come Filippo Melantone, di selezionare citazioni patristiche decontestualizzate (cherry-picking) per sostenere le proprie tesi, dimostrando come, ad esempio, l’opera di Agostino De spiritu et littera rifiuti esplicitamente la dottrina che Melantone pretende di trovarvi. Koons arriva a identificare quella che definisce una “contraddizione fatale” nella posizione luterana, che afferma simultaneamente la possibilità di perdere la fede, la necessità di usare i mezzi di grazia per perseverare, e l’assoluta irrilevanza delle opere per la salvezza finale.
La fame di una Chiesa visibile e sacramentale
Il fallimento strutturale del protestantesimo nel garantire l’unità visibile promessa da Cristo genera in molti autori un profondo desiderio per una Chiesa che sia un corpo organico e non una mera associazione spirituale. J. Budziszewski, deluso dall’episcopalianesimo, descrive la frammentazione protestante con un’immagine potente: “un braccio insanguinato qui, una gamba recisa là”, un insieme di parti che non potranno mai costituire il corpo di Cristo. Similmente, Brian Cutter è attratto dall’idea che “Gesù intendeva evidentemente che dovesse esistere una Chiesa visibile con un’unità visibile”. Questa fame di unità non è un desiderio di conformismo, ma la presa di coscienza che la natura stessa della Chiesa, come voluta dal suo fondatore, è incompatibile con la divisione perpetua.
Questi percorsi rivelano che la spinta verso il cattolicesimo non è motivata primariamente da un disaccordo su dottrine isolate, ma da una crisi fondamentale del sistema protestante. Il principio della sola Scriptura si dimostra incapace di fungere da arbitro efficace, generando divisione anziché unità. Questa constatazione pratica porta a una riconsiderazione teorica del principio stesso, e la necessità di un Magistero emerge non come un desiderio di sottomissione autoritaria, ma come la conclusione razionale che, senza un’autorità interpretativa divinamente istituita, la verità del Vangelo è lasciata in balia del giudizio privato e della frammentazione.
L’abbraccio del paradigma cattolico
Se la prima fase del viaggio è spesso caratterizzata dal crollo delle visioni del mondo precedenti, la seconda è segnata da una positiva attrazione per la coerenza, la profondità storica e il potere esplicativo della fede cattolica. Gli autori non si limitano a cambiare opinione su singole dottrine; piuttosto, adottano un nuovo modo di pensare, un nuovo “paradigma” che illumina e dà senso a tutto il resto.
La scoperta della continuità storica
Una delle scoperte più sconvolgenti per molti ex-protestanti è rendersi conto che la Chiesa cattolica non è una corruzione medievale del cristianesimo primitivo, ma la sua continuazione organica. Peter Kreeft vive questa epifania durante un corso di storia della Chiesa, quando si accorge che i padri della Chiesa suonano inequivocabilmente cattolici, non protestanti. Questa presa di coscienza lo porta ad abbracciare la celebre massima di John Henry Newman: “essere profondi nella storia significa cessare di essere protestanti”. Neal Judisch fa una scoperta simile quando si rende conto che le intuizioni teologiche che ammirava come “nuove e meravigliose” nel teologo anglicano N. T. Wright erano, in realtà, una riscoperta di temi e metodi interpretativi già pienamente presenti nella tradizione patristica e medievale. La storia, invece di essere un arsenale di argomenti contro Roma, diventa la prova più eloquente della sua apostolicità.
La coerenza del paradigma cattolico
Il saggio di Bryan Cross offre una chiave di lettura metodologica fondamentale per comprendere l’approdo al cattolicesimo. Influenzato dal filosofo Alasdair MacIntyre, Cross smette di confrontare protestantesimo e cattolicesimo punto per punto — un metodo che riconosce come intrinsecamente circolare, poiché ogni parte valuta l’altra secondo i propri presupposti — e inizia a valutarli come “paradigmi” complessivi, ovvero come due sistemi di pensiero coerenti al loro interno.
L’adozione di questo quadro macintyreano gli permette di porsi una nuova domanda: quale dei due paradigmi ha un potere esplicativo superiore? Quale dei due è in grado non solo di rendere conto dei dati della Scrittura e della storia, ma anche di spiegare l’esistenza e la plausibilità del paradigma rivale? Cross conclude che il paradigma cattolico è superiore. Esso non solo rende intelligibili dottrine altrimenti problematiche (come la rigenerazione battesimale o il ruolo dei santi), ma spiega anche perché il protestantesimo sia sorto, quali fossero le sue tensioni interne e perché la sua struttura porti inevitabilmente alla frammentazione. Il paradigma cattolico, con la sua dottrina della successione apostolica e del Magistero, è in grado di dare un senso coerente alla storia della Chiesa, inclusi gli scismi e le eresie, in un modo che il paradigma protestante, con la sua teoria di una “grande apostasia” seguita da una “restaurazione”, non può fare senza cadere in una forma di “deismo ecclesiale”.
L’attrazione della visione integrale
Un altro elemento di forte attrazione è la natura “inclusiva” del pensiero cattolico, il suo “sia… sia” che si contrappone a un “o… o” che spesso caratterizza altre teologie. La fede cattolica non oppone fede e opere, Scrittura e Tradizione, grazia e natura, ma le integra in una sintesi armoniosa. W. Scott e Lindsay K. Cleveland, nel loro percorso comune, scoprono questa visione integrale negli scritti di Tommaso d’Aquino. Trovano nel suo pensiero una capacità di distinguere senza opporre la legge naturale e la legge rivelata, l’ordine della creazione e quello della redenzione. Questo offre loro un quadro teologico ed etico molto più ricco e coerente rispetto agli approcci degli eticisti protestanti che avevano studiato, i quali tendevano a ridurre la complessità della realtà a un singolo principio, trascurando altre dimensioni essenziali.
La conversione di questi filosofi, quindi, non è semplicemente un cambiamento di credenze, ma un vero e proprio cambiamento metodologico. È un aggiornamento del loro “software” intellettuale. Cutter passa da un naturalismo dogmatico a un approccio “mooreano” che dà valore all’esperienza comune. Cross adotta il quadro dei paradigmi di MacIntyre per superare i dibattiti circolari. Koons applica un’analisi storica e logica spietata per smontare le caricature della dottrina della giustificazione. Per ciascuno di loro, abbracciare il cattolicesimo non è un abbandono della filosofia, ma l’esito della sua applicazione più rigorosa e sofisticata, un atto che apre la ragione a una realtà più vasta e complessa.
La dimensione umana della conversione
Sebbene il percorso di questi filosofi sia profondamente intellettuale, i loro racconti rivelano che la conversione non è un esercizio puramente astratto. La ragione, per loro, non opera in un vuoto, ma è incarnata in una vita fatta di esperienze, relazioni, sofferenze e percezioni estetiche. È l’intreccio di questi elementi a rendere le loro storie pienamente umane e universalmente toccanti.
La bellezza come argomento
In diversi racconti, la bellezza si rivela un potente veicolo di verità, una “via pulchritudinis” che parla al cuore prima ancora che alla mente. Peter Kreeft ricorda come la maestosità della cattedrale di san patrizio a New York e l’ascolto della musica di Palestrina abbiano “trafitto il suo cuore”, ponendogli una domanda a cui la sua teologia protestante non sapeva rispondere: “perché le loro chiese sono così belle?”. Per lui, la musica di Palestrina non era semplicemente bella, ma suonava come “la musica del cielo”, un’esperienza quasi mistica che lo ha reso ricettivo a una realtà più grande. Allo stesso modo, J. Budziszewski, pur ancora prigioniero del suo nichilismo, confessa di aver rischiato di piangere leggendo Dante e Tommaso d’Aquino per la “pura bellezza dell’apparenza della verità”. Queste esperienze non sostituiscono l’argomentazione razionale, ma la preparano, aprendo l’anima alla possibilità che ciò che è così profondamente bello possa essere anche vero.
La sofferenza e la grazia
La sofferenza emerge come un altro crocevia esistenziale in cui la verità di Cristo si manifesta in modo inaspettato. La testimonianza di Candace Vogler è un esempio straordinario di come un’esperienza traumatica come l’abuso paterno possa diventare il contesto in cui si scopre Cristo come “modello di vera mascolinità” e si viene persuasi della verità dell’eucaristia. La sua storia mostra come la grazia possa operare nelle ferite più profonde, trasformando il dolore in un luogo di incontro con il divino. Anche la narrazione di Francis Beckwith sulla morte del padre, con la scoperta della preghiera a Sant’Antonio, illustra come un evento doloroso, che un osservatore esterno potrebbe liquidare come una coincidenza, possa essere vissuto dall’interno come un “dono di Dio”, un segno tangibile della provvidenza che guida e accompagna la vita umana.
Le relazioni umane
Infine, quasi tutti i racconti sottolineano il ruolo fondamentale delle relazioni umane nel percorso di conversione. La ragione non è un’isola; essa fiorisce nel dialogo, nell’amicizia e nell’amore. Il viaggio dei coniugi Cleveland è emblematico: pur partendo da punti diversi e con tempi differenti, si sostengono a vicenda nella loro ricerca della verità, dimostrando come il matrimonio possa essere un luogo privilegiato di discernimento spirituale. Peter Kreeft riconosce l’influenza decisiva di un professore eccezionale che lo ha fatto innamorare della filosofia. Logan Paul Gage viene sfidato a riconsiderare le sue certezze da un collega cattolico. Queste storie dimostrano che la ricerca della verità è un’impresa comunitaria, in cui l’incontro con l’altro diventa spesso un incontro con l’Altro.
Un tema ricorrente in questi percorsi è il superamento di un paradosso fondamentale: la paura iniziale dell’autorità cattolica e la scoperta finale che in essa risiede la vera libertà. Kreeft esprime la paura comune di essere “comandato da un vecchio celibe italiano”. Tuttavia, questi pensatori giungono alla conclusione che senza un’autorità affidabile, la ragione è condannata a girare a vuoto. Brian Cutter si rende conto che, senza il Magistero, sarebbe costretto a “inventarsi la sua teologia da zero”, prigioniero del proprio soggettivismo. L’autorità della Chiesa, quindi, non viene più percepita come una prigione per la mente, ma come il guardrail che impedisce alla ragione di precipitare nell’arbitrarietà e nel relativismo, liberandola così per esplorare in sicurezza le profondità del mistero.
Conclusione: un’apologia della ragione aperta al mistero
In definitiva, il volume Faith and Reason: Philosophers Explain Their Turn to Catholicism si rivela molto più di un manuale di apologetica. È una raccolta di “cronache” intellettuali e spirituali di straordinaria onestà, profondità e rigore. Il suo grande merito è quello di mostrare, attraverso storie concrete e argomentazioni sofisticate, la profonda compatibilità tra l’esercizio appassionato della filosofia e l’abbraccio umile della fede cattolica.
Queste testimonianze demoliscono il cliché di una fede cieca e di una ragione ostile alla stessa. Al contrario, esse dimostrano che la ragione, quando non si chiude dogmaticamente al trascendente e non si accontenta di risposte superficiali, può diventare essa stessa un sentiero che conduce al mistero. Per i dieci filosofi protagonisti di questo volume, la loro vocazione a “inseguire la verità, costi quel che costi” non li ha portati a un vicolo cieco scettico, ma, attraverso sentieri labirintici e spesso inaspettati, li ha condotti alla soglia di quella che hanno riconosciuto come la casa del padre, un luogo dove fede e ragione, finalmente, si incontrano e si riconoscono.
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