Fede e ragione. Cronache di un ritorno a casa intellettuale

Fede e ragione. Cronache di un ritorno a casa intellettuale

Introduzione: la filosofia come anticamera della fede

In un panorama accademico in cui, specialmente nei dipartimenti di filosofia, l’ateismo, il naturalismo e il fisicalismo rappresentano le correnti di pensiero dominanti, la pubblicazione di un’opera come Faith and Reason: Philosophers Explain Their Turn to Catholicism costituisce un evento di notevole interesse intellettuale. Il testo in esame, curato da Brian Besong e Jonathan Fuqua, non è una semplice raccolta di testimonianze di fede, ma un’articolata esplorazione del percorso che ha condotto dieci filosofi professionisti, formati al rigore della logica e dell’argomentazione, ad abbracciare la fede cattolica. Il contesto, come sottolineato da Besong nella sua introduzione, rende queste conversioni tutt’altro che aneddotiche; esse emergono come il punto d’arrivo di un’intensa e spesso sofferta ricerca della verità in un ambiente intellettuale prevalentemente ostile alla religione.

Il volume si apre con una prefazione di Francis J. Beckwith che inquadra magistralmente la natura stessa della conversione. Lungi dall’essere un atto di volontà istantaneo o un “salto nel buio”, il cambiamento di convinzioni profonde è descritto come un processo lento e graduale, un susseguirsi di “piccoli e apparentemente insignificanti cambiamenti” che portano a un “aggiustamento intellettuale”. Questo cammino, pur essendo eminentemente razionale, è percepito dai protagonisti non come un monologo della ragione, ma come un dialogo in cui la ricerca umana della verità si intreccia con l’iniziativa di quella che chiamano una “speciale grazia divina”. La toccante storia personale di Beckwith, legata alla malattia del padre e alla scoperta di una medaglia di sant’Antonio che questi portava segretamente con sé, funge da paradigma di questa misteriosa interazione tra l’ordinario e lo straordinario, tra l’evento casuale e il segno provvidenziale.

Questo articolo si propone di analizzare come, per gli autori del volume, il rigoroso esercizio della ragione filosofica, lungi dal condurre allo scetticismo o alla negazione, sia diventato il principale veicolo del loro cammino verso la fede cattolica. Si esploreranno sia i percorsi “negativi”, caratterizzati dal crollo di visioni del mondo alternative come il materialismo e il protestantesimo, sia i percorsi “positivi”, segnati da una crescente attrazione per la coerenza, la bellezza e il potere esplicativo del cattolicesimo.

Il naufragio delle certezze secolari: dall’ateismo al teismo

Per molti degli autori, il viaggio verso il cattolicesimo non inizia con un’attrazione per la fede, ma con una profonda crisi intellettuale interna alle loro visioni del mondo secolari. Il teismo non viene adottato come un rifugio irrazionale, ma emerge come l’unica alternativa filosoficamente sostenibile dopo il collasso delle certezze materialiste e naturaliste.

La crisi del materialismo

Una tappa fondamentale per diversi autori è la disillusione nei confronti del materialismo e del fisicalismo, ovvero la tesi secondo cui la realtà è interamente riconducibile a materia e processi fisici. Edward Feser e Brian Cutter, partendo da presupposti atei, giungono alla medesima conclusione: la mente umana, con le sue proprietà irriducibili come la coscienza, l’intenzionalità e la capacità di pensiero astratto, rappresenta uno scoglio insormontabile per una visione puramente fisica della persona. Feser, influenzato da filosofi come John Searle e Gottlob Frege, riconosce l’incapacità del materialismo di spiegare il significato e la razionalità stessa, vedendo nei tentativi riduzionisti un mascherato eliminativismo, ossia la negazione dell’esistenza stessa della mente. Cutter, in un percorso analogo, abbandona quello che definisce “naturalismo a punto fisso” per un approccio più “mooreano”, che dà peso all’evidenza del senso comune. Questo cambiamento metodologico lo porta a scontrarsi con l’evidenza introspettiva che la coscienza è “chiaramente qualcosa di completamente diverso dai movimenti della materia”, un dato che il fisicalismo lo costringeva a negare disonestamente.

Il caso di J. Budziszewski è forse il più emblematico e drammatico. Egli non si limita a criticare il materialismo, ma tenta di seguirlo fino alle sue estreme conseguenze nichiliste, “mordendo il proiettile fisicalista”. Questo lo conduce a negare non solo Dio, ma anche il libero arbitrio, la responsabilità e persino l’esistenza di un “io” stabile. Il suo percorso illustra come questa posizione sia esistenzialmente e moralmente insostenibile, un vero e proprio “suicidio” intellettuale. Ciò che lo salva da questo abisso non è un argomento filosofico, ma la percezione insopprimibile e fattuale della sua “condizione oggettivamente malvagia”, un’intuizione della coscienza che funge da crepa nel muro del suo nichilismo, costringendolo a riammettere la realtà del bene e, di conseguenza, di un ordine morale oggettivo.

L’intelligibilità del mondo e il principio di ragione sufficiente

Un altro pilastro del naturalismo che vacilla sotto l’analisi di questi filosofi è l’idea che l’universo possa essere un “fatto bruto e inintelligibile”. Edward Feser, in particolare, descrive come la sua riconsiderazione dell’argomento cosmologico di Leibniz lo abbia portato a una rivalutazione del principio di ragione sufficiente, secondo cui tutto ciò che esiste ha una spiegazione. Per Feser, negare questo principio per evitare la conclusione teistica (l’esistenza di un ente necessario) equivale a negare la possibilità stessa della spiegazione, sia in filosofia che nella scienza. Il suo esperimento mentale, in cui contempla un angolo polveroso della sua stanza e poi l’intero universo come “materia bruta e insensata, priva di qualsiasi spiegazione”, gli rivela il “brivido” esistenziale e l’insanità di una visione del mondo priva di significato, scopo e intelligibilità. L’ateismo coerente, conclude, porta a una visione del mondo che è semplicemente “folle”.

Il percorso di questi pensatori mostra un modello ricorrente e significativo. La loro apertura al teismo non nasce da un desiderio emotivo o da un “salto di fede”, ma dal fallimento razionale delle alternative. Il materialismo si rivela incapace di spiegare la mente; il nichilismo non riesce a rendere conto della morale; il naturalismo non giustifica l’intelligibilità del cosmo. È questo naufragio intellettuale a creare un vuoto che solo il teismo sembra in grado di colmare razionalmente. Questa via negativa non è un’abdicazione della ragione, ma una sua applicazione rigorosa che, eliminando le ipotesi insostenibili, lascia il teismo come la conclusione più plausibile.

Al di là della riforma: la ricerca dell’autorità e dell’unità

Per i filosofi provenienti da un background protestante, la conversione al cattolicesimo è spesso preceduta da una crisi epistemologica e strutturale interna al protestantesimo stesso. Il disaccordo non verte tanto su singole dottrine, quanto sui principi fondanti che dovrebbero garantire la verità e l’unità, ma che, alla prova dei fatti, si rivelano fonti di instabilità e frammentazione.

La crisi del principio sola Scriptura

Il pilastro della riforma, il principio della sola Scriptura, viene sottoposto a una critica devastante da parte di diversi autori. La questione si articola su due problemi fondamentali: il canone e l’interpretazione. Logan Paul Gage articola con lucidità il problema del canone: come può la Bibbia essere l’unica e infallibile autorità se non può definire se stessa? Se la Bibbia non contiene un indice divinamente ispirato dei propri libri, allora la determinazione del canone deve poggiare su un’autorità esterna alla Bibbia stessa. La sua ricerca storica lo porta a concludere che solo un’autorità vivente e apostolica, cioè la Chiesa, poteva stabilire con certezza quali libri fossero da considerarsi parola di Dio.

Il problema dell’interpretazione è vissuto in modo drammatico da Neal Judisch. Osservando la controversia sulla “federal vision” all’interno della sua comunione presbiteriana, si rende conto di un paradosso paralizzante: pur condividendo l’adesione alla sola Scriptura e alle medesime confessioni di fede, i membri della sua Chiesa non riuscivano a raggiungere un accordo su questioni dottrinali fondamentali, precipitando in “scismi e divisioni” e scambiandosi accuse di eresia. Questa esperienza diretta del fallimento pratico del principio lo spinge a metterne in discussione la validità teorica. Se la sola Scriptura non può preservare l’unità, forse il principio stesso è sbagliato.

Bryan Cross affronta una crisi simile, ma in un contesto diverso: un dialogo con dei missionari mormoni. Quando cerca di confutare le loro dottrine appellandosi alla Bibbia, si scontra con la loro contro-narrazione, che include una nuova rivelazione (il Libro di Mormon) e la tesi di una “grande apostasia” della Chiesa primitiva. Cross si rende conto di non possedere un principio non circolare per difendere la sua interpretazione contro la loro. Entrambi rifiutavano l’autorità dei padri della Chiesa come normativa, lasciando il dibattito in una situazione di stallo insolubile, basato unicamente su interpretazioni private in conflitto.

La riconsiderazione della giustificazione (sola fide)

Un altro caposaldo della riforma, la giustificazione per sola fede (sola fide), viene messo in discussione attraverso un’analisi storica e teologica rigorosa. Il saggio di Robert C. Koons, scritto mentre era ancora un luterano convinto, è emblematico di questo processo. Koons giunge alla conclusione che la dottrina luterana della giustificazione, così come formulata nel XVI secolo, non è una riscoperta dell’insegnamento degli apostoli o dei padri della Chiesa, ma un'”innovazione senza precedenti”. Critica aspramente il metodo dei riformatori, come Filippo Melantone, di selezionare citazioni patristiche decontestualizzate (cherry-picking) per sostenere le proprie tesi, dimostrando come, ad esempio, l’opera di Agostino De spiritu et littera rifiuti esplicitamente la dottrina che Melantone pretende di trovarvi. Koons arriva a identificare quella che definisce una “contraddizione fatale” nella posizione luterana, che afferma simultaneamente la possibilità di perdere la fede, la necessità di usare i mezzi di grazia per perseverare, e l’assoluta irrilevanza delle opere per la salvezza finale.

La fame di una Chiesa visibile e sacramentale

Il fallimento strutturale del protestantesimo nel garantire l’unità visibile promessa da Cristo genera in molti autori un profondo desiderio per una Chiesa che sia un corpo organico e non una mera associazione spirituale. J. Budziszewski, deluso dall’episcopalianesimo, descrive la frammentazione protestante con un’immagine potente: “un braccio insanguinato qui, una gamba recisa là”, un insieme di parti che non potranno mai costituire il corpo di Cristo. Similmente, Brian Cutter è attratto dall’idea che “Gesù intendeva evidentemente che dovesse esistere una Chiesa visibile con un’unità visibile”. Questa fame di unità non è un desiderio di conformismo, ma la presa di coscienza che la natura stessa della Chiesa, come voluta dal suo fondatore, è incompatibile con la divisione perpetua.

Questi percorsi rivelano che la spinta verso il cattolicesimo non è motivata primariamente da un disaccordo su dottrine isolate, ma da una crisi fondamentale del sistema protestante. Il principio della sola Scriptura si dimostra incapace di fungere da arbitro efficace, generando divisione anziché unità. Questa constatazione pratica porta a una riconsiderazione teorica del principio stesso, e la necessità di un Magistero emerge non come un desiderio di sottomissione autoritaria, ma come la conclusione razionale che, senza un’autorità interpretativa divinamente istituita, la verità del Vangelo è lasciata in balia del giudizio privato e della frammentazione.

L’abbraccio del paradigma cattolico

Se la prima fase del viaggio è spesso caratterizzata dal crollo delle visioni del mondo precedenti, la seconda è segnata da una positiva attrazione per la coerenza, la profondità storica e il potere esplicativo della fede cattolica. Gli autori non si limitano a cambiare opinione su singole dottrine; piuttosto, adottano un nuovo modo di pensare, un nuovo “paradigma” che illumina e dà senso a tutto il resto.

La scoperta della continuità storica

Una delle scoperte più sconvolgenti per molti ex-protestanti è rendersi conto che la Chiesa cattolica non è una corruzione medievale del cristianesimo primitivo, ma la sua continuazione organica. Peter Kreeft vive questa epifania durante un corso di storia della Chiesa, quando si accorge che i padri della Chiesa suonano inequivocabilmente cattolici, non protestanti. Questa presa di coscienza lo porta ad abbracciare la celebre massima di John Henry Newman: “essere profondi nella storia significa cessare di essere protestanti”. Neal Judisch fa una scoperta simile quando si rende conto che le intuizioni teologiche che ammirava come “nuove e meravigliose” nel teologo anglicano N. T. Wright erano, in realtà, una riscoperta di temi e metodi interpretativi già pienamente presenti nella tradizione patristica e medievale. La storia, invece di essere un arsenale di argomenti contro Roma, diventa la prova più eloquente della sua apostolicità.

La coerenza del paradigma cattolico

Il saggio di Bryan Cross offre una chiave di lettura metodologica fondamentale per comprendere l’approdo al cattolicesimo. Influenzato dal filosofo Alasdair MacIntyre, Cross smette di confrontare protestantesimo e cattolicesimo punto per punto — un metodo che riconosce come intrinsecamente circolare, poiché ogni parte valuta l’altra secondo i propri presupposti — e inizia a valutarli come “paradigmi” complessivi, ovvero come due sistemi di pensiero coerenti al loro interno.

L’adozione di questo quadro macintyreano gli permette di porsi una nuova domanda: quale dei due paradigmi ha un potere esplicativo superiore? Quale dei due è in grado non solo di rendere conto dei dati della Scrittura e della storia, ma anche di spiegare l’esistenza e la plausibilità del paradigma rivale? Cross conclude che il paradigma cattolico è superiore. Esso non solo rende intelligibili dottrine altrimenti problematiche (come la rigenerazione battesimale o il ruolo dei santi), ma spiega anche perché il protestantesimo sia sorto, quali fossero le sue tensioni interne e perché la sua struttura porti inevitabilmente alla frammentazione. Il paradigma cattolico, con la sua dottrina della successione apostolica e del Magistero, è in grado di dare un senso coerente alla storia della Chiesa, inclusi gli scismi e le eresie, in un modo che il paradigma protestante, con la sua teoria di una “grande apostasia” seguita da una “restaurazione”, non può fare senza cadere in una forma di “deismo ecclesiale”.

L’attrazione della visione integrale

Un altro elemento di forte attrazione è la natura “inclusiva” del pensiero cattolico, il suo “sia… sia” che si contrappone a un “o… o” che spesso caratterizza altre teologie. La fede cattolica non oppone fede e opere, Scrittura e Tradizione, grazia e natura, ma le integra in una sintesi armoniosa. W. Scott e Lindsay K. Cleveland, nel loro percorso comune, scoprono questa visione integrale negli scritti di Tommaso d’Aquino. Trovano nel suo pensiero una capacità di distinguere senza opporre la legge naturale e la legge rivelata, l’ordine della creazione e quello della redenzione. Questo offre loro un quadro teologico ed etico molto più ricco e coerente rispetto agli approcci degli eticisti protestanti che avevano studiato, i quali tendevano a ridurre la complessità della realtà a un singolo principio, trascurando altre dimensioni essenziali.

La conversione di questi filosofi, quindi, non è semplicemente un cambiamento di credenze, ma un vero e proprio cambiamento metodologico. È un aggiornamento del loro “software” intellettuale. Cutter passa da un naturalismo dogmatico a un approccio “mooreano” che dà valore all’esperienza comune. Cross adotta il quadro dei paradigmi di MacIntyre per superare i dibattiti circolari. Koons applica un’analisi storica e logica spietata per smontare le caricature della dottrina della giustificazione. Per ciascuno di loro, abbracciare il cattolicesimo non è un abbandono della filosofia, ma l’esito della sua applicazione più rigorosa e sofisticata, un atto che apre la ragione a una realtà più vasta e complessa.

La dimensione umana della conversione

Sebbene il percorso di questi filosofi sia profondamente intellettuale, i loro racconti rivelano che la conversione non è un esercizio puramente astratto. La ragione, per loro, non opera in un vuoto, ma è incarnata in una vita fatta di esperienze, relazioni, sofferenze e percezioni estetiche. È l’intreccio di questi elementi a rendere le loro storie pienamente umane e universalmente toccanti.

La bellezza come argomento

In diversi racconti, la bellezza si rivela un potente veicolo di verità, una “via pulchritudinis” che parla al cuore prima ancora che alla mente. Peter Kreeft ricorda come la maestosità della cattedrale di san patrizio a New York e l’ascolto della musica di Palestrina abbiano “trafitto il suo cuore”, ponendogli una domanda a cui la sua teologia protestante non sapeva rispondere: “perché le loro chiese sono così belle?”. Per lui, la musica di Palestrina non era semplicemente bella, ma suonava come “la musica del cielo”, un’esperienza quasi mistica che lo ha reso ricettivo a una realtà più grande. Allo stesso modo, J. Budziszewski, pur ancora prigioniero del suo nichilismo, confessa di aver rischiato di piangere leggendo Dante e Tommaso d’Aquino per la “pura bellezza dell’apparenza della verità”. Queste esperienze non sostituiscono l’argomentazione razionale, ma la preparano, aprendo l’anima alla possibilità che ciò che è così profondamente bello possa essere anche vero.

La sofferenza e la grazia

La sofferenza emerge come un altro crocevia esistenziale in cui la verità di Cristo si manifesta in modo inaspettato. La testimonianza di Candace Vogler è un esempio straordinario di come un’esperienza traumatica come l’abuso paterno possa diventare il contesto in cui si scopre Cristo come “modello di vera mascolinità” e si viene persuasi della verità dell’eucaristia. La sua storia mostra come la grazia possa operare nelle ferite più profonde, trasformando il dolore in un luogo di incontro con il divino. Anche la narrazione di Francis Beckwith sulla morte del padre, con la scoperta della preghiera a Sant’Antonio, illustra come un evento doloroso, che un osservatore esterno potrebbe liquidare come una coincidenza, possa essere vissuto dall’interno come un “dono di Dio”, un segno tangibile della provvidenza che guida e accompagna la vita umana.

Le relazioni umane

Infine, quasi tutti i racconti sottolineano il ruolo fondamentale delle relazioni umane nel percorso di conversione. La ragione non è un’isola; essa fiorisce nel dialogo, nell’amicizia e nell’amore. Il viaggio dei coniugi Cleveland è emblematico: pur partendo da punti diversi e con tempi differenti, si sostengono a vicenda nella loro ricerca della verità, dimostrando come il matrimonio possa essere un luogo privilegiato di discernimento spirituale. Peter Kreeft riconosce l’influenza decisiva di un professore eccezionale che lo ha fatto innamorare della filosofia. Logan Paul Gage viene sfidato a riconsiderare le sue certezze da un collega cattolico. Queste storie dimostrano che la ricerca della verità è un’impresa comunitaria, in cui l’incontro con l’altro diventa spesso un incontro con l’Altro.

Un tema ricorrente in questi percorsi è il superamento di un paradosso fondamentale: la paura iniziale dell’autorità cattolica e la scoperta finale che in essa risiede la vera libertà. Kreeft esprime la paura comune di essere “comandato da un vecchio celibe italiano”. Tuttavia, questi pensatori giungono alla conclusione che senza un’autorità affidabile, la ragione è condannata a girare a vuoto. Brian Cutter si rende conto che, senza il Magistero, sarebbe costretto a “inventarsi la sua teologia da zero”, prigioniero del proprio soggettivismo. L’autorità della Chiesa, quindi, non viene più percepita come una prigione per la mente, ma come il guardrail che impedisce alla ragione di precipitare nell’arbitrarietà e nel relativismo, liberandola così per esplorare in sicurezza le profondità del mistero.

Conclusione: un’apologia della ragione aperta al mistero

In definitiva, il volume Faith and Reason: Philosophers Explain Their Turn to Catholicism si rivela molto più di un manuale di apologetica. È una raccolta di “cronache” intellettuali e spirituali di straordinaria onestà, profondità e rigore. Il suo grande merito è quello di mostrare, attraverso storie concrete e argomentazioni sofisticate, la profonda compatibilità tra l’esercizio appassionato della filosofia e l’abbraccio umile della fede cattolica.

Queste testimonianze demoliscono il cliché di una fede cieca e di una ragione ostile alla stessa. Al contrario, esse dimostrano che la ragione, quando non si chiude dogmaticamente al trascendente e non si accontenta di risposte superficiali, può diventare essa stessa un sentiero che conduce al mistero. Per i dieci filosofi protagonisti di questo volume, la loro vocazione a “inseguire la verità, costi quel che costi” non li ha portati a un vicolo cieco scettico, ma, attraverso sentieri labirintici e spesso inaspettati, li ha condotti alla soglia di quella che hanno riconosciuto come la casa del padre, un luogo dove fede e ragione, finalmente, si incontrano e si riconoscono.

 

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«Babilonia» nella Prima lettera di Pietro: un’analisi storico-esegetica dell’identificazione con Roma

«Babilonia» nella Prima lettera di Pietro: un’analisi storico-esegetica dell’identificazione con Roma

Introduzione: un enigma geografico e il suo peso storico

Alla chiusura di uno degli scritti più pastoralmente intensi del Nuovo Testamento, la Prima lettera di Pietro, si trova un saluto apparentemente semplice che ha però costituito per secoli un complesso enigma esegetico: «Vi saluta la comunità che è in Babilonia, eletta come voi, e Marco, mio figlio» (1 Pt 5,13). Questa singola menzione di “Babilonia” come luogo di origine della lettera ha polarizzato la discussione accademica, dando vita a due principali filoni interpretativi. Il primo, letteralista, suggerisce che l’autore si trovasse effettivamente nella Babilonia storica in Mesopotamia, o in un omonimo avamposto militare in Egitto. Il secondo, simbolico, sostiene che “Babilonia” sia un criptonimo, un nome in codice per la città di Roma, capitale dell’Impero.

Sebbene l’opzione letterale non sia priva di una sua logica superficiale, essa si scontra con una quasi totale assenza di prove a supporto. Al contrario, un’analisi approfondita basata sulla convergenza di indizi provenienti da discipline diverse – la storiografia patristica, l’esegesi letteraria, l’analisi del linguaggio simbolico dell’epoca e la ricostruzione storica – ha portato la schiacciante maggioranza dei ricercatori moderni a identificare con un alto grado di certezza la Babilonia petrina con la capitale dell’Impero. Questo articolo si propone di esplorare in modo succinto le ragioni di tale consenso, dimostrando come l’ipotesi romana non sia semplicemente la più probabile, ma l’unica in grado di rendere conto in modo coerente di tutti i dati a nostra disposizione. A complicare e, al contempo, arricchire il quadro, si aggiunge la fondamentale questione dell’autenticità della lettera: fu davvero l’apostolo Pietro a scriverla, o si tratta di un’opera pseudepigrafa? Come vedremo, questa domanda, lungi dal rendere la questione irrisolvibile, getta una luce ulteriore e decisiva sull’enigma di “Babilonia”.

Le alternative in campo: l’insostenibilità dell’ipotesi letterale

Prima di esaminare le prove a favore di Roma, è necessario analizzare la fragilità delle ipotesi alternative. La più discussa è senza dubbio quella della Babilonia mesopotamica. I suoi sostenitori argomentano, non a torto, che nel I secolo d.C. la regione ospitava una delle più grandi e vitali comunità ebraiche della diaspora, risalente all’esilio del VI secolo a.C. Lo storico Flavio Giuseppe, ad esempio, testimonia la sua importanza demografica e culturale. In quest’ottica, si ipotizza che Pietro, in qualità di “apostolo dei circoncisi” (Gal 2,8), avrebbe potuto logicamente estendere la sua missione a questa importante enclave giudaica.

Tuttavia, questa costruzione, per quanto plausibile in astratto, si rivela storicamente insostenibile. L’ostacolo più grande è un invalicabile “argomento dal silenzio”. Nelle prime comunità cristiane, la memoria dei luoghi di predicazione e, soprattutto, di martirio degli apostoli principali era un patrimonio prezioso, custodito e tramandato con cura. Esistono tradizioni, per quanto talvolta leggendarie, sulla missione di Tommaso in India, di Giovanni a Efeso, di Marco ad Alessandria. Eppure, come sottolinea la quasi totalità degli studiosi moderni, «non esiste alcuna tradizione cristiana, fonte letteraria, o leggenda che colleghi in qualche modo l’apostolo Pietro, o i suoi compagni Marco e Silvano, alla Babilonia sull’Eufrate» (Ehrman, 2008, p. 99). Tutta la tradizione successiva, a partire dalla fine del I secolo, punta inequivocabilmente e unanimemente in un’unica direzione per l’ultima fase della vita di Pietro: Roma. Il silenzio totale su una missione mesopotamica non è un’assenza neutra, ma un’evidenza negativa fortissima.

Un’altra ipotesi letterale, ancora più debole, identifica la località con un forte militare romano chiamato Babilonia, situato in Egitto, vicino all’odierno Cairo. Questa opzione, tuttavia, ha ancora meno frecce al suo arco. Si trattava di un presidio militare di secondaria importanza, privo di una significativa comunità ebraica (concentrata soprattutto ad Alessandria) e, ancora una volta, totalmente assente da qualsiasi tradizione legata alla missione petrina. Karl Hermann Schelkle (1981), nel suo commentario, la elenca tra le possibilità teoriche ma la scarta rapidamente per la sua implausibilità storica. In assenza di qualsiasi prova esterna, l’ipotesi letterale, in entrambe le sue varianti, rimane una pura speculazione basata su una lettura decontestualizzata del toponimo.

La questione dell’autore: pseudepigrafia e le sue implicazioni

Un nodo fondamentale per l’interpretazione di 1 Pietro è la questione della sua paternità. Se da un lato la lettera si apre con una chiara auto-attribuzione («Pietro, apostolo di Gesù Cristo»), dall’altro molti studiosi moderni avanzano seri dubbi sulla sua autenticità, suggerendo che si tratti di un’opera pseudepigrafa, scritta cioè da un discepolo o da un membro della “scuola petrina” verso la fine del I secolo (ca. 80-95). Le ragioni a sostegno di questa tesi sono principalmente di natura linguistica e teologica:

  • La qualità del greco: La lingua della lettera è un greco colto, elegante e stilisticamente elaborato, con un ricco vocabolario e una sintassi complessa. Molti studiosi ritengono improbabile che tale livello di raffinatezza letteraria potesse appartenere a un pescatore galileo la cui lingua madre era l’aramaico. Sebbene la menzione di Silvano come scriba (5,12) possa spiegare questa qualità, alcuni vedono in essa un artificio letterario tipico della pseudepigrafia per conferire verosimiglianza all’opera.
  • La teologia della lettera: Il pensiero teologico di 1 Pietro sembra riflettere una fase matura del cristianesimo primitivo. L’autore mostra una notevole familiarità con la tradizione paolina (specialmente con le lettere ai Romani e agli Efesini), che integra armonicamente con temi tipicamente petrini. Questa sintesi, secondo alcuni, suggerisce un’epoca successiva a quella dei due apostoli, in cui un autore di seconda generazione poteva attingere e rielaborare il loro insegnamento. Gilberto Marconi (2000, p. 7), ad esempio, la definisce opera di un «Autore anonimo, con buona probabilità esponente di spicco del gruppo dei cristiani residenti a Roma, intorno all’ultimo decennio del I secolo».

Questa discussione ha un’implicazione diretta e potente sulla questione di “Babilonia”. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’ipotesi pseudepigrafa, lungi dal rendere l’identificazione con Roma più debole, la rafforza enormemente. Se la lettera fu scritta da un discepolo della scuola petrina a Roma verso la fine del I secolo, la scelta di “Babilonia” diventa una mossa letteraria e teologica carica di significato. Un autore che scriveva in quella città, decenni dopo il martirio di Pietro sotto Nerone, avrebbe avuto tutte le ragioni per:

  1. Ancorare l’opera alla tradizione del martirio: Usare “Babilonia” come nome in codice per Roma significava collocare retroattivamente la voce autorevole del maestro nella città del suo martirio, la capitale del potere che lo aveva messo a morte.
  2. Rafforzare l’autorità della chiesa di Roma: Firmare la lettera con il nome di Pietro da “Babilonia” (Roma) serviva a consolidare l’eredità petrina della comunità romana, presentandola come la custode del suo insegnamento.
  3. Rendere il messaggio più potente: Il simbolo di Babilonia, in un’epoca di persecuzioni (come quelle sotto Domiziano), avrebbe risuonato con forza tra i destinatari, collegando le loro sofferenze a quelle del principe degli apostoli nella capitale dell’impero ostile.

In questo scenario, “Babilonia” non è solo un dato geografico nascosto, ma una scelta teologica e strategica che lega indissolubilmente il messaggio della lettera alla città di Roma e alla memoria del martirio di Pietro.

Le prove convergenti: perché Roma?

Che l’autore sia Pietro stesso (con Silvano come scriba) o un discepolo della sua scuola, le prove che puntano a Roma come luogo di origine (reale o simbolico) della lettera sono schiaccianti e provengono da più direzioni.

La memoria più antica: la testimonianza patristica

Come già accennato, l’identificazione di Babilonia con Roma è attestata in modo sorprendentemente precoce. La fonte principale è lo storico Eusebio di Cesarea, che riporta una tradizione risalente a Papia di Gerapoli e Clemente di Alessandria. Eusebio scrive: «E si dice che Pietro faccia menzione di Marco nella sua prima lettera, che si dice anche abbia composto nella stessa Roma, e che lo indichi egli stesso, chiamando la città, metaforicamente, Babilonia» (Storia Ecclesiastica, II, 15, 2). La testimonianza di Papia (ca. 110-130) è importante perché ci riporta a una memoria quasi contemporanea ai fatti. Questa non era un’opinione isolata. A fine II secolo, Ireneo di Lione (Contro le Eresie, III, 1, 1) e Tertulliano di Cartagine confermano la predicazione e il martirio di Pietro a Roma. Tertulliano scrive con enfasi: «Quanto è felice quella Chiesa alla quale gli apostoli hanno donato tutta la loro dottrina insieme col loro sangue!» (De praescriptione haereticorum, 36), riferendosi esplicitamente a Roma.

Il linguaggio del potere: “Babilonia” come simbolo

L’uso di “Babilonia” come nome in codice per Roma era un’immagine diffusa e potente nella letteratura giudaica del tempo. Specie dopo la distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C., l’analogia tra Roma e l’antica Babilonia divenne immediata e potente. Come scrive Joachim Gnilka (2003, p. 109), «L’appellativo dispregiativo di Babilonia per Roma era corrente… Roma era considerata il centro del potere ostile a Dio. In questo senso essa era la Babilonia escatologica». Questa identificazione simbolica è ben attestata in opere come gli Oracoli Sibillini (libro V, 143, 159), il Quarto libro di Esdra e l’Apocalisse di Baruc. Inserita in questo contesto culturale, la menzione di Babilonia in 1 Pietro appare tutt’altro che strana; è, al contrario, un riferimento culturale e teologico immediatamente riconoscibile dai suoi primi lettori.

Coerenza interna: teologia dell’esilio e indizi prosopografici

Gli indizi più convincenti provengono dall’analisi interna della lettera stessa. La Prima lettera di Pietro è, nella sua essenza, una “lettera dell’esilio”. Si apre con un indirizzo esplicito «agli eletti che vivono come stranieri nella diaspora (διασπορά) del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia» (1 Pt 1,1). L’intero scritto è costruito sull’identità dei credenti come “stranieri e pellegrini” (2,11). La menzione finale di “Babilonia” è la chiave di volta di questa cornice teologica. Paul J. Achtemeier (1996), nel suo autorevole commentario, spiega come la lettera utilizzi l’esperienza dell’esilio di Israele come modello per comprendere la condizione cristiana. In quest’ottica, la menzione di Babilonia è il culmine di questa teologia, identificando la capitale dell’impero come il luogo per eccellenza della prova e della testimonianza.

A questo si aggiunge l’elemento prosopografico, un vero e proprio puzzle umano la cui unica soluzione plausibile è Roma. La menzione congiunta di Pietro, Marco e Silvano punta in modo quasi inequivocabile alla capitale.

  • Pietro e Marco: Come già visto, la tradizione che lega Marco a Pietro come suo “interprete” (ἑρμηνευτής) a Roma è antichissima e solidissima. Markus Bockmuehl (2017, p. 134) la definisce «una delle più antiche e meglio attestate tradizioni della chiesa primitiva».
  • Marco a Roma: La sua presenza a Roma è attestata indipendentemente anche da Colossesi 4,10 e Filemone 24, dove Paolo, scrivendo dalla sua prigionia romana, menziona Marco come suo collaboratore.
  • Silvano: La figura di Silvano (il Sila degli Atti) rafforza ulteriormente il quadro. Egli era un cittadino romano (At 16,37), una figura di spicco della chiesa di Gerusalemme e un compagno di missione di Paolo. La sua presenza a Roma, crocevia dell’Impero e centro nevralgico della missione cristiana, è del tutto logica e verosimile.

L’ipotesi romana, quindi, permette di collocare tutti i pezzi del puzzle in modo coerente. Qualsiasi altra ipotesi costringe a creare scenari storici privi di qualsiasi fondamento documentale.

Conclusione: oltre l’enigma, la certezza morale

L’identificazione della Babilonia di 1 Pietro 5,13 con Roma non è un dogma, ma il risultato di un rigoroso processo storico-critico. È la conclusione che si impone quando si lascia che le prove parlino da sole, in un quadro di convergenza che unisce la memoria più antica della Chiesa, l’analisi del linguaggio simbolico dell’epoca, la coerenza teologica interna della lettera e l’evidenza prosopografica. La discussione sulla pseudepigrafia, lungi dall’indebolire questa conclusione, la cementa: che sia stato Pietro a dettare la lettera a Silvano prima del suo martirio, o un suo discepolo a scriverla a Roma in sua vece per onorarne la memoria, il punto di riferimento geografico, storico e teologico rimane la capitale dell’Impero. Comprendere questo dettaglio non è un mero esercizio accademico; significa cogliere la profonda urgenza del messaggio della lettera: un appello alla speranza, alla santità e alla perseveranza, rivolto a una comunità dispersa da parte di chi condivide la sua stessa condizione di esilio, testimoniando la fede proprio dal cuore della “Babilonia” del suo tempo.


Bibliografia

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Il Battista e l’Architetto: un’analisi della venerazione massonica di San Giovanni e del conflitto secolare con la Chiesa cattolica

Il Battista e l’Architetto: un’analisi della venerazione massonica di San Giovanni e del conflitto secolare con la Chiesa cattolica

Introduzione

Questo articolo si propone di in modo succinto del tema della connessione storica e simbolica tra la massoneria e la figura di San Giovanni Battista. La scelta del 24 giugno 1717, festa della natività del Battista, come data di fondazione della prima Gran Loggia di Londra, e la sua successiva adozione come patrono da parte di importanti Obbedienze massoniche come il Grande Oriente d’Italia, sono fatti che comprensibilmente possono generare una certo “turbamento” in un fedele cattolico. L’obiettivo di questa analisi è fornire un chiarimento della questione, andando oltre la semplice cronaca degli eventi per esplorare le complesse stratificazioni simboliche, le radici storiche e le ragioni dottrinali che sottendono non solo questa scelta, ma l’intero rapporto, spesso conflittuale, tra la Chiesa Cattolica e la Libera Muratoria negli ultimi tre secoli.

Lungi dal voler offrire una risposta semplicistica, questa analisi si articola in quattro parti. La prima analizzerà il contesto storico della fondazione del 1717 e il significato polivalente della data prescelta. La seconda approfondirà il dualismo simbolico dei due Santi Giovanni nel “pantheon” massonico. La terza si concentrerà specificamente sul caso italiano e sul Grande Oriente d’Italia. Infine, la quarta parte traccerà la storia della costante e irremovibile opposizione della Chiesa, dalle prime condanne settecentesche fino alla posizione attuale del Magistero.

La fondazione del 1717: una convergenza di data, simbolo e intento

La nascita della massoneria moderna: la taverna “Goose and Gridiron”

L’atto che segna la nascita della massoneria moderna, o “speculativa”, ebbe luogo a Londra il 24 giugno 1717, giorno della festa di San Giovanni Battista. In quella data, quattro logge preesistenti di Londra e Westminster si riunirono presso la taverna “Goose and Gridiron” (L’Oca e la Graticola), situata nel sagrato della Cattedrale di St. Paul, e decisero di costituirsi in una nuova entità centralizzata: la Gran Loggia di Londra e Westminster. Questa organizzazione, nota informalmente come Premier Grand Lodge o “Gran Loggia dei Moderni”, rappresenta il germe da cui si svilupperà la massoneria istituzionale come la conosciamo oggi.

È fondamentale comprendere che questo evento non fu una creazione ex nihilo. Le logge esistevano da tempo, discendendo dalle antiche corporazioni di mestiere dei muratori e scalpellini medievali, la cosiddetta massoneria “operativa”. La novità del 1717 fu la formalizzazione di un processo di transizione già in atto: il passaggio da un’associazione di artigiani a una società filosofica e iniziatica, “speculativa” appunto, che accoglieva uomini non più legati al mestiere della costruzione ma interessati a un percorso di perfezionamento morale e intellettuale. Questo nuovo organismo abbracciò con entusiasmo gli ideali che stavano fiorendo nel clima dell’Illuminismo, come la libertà di pensiero, la tolleranza religiosa e la fratellanza universale.

La rapida crescita e l’elevazione del profilo della nuova Gran Loggia furono guidate da figure di notevole spessore intellettuale e sociale. Dopo i primi Gran Maestri di estrazione borghese come Anthony Sayer e George Payne, la guida passò a uomini come John Theophilus Desaguliers, un ecclesiastico anglicano e illustre scienziato, membro della prestigiosa Royal Society. Fu sotto il suo impulso che il pastore presbiteriano James Anderson venne incaricato di redigere le Constitutions of the Free-Masons, pubblicate nel 1723. Questo documento è di capitale importanza: sostituì le antiche regole manoscritte delle corporazioni operative con un corpo di leggi stampato e accessibile, che codificava i principi, i doveri (Charges) e i regolamenti della nuova massoneria speculativa, omettendo volutamente solo i rituali segreti. Le Costituzioni di Anderson posero le basi filosofiche per una fratellanza in cui uomini di diverse convinzioni potessero incontrarsi in armonia, ponendo l’accento sulla morale universale piuttosto che sui dogmi religiosi specifici.

La scelta di San Giovanni Battista: un colpo da maestro simbolico e sincretico

La decisione di fondare la Gran Loggia proprio il 24 giugno non fu casuale, ma una scelta di straordinaria densità simbolica, che attingeva a più livelli di significato, da quello precristiano a quello evangelico. Comprendere questa scelta è cruciale per decifrare l’essenza del rapporto tra massoneria e tradizione religiosa.

Il primo e più antico strato di significato è quello cosmico e solare. La data del 24 giugno coincide con il solstizio d’estate, il giorno più lungo dell’anno, momento in cui il sole raggiunge il suo apice di potenza luminosa nell’emisfero settentrionale. Fin dall’antichità, le culture pagane, da quella celtica a quella romana, avevano riconosciuto questo momento come un potente punto di svolta del ciclo annuale. Era celebrato con riti e feste, come i tradizionali falò (“i fuochi di San Giovanni”), che sono una memoria di un passato precristiano volto a celebrare la forza del sole e la fertilità della terra. Nella simbologia esoterica, il solstizio d’estate è conosciuto come la “Porta degli Uomini” (Janua Inferi), il varco attraverso cui il flusso energetico discende dal cielo alla terra per rigenerare la natura e permettere la maturazione dei frutti. Rappresenta il culmine della manifestazione nel mondo materiale.

Il secondo strato è quello della reinterpretazione cristiana. La Chiesa primitiva, con grande acume strategico e teologico, sovrappose il proprio calendario liturgico a queste antiche festività pagane. Pose la nascita di San Giovanni Battista, il Precursore, in corrispondenza del solstizio d’estate, e la nascita di Gesù Cristo, la “Luce del mondo”, in corrispondenza del solstizio d’inverno. Questa simmetria non è solo calendariale, ma profondamente teologica. Giovanni Battista nasce nel momento di massima luce solare, dopo il quale le giornate cominciano ad accorciarsi. Gesù nasce nel momento di minima luce, dopo il quale le giornate riprendono ad allungarsi. Ciò illustra perfettamente le parole che il Vangelo attribuisce allo stesso Battista: “Oportet illum crescere, me autem minui” (“Bisogna che Egli [Cristo] cresca e che io diminuisca”, Gv 3,30). La Chiesa, in questo modo, “battezzò” una festa solare, infondendole un significato cristologico.

Il terzo strato, quello della sintesi massonica, è il più complesso e si trova al cuore della questione. La massoneria nascente, con il suo caratteristico approccio sincretico, non scelse tra il significato pagano e quello cristiano, ma li abbracciò entrambi, integrandoli in un nuovo quadro simbolico. Onorava il ciclo cosmico del sole, la “Luce” naturale, e allo stesso tempo la figura di Giovanni Battista. Tuttavia, l’interpretazione massonica di Giovanni è differente da quella strettamente cattolica. Per la massoneria, il Battista non è solo il Precursore di Cristo, ma diventa l’archetipo dell’Iniziato, colui che prepara la via non a una salvezza rivelata e unica, ma alla “Luce” intesa in senso più ampio e universale: la Verità, la Conoscenza, la Ragione.

Qui emerge il nucleo del conflitto irriducibile con la dottrina cattolica. Dal punto di vista massonico, adottare San Giovanni è un atto di omaggio a una figura di altissimo valore morale e simbolico, un esempio per l’umanità. Dal punto di vista cattolico, invece, questo gesto è visto come un “rovesciamento” e un'”appropriazione strumentale”. Si prende un santo definito unicamente dalla sua relazione con Cristo e lo si decontestualizza, privandolo del suo specifico significato teologico per trasformarlo in un simbolo all’interno di un sistema filosofico naturalistico o, secondo i critici, gnostico. La massoneria universalizza il simbolo, la Chiesa ne difende l’unicità e la specificità. Non si tratta di una semplice disputa su una data, ma di uno scontro tra due visioni del mondo e della verità radicalmente diverse.

I due santi Giovanni: pilastri del tempio massonico

Una dualità simbolica: il Battista e l’Evangelista

Per comprendere appieno il ruolo di San Giovanni nella tradizione massonica, è essenziale sapere che essa non venera un solo patrono, ma due: San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista. Le loro feste, il 24 giugno e il 27 dicembre, cadono in prossimità dei due solstizi, quello d’estate e quello d’inverno, e scandiscono il ritmo dell’anno massonico. Questa dualità non è secondaria, ma costituisce un asse portante del simbolismo libero-muratorio.

I due Santi Giovanni sono considerati i pilastri simbolici che sorreggono l’edificio massonico, così come le due colonne, Jachin e Boaz, erano poste all’ingresso del Tempio di Salomone. Essi rappresentano i due punti estremi del percorso annuale del sole, la luce massima e la luce minima, e incarnano una serie di dualità complementari che sono fondamentali per il percorso iniziatico del Massone :

  • Azione e contemplazione: Il Battista è l’uomo d’azione, la “voce che grida nel deserto”, che battezza e chiama alla conversione. L’Evangelista è il contemplativo, il “discepolo che Gesù amava”, colui che si china sul petto del Maestro per ascoltarne i segreti e che redige il più teologico e mistico dei Vangeli.
  • Acqua e fuoco/spirito: Il Battista battezza con l’acqua, simbolo di purificazione e preparazione. L’Evangelista è associato al fuoco dello Spirito e alla Luce della conoscenza divina (il Logos).
  • Legge antica e legge nuova: Il Battista è l’ultimo profeta del patto antico, chiude un’era. L’Evangelista apre la visione del futuro con l’Apocalisse, chiudendo il canone del Nuovo Testamento. Sono, in un certo senso, l’Alfa e l’Omega del percorso di rivelazione.
  • Porta degli uomini e porta degli dei: Come già accennato, il solstizio d’estate (Battista) è la “porta degli uomini”, che si apre sulla manifestazione terrena. Il solstizio d’inverno (Evangelista) è la “porta degli dei” (Janua Coeli), il varco attraverso cui si accede alla dimensione spirituale e celeste, e la luce ricomincia a crescere.

Questa coppia di santi delimita il cammino dell’uomo e dell’iniziato, rappresentando l’inizio e il compimento, la preparazione e la realizzazione.

La tradizione “giovannita” e il vangelo della luce

La centralità dei due Giovanni nella massoneria si lega a una più ampia “tradizione giovannita” che ha sempre affascinato le correnti esoteriche. Questa tradizione si fonda in particolare sul Vangelo secondo Giovanni, che in molte logge massoniche è il “Libro della Legge Sacra” che viene aperto sull’altare durante i lavori rituali.

La scelta del quarto Vangelo non è casuale. Il suo prologo – “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio… In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini” – viene interpretato dalla massoneria non in senso strettamente confessionale, ma come un’affermazione di principi cosmici universali: il Logos (la Ragione, il Principio Ordinatore), la Luce (la Conoscenza) e la Vita. Il suo linguaggio, descritto come “iniziatico, gnostico ed esoterico”, si presta a una lettura che va oltre la fede cristiana specifica, rendendolo il testo ideale per una fratellanza che si riunisce sotto il simbolo deista del “Grande Architetto dell’Universo”, una concezione di Dio che intende accogliere credenti di diverse fedi senza imporne una specifica.

L’adozione di questa tradizione “giovannita” può essere letta come la scelta simbolica di un percorso spirituale distinto, se non alternativo, a quello della Chiesa Cattolica istituzionale. La tradizione cattolica è spesso definita “Petrina”, in quanto fondata sull’autorità conferita da Cristo a San Pietro e ai suoi successori, i Papi. È una via basata sulla gerarchia, sul dogma e sulla mediazione sacramentale della Chiesa. La via “giovannita”, al contrario, così come interpretata in ambito esoterico, suggerisce una conoscenza più diretta, intuitiva e personale del divino. È la via della gnosis, della comprensione interiore della “luce che splende nelle tenebre”. La loggia massonica, aprendosi sotto gli auspici del Vangelo secondo Giovanni, si propone simbolicamente come uno spazio per questo tipo di ricerca spirituale, che per sua natura si differenzia dal modello di autorità e di rivelazione mediata proprio della Chiesa Cattolica.

Il Grande Oriente d’Italia e il patronato di San Giovanni

Un’eredità duratura nella massoneria italiana

Il Grande Oriente d’Italia (GOI) di Palazzo Giustiniani ha San Giovanni Battista come patrono in ragione della continuità storica e tradizionale. Il GOI, come principale e storica Obbedienza massonica italiana, è un erede diretto del modello organizzativo e simbolico stabilito dalla Gran Loggia d’Inghilterra nel 1717. La prima loggia in Italia fu fondata a Firenze nel 1730 da massoni inglesi, e da lì la Libera Muratoria si diffuse nella penisola, portando con sé i suoi rituali, i suoi simboli e le sue tradizioni.

L’adozione di San Giovanni Battista come patrono da parte del GOI non è quindi un’invenzione italiana o una caratteristica peculiare, ma la semplice e logica prosecuzione di una tradizione massonica universale che risale alle origini stesse della massoneria speculativa. Per i massoni italiani, così come per quelli di tutto il mondo, la festa di San Giovanni Battista del 24 giugno rimane una “speciale ricorrenza iniziatica”, un momento di celebrazione e riflessione sul cammino percorso e sul lavoro da compiere.

Una fonte di “turbamento” per il cattolico

È proprio questa continuità e questa profonda integrazione del santo nel simbolismo massonico a generare la legittima “turbamento” del fedele cattolico. La questione si manifesta come uno scontro tra due interpretazioni inconciliabili della stessa figura.

Dal punto di vista massonico, come espresso da fonti interne all’istituzione, onorare San Giovanni Battista significa venerare una figura di statura morale universale. Egli è visto come un esempio di integrità, coraggio e dedizione alla verità, il “precursore” della luce e un modello per l’umanità intera, indipendentemente dalla fede professata. Per un massone, non c’è contraddizione nell’onorare un santo cristiano all’interno di un quadro filosofico più ampio che celebra la virtù e la ricerca della conoscenza.

Dal punto di vista cattolico, questa operazione è inaccettabile. Come analizzato in precedenza, essa costituisce un’appropriazione che snatura la figura del santo. San Giovanni Battista ha un solo e unico significato nella fede cristiana: indicare Gesù Cristo come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). La sua grandezza risiede interamente in questa sua missione cristologica. Nel momento in cui viene adottato come patrono da un’associazione che, secondo la dottrina della Chiesa, promuove il relativismo, il naturalismo e l’indifferentismo religioso (cioè l’idea che tutte le religioni siano vie ugualmente valide verso una verità generica), egli viene strumentalizzato e svuotato del suo significato essenziale. È questa percezione di una profanazione simbolica, di un “rovesciamento” del sacro, a essere una delle ragioni più profonde e costanti dell’ostilità della Chiesa verso la massoneria.

Tre secoli di conflitto: l’incessante condanna della Chiesa

Il rapporto tra Chiesa Cattolica e massoneria non è stato caratterizzato da un’incomprensione passeggera, ma da un conflitto dottrinale profondo e costante, inaugurato quasi contestualmente alla nascita della massoneria moderna e mai sanato.

Il primo anatema: In Eminenti Apostolatus Specula (1738)

Appena ventuno anni dopo la riunione alla “Goose and Gridiron”, il 28 aprile 1738, Papa Clemente XII promulgò la bolla In Eminenti Apostolatus Specula, il primo di una lunga serie di documenti pontifici di condanna della massoneria. La bolla comminava la scomunica latae sententiae (cioè automatica) a chiunque aderisse a queste società.

Le ragioni addotte da Clemente XII sono illuminanti perché contengono già in nuce tutti i motivi della futura opposizione della Chiesa :

  1. Il giuramento e il segreto: La bolla denunciava lo “stretto giuramento” con cui i membri si impegnavano a un “inviolabile silenzio” sulle loro attività segrete. Questa segretezza, per il Papa, era di per sé un segno di malvagità, secondo il principio evangelico che “chi fa il male, odia la luce”. La frase della bolla è lapidaria: “se non operassero iniquamente, non odierebbero tanto decisamente la luce”.
  2. L’indifferentismo religioso: Il documento condannava il fatto che in queste società venissero accolti “uomini di qualunque religione e setta”, accontentandosi di una “certa affettata apparenza di naturale onestà”. Questo principio minava alla base la pretesa della Chiesa Cattolica di essere l’unica depositaria della verità rivelata e l’unica via di salvezza.
  3. La minaccia per lo stato e per le anime: Clemente XII esprimeva la preoccupazione per i “gravissimi danni” che tali società arrecavano non solo alla “tranquillità della temporale Repubblica”, ma anche alla “salute spirituale delle anime”, in quanto le loro regole non si accordavano “né con le Leggi Civili né con quelle Canoniche”.

È interessante notare come la condanna per la segretezza avvenga in pieno Illuminismo, un’epoca che esaltava la trasparenza della ragione. Questo apparente paradosso si spiega con la funzione sociale della loggia settecentesca. In un’Europa dominata da monarchie assolute e da Chiese di Stato, la loggia, protetta dal segreto, offriva uno spazio unico e sicuro, un “laboratorio” in cui le élite intellettuali e aristocratiche potevano discutere liberamente e mettere in pratica i nuovi ideali illuministici di tolleranza, uguaglianza e fratellanza. La Chiesa, pilastro dell’Ancien Régime, percepì correttamente che questa segretezza non nascondeva necessariamente complotti criminali, ma proteggeva la gestazione di un nuovo ordine filosofico e politico che avrebbe inevitabilmente eroso le fondamenta del suo potere spirituale e temporale. La condanna, quindi, non era solo contro riti bizzarri, ma contro una minaccia esistenziale all’ordine costituito.

Un conflitto crescente: dal Risorgimento a Humanum Genus

La condanna di Clemente XII fu confermata e rafforzata da quasi tutti i suoi successori. Benedetto XIV con la bolla Providas Romanorum (1751), Pio VII con Ecclesiam a Jesu Christo (1821), e una lunga serie di altri pontefici ribadirono l’incompatibilità tra la fede cattolica e l’appartenenza alla massoneria.

Il conflitto raggiunse il suo acme nel XIX secolo, specialmente in Italia. La massoneria divenne una delle principali forze motrici del Risorgimento, del liberalismo e dell’anticlericalismo, sostenendo attivamente il progetto di unificazione nazionale che prevedeva la fine del potere temporale dei Papi e Roma come capitale del nuovo stato laico.

La risposta più articolata e potente della Chiesa a questa sfida fu l’enciclica Humanum Genus, promulgata da Papa Leone XIII il 20 aprile 1884. Questo documento è considerato la più completa e dura condanna della massoneria. Leone XIII accusava la Libera Muratoria di essere la promotrice di una visione del mondo basata sul “naturalismo”, che nega la necessità della Rivelazione divina e della grazia. Denunciava i suoi principi politici (la sovranità popolare che sostituisce la sovranità di Dio), i suoi obiettivi sociali (la laicizzazione dell’istruzione e dello stato, l’introduzione del matrimonio civile) e il suo scopo ultimo: la distruzione della Chiesa Cattolica e di ogni religione rivelata per instaurare il regno della ragione umana. L’enciclica dipingeva uno scontro cosmico tra due “città”: la Città di Dio, la Chiesa, e la città dell’uomo, il “regno di Satana”, di cui la massoneria era vista come la principale artefice terrena.

Documento Pontificio Papa Data Argomento Principale della Condanna
Bolla In eminenti apostolatus specula Clemente XII 28 aprile 1738 Condanna del giuramento, del segreto e dell’indifferentismo religioso; minaccia per la Chiesa e lo Stato.
Bolla Providas Romanorum Benedetto XIV 18 maggio 1751 Conferma e rafforza la condanna di Clemente XII, ribadendo le medesime ragioni.
Bolla Ecclesiam a Jesu Christo Pio VII 13 settembre 1821 Scomunica la Carboneria come emanazione della massoneria, condannando entrambe per cospirazione contro la religione e l’ordine civile.
Enciclica Humanum genus Leone XIII 20 aprile 1884 Condanna completa e sistematica dei principi filosofici (naturalismo, razionalismo) e politici della massoneria, visti come antitetici alla dottrina cattolica.
Dichiarazione sulla massoneria Congregazione per la Dottrina della Fede 26 novembre 1983 Afferma che il giudizio negativo della Chiesa rimane immutato a causa dell’inconciliabilità dei principi massonici con la fede cattolica.

La posizione contemporanea: i principi inconciliabili del 1983

Dopo il Concilio Vaticano II, si aprì una fase di dialogo tra alcuni settori della Chiesa e della massoneria, che portò a un periodo di incertezza. La promulgazione del nuovo Codice di Diritto Canonico nel 1983, che non menzionava più esplicitamente la massoneria tra le associazioni che comportavano la scomunica automatica, generò ulteriore confusione, portando alcuni a credere che il divieto fosse caduto.

Per fugare ogni dubbio, il 26 novembre 1983, la Congregazione per la Dottrina della Fede, allora presieduta dal Cardinale Joseph Ratzinger (futuro Papa Benedetto XVI), pubblicò una Dichiarazione sulla massoneria tanto breve quanto perentoria. Il documento affermava in modo inequivocabile che:

  1. “Rimane pertanto immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa”.
  2. Di conseguenza, “i fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione”.
  3. Non compete alle autorità ecclesiastiche locali pronunciarsi sulla natura delle singole obbedienze massoniche con un giudizio che deroghi da questa posizione universale.

Questa dichiarazione del 1983 rappresenta una distillazione del pensiero della Chiesa. Sposta il baricentro della condanna dalle accuse storiche di complotto politico o di anticlericalismo militante (che potevano variare a seconda dei contesti) al nucleo filosofico e teologico del problema. La ragione dell’incompatibilità non è più primariamente storica o politica, ma dottrinale e permanente. Riguarda i “principi” inconciliabili. Il problema fondamentale, per la Chiesa, è il relativismo insito nella concezione massonica, l’idea che la verità non sia una Rivelazione divina, unica e definitiva in Cristo, ma un orizzonte a cui tendere attraverso molteplici vie, tutte potenzialmente valide. È l’incompatibilità tra la concezione di un “Grande Architetto” deista, impersonale e vago, e il Dio personale, uno e trino della fede cristiana. Poiché questi principi filosofici sono costitutivi della massoneria, il giudizio della Chiesa su di essa rimane, e rimarrà, “immutato”.

Conclusione: riconciliare storia, simbolismo e fede

Abbiamo visto come la scelta della massoneria di nascere nel giorno di San Giovanni Battista e di adottarlo come patrono non è un gesto casuale o superficiale, ma un atto di profondo sincretismo simbolico. In esso convergono l’antica celebrazione cosmica della luce solare e la venerazione per la figura evangelica del Precursore, entrambi reinterpretati all’interno di un nuovo quadro filosofico che vede in Giovanni l’archetipo dell’iniziato che prepara la via alla Verità universale.

Tuttavia, questa stessa profondità simbolica convalida, dal punto di vista della dottrina cattolica, il senso di turbamento del fedele. L’operazione massonica, per quanto legittima nella sua logica interna, costituisce agli occhi della Chiesa un’appropriazione inaccettabile. Essa sradica il santo dal suo unico terreno di significato – la sua relazione con Gesù Cristo – per trapiantarlo in un sistema di pensiero relativista e naturalista che la Chiesa considera incompatibile con la fede.

Il conflitto ormai secolare tra la Chiesa e la massoneria, quindi, non è il frutto di un malinteso storico o di un’ostilità preconcetta, ma la conseguenza inevitabile di una divergenza fondamentale e, per la Chiesa, insanabile. Riguarda la natura stessa di Dio, della verità, della rivelazione e della via per la salvezza. L’obiettivo di questo articolo non era quello di risolvere tale conflitto, ma di fornire il “chiarimento” richiesto, svelandone le radici storiche, simboliche e teologiche. La speranza è che, attraverso questa disamina, il lettore possa aver raggiunto una comprensione critica e informata della complessità delle posizioni in campo, permettendo al fedele di navigare queste acque difficili con la bussola di una fede più consapevole.

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Petrus in Urbe: analisi storica della presenza e del martirio di Pietro a Roma

Petrus in Urbe: analisi storica della presenza e del martirio di Pietro a Roma

Introduzione: una questione storica, non teologica

La questione della presenza e del martirio dell’apostolo Pietro a Roma rappresenta uno dei nodi storiografici più affascinanti e dibattuti delle origini cristiane. Per secoli, la discussione è stata inestricabilmente legata a controversie di natura teologica e ecclesiologica, in particolare riguardo al primato papale. Tuttavia, un’analisi storica rigorosa impone di scindere nettamente i due piani: l’indagine sulla permanenza e la morte di Pietro nella capitale dell’Impero è un problema che va affrontato con gli strumenti della critica storica, basandosi sulla valutazione delle fonti letterarie e dei dati archeologici, indipendentemente dalle sue successive implicazioni dottrinali. Il consenso raggiunto dalla storiografia moderna, che include studiosi di diverse confessioni e anche atei e agnostici, non si fonda su un atto di fede, ma su un’attenta ponderazione delle prove disponibili.

Questo articolo si propone di esaminare in modo compiuto le evidenze che sostengono la tesi, oggi largamente maggioritaria, secondo cui Pietro soggiornò, subì il martirio e fu sepolto a Roma. L’argomentazione centrale non si basa su una singola prova inconfutabile, ma sulla straordinaria convergenza di molteplici e indipendenti linee di testimonianze che, pur con diversi gradi di certezza, puntano tutte nella medesima direzione. Se prese singolarmente, molte di queste testimonianze possono apparire come meri indizi; tuttavia, quando vengono esaminate nel loro insieme e incrociate tra loro, si completano e si confermano reciprocamente, costruendo un caso di alta probabilità storica.

È fondamentale, fin da subito, chiarire una sfumatura fondamentale: affermare la presenza e il martirio di Pietro a Roma non significa sostenerne il ruolo di “fondatore” della comunità cristiana locale, nel senso di primo evangelizzatore. Le fonti storiche, sia cristiane che pagane, suggeriscono con forza l’esistenza di una fiorente comunità cristiana nella capitale ben prima del probabile arrivo dell’apostolo. Lo storico romano Svetonio, ad esempio, riporta che l’imperatore Claudio espulse da Roma gli ebrei attorno al 49 a causa di tumulti sorti “per istigazione di Cresto” (impulsore Chresto), un probabile riferimento a conflitti interni alle sinagoghe romane riguardo alla figura di Cristo. Questa notizia, corroborata dagli Atti degli Apostoli (18,2), dimostra l’esistenza di un nucleo cristiano a Roma già negli anni ’40 del I secolo. Inoltre, la stessa Lettera ai Romani di Paolo, scritta attorno al 57, si rivolge a una comunità già ben strutturata, la cui fede era “nota in tutto il mondo” (Rm 1,8), e nella quale Paolo stesso non si era ancora recato, in accordo con il suo principio di non edificare sul fondamento altrui (Rm 15,20). La presenza di Pietro a Roma, quindi, va collocata in una fase successiva, probabilmente negli ultimi anni della sua vita, e il suo ruolo fu quello di conferire autorità apostolica a una comunità già esistente, non di iniziarla.

Le prime tracce letterarie: un mosaico di indizi (I – inizio II secolo)

Le prime fonti cristiane che toccano la questione della presenza di Pietro a Roma sono spesso indirette, allusive e talvolta caratterizzate da un silenzio eloquente. L’analisi critica di questi testi del I e dell’inizio del II secolo permette di assemblare un mosaico di indizi che, pur non fornendo prove dirette, gettano le basi per la tradizione successiva.

L’argomento del silenzio: la Lettera ai Romani e gli Atti degli Apostoli

Un punto di partenza obbligato nell’analisi è il cosiddetto “argomento del silenzio”. Due testi fondamentali del Nuovo Testamento, la Lettera ai Romani di Paolo (ca. 57) e gli Atti degli Apostoli (redatti probabilmente tra l’80 e l’85), non menzionano la presenza di Pietro a Roma. Nella sua lettera, Paolo invia saluti a numerosi membri della comunità romana (capitolo 16), ma il nome di Pietro non compare. Allo stesso modo, gli Atti descrivono l’arrivo di Paolo a Roma come prigioniero (ca. 60-62) e i suoi incontri con i capi della comunità locale, senza fare alcun cenno a Pietro.

Questo silenzio, anziché confutare la presenza di Pietro a Roma, serve a delimitarla cronologicamente. Esso dimostra con alta probabilità che Pietro non si trovava nella capitale prima del 62 circa. Ciò invalida le tradizioni più tarde, come quelle riportate da Girolamo, che parlano di un lungo “episcopato” petrino a Roma a partire dal regno di Claudio (ca. 42). Tuttavia, non esclude affatto un arrivo successivo. La persecuzione neroniana, tradizionalmente indicata come il contesto del martirio di Pietro e Paolo, scoppiò nel 64. Il silenzio di Paolo e degli Atti, quindi, restringe la possibile permanenza di Pietro a Roma agli ultimi anni della sua vita, un lasso di tempo perfettamente compatibile con la tradizione del suo martirio sotto Nerone. L’argomento del silenzio, lungi dall’essere una prova contraria, diventa così uno strumento per una maggiore precisione storica, suggerendo un soggiorno romano breve e terminale, culminato nel martirio.

L’enigmatica affermazione degli Atti secondo cui Pietro, dopo la sua fuga dalla prigione di Gerusalemme, si recò “in un altro luogo” (At 12,17) lascia aperta ogni possibilità, inclusa quella di un’attività missionaria itinerante che lo avrebbe infine condotto a Roma.

Una morte annunciata: la profezia nel Vangelo secondo Giovanni

Una delle più antiche e significative testimonianze letterarie sul destino di Pietro proviene dal Vangelo secondo Giovanni, la cui redazione finale è datata tra il 90 e il 100. Nel capitolo 21, il Cristo risorto si rivolge a Pietro con parole profetiche: “In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. L’evangelista stesso aggiunge un commento esplicativo: “Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio” (Gv 21,18-19).

L’importanza di questo passo è duplice. In primo luogo, fornisce una testimonianza precoce, indipendente e non romana del fatto del martirio di Pietro. Scritto con ogni probabilità in una comunità dell’Asia Minore, il testo dimostra che alla fine del I secolo la notizia della morte violenta di Pietro era già consolidata e diffusa nel mondo cristiano. In secondo luogo, la frase “tenderai le tue mani” (ἐκτενεῖςταˋςχεῖραˊςσου) era un’espressione idiomatica riconoscibile nel mondo antico per indicare la crocifissione. Il Vangelo di Giovanni, quindi, non solo attesta il martirio, ma ne suggerisce anche la modalità specifica. Questa profezia ex eventu stabilisce un punto fermo nella tradizione: già nel I secolo, si sapeva che Pietro era morto martire, e molto probabilmente crocifisso. Questo importante dettaglio convergerà in seguito con le fonti romane che specificheranno dove tale martirio ebbe luogo.

Saluti da “Babilonia”: la Prima lettera di Pietro e il suo contesto romano

Un altro indizio fondamentale si trova nella Prima Lettera di Pietro. Indipendentemente dalla complessa questione della sua paternità (se sia autografa, redatta con l’aiuto di un segretario come Silvano, o pseudepigrafa), la lettera si conclude con un saluto inequivocabile: “Vi saluta la comunità radunata in Babilonia, e anche Marco, mio figlio” (1 Pt 5,13).

Gli studiosi sono pressoché unanimi nel riconoscere che “Babilonia” è qui un criptonimo per Roma. La città di Babilonia sull’Eufrate nel I secolo era insignificante (anche se la sua regione ospitava effettivamente una nutrita comunità giudaica), mentre Roma, come nuova potenza imperiale che aveva distrutto il Tempio di Gerusalemme nel 70, era diventata nella letteratura apocalittica giudaica e cristiana la “nuova Babilonia”, simbolo di oppressione e idolatria. L’uso di questo nome in codice, probabilmente per ragioni di prudenza in un clima di persecuzione, ancora la lettera e la tradizione petrina a Roma.

La menzione di Marco è altrettanto significativa. Essa crea una rete di connessioni intertestuali con altre tradizioni antiche. Papia di Gerapoli (ca. 110) e più tardi Ireneo di Lione (ca. 180) affermano esplicitamente che Marco fu l’interprete di Pietro e che il suo Vangelo trascrisse la predicazione dell’apostolo a Roma. La co-presenza di Pietro e Marco a “Babilonia” in 1 Pietro rafforza potentemente questo legame, suggerendo un ambiente romano comune per tutte queste figure. Che la lettera sia stata scritta da Pietro stesso o, più probabilmente, da un discepolo a suo nome dopo la sua morte, essa attesta l’esistenza di una solida tradizione che collocava l’apostolo e il suo entourage nella capitale dell’impero.[1, 1]

Testimonianze cruciali dall’epoca sub-apostolica: Clemente Romano e Ignazio di Antiochia

Due documenti della fine del I e dell’inizio del II secolo trasformano questi indizi in certezze. Il primo è la Prima Lettera di Clemente Romano ai Corinzi, scritta da Roma intorno al 96. Clemente, per esortare alla concordia, cita gli esempi degli apostoli “più illustri” e “più giusti”, Pietro e Paolo. Di Pietro scrive che, a causa dell’invidia, “sopportò non una o due, ma molte pene e che dopo aver resa una tale testimonianza (μαρτυρήσας), giunse al meritato luogo della gloria”. Clemente prosegue legando la loro sorte a quella di una “grande moltitudine di eletti” (πολὺ πλῆθος ἐκλεκτῶν) che subì il martirio “tra di noi” (ἐν ἡμῖν).

Questa testimonianza è di capitale importanza. Scritta da Roma, a una sola generazione di distanza dagli eventi, essa fornisce la prima connessione letteraria esplicita e inequivocabile tra il martirio di Pietro e la città di Roma. L’espressione “grande moltitudine” riecheggia in modo impressionante la “ingens multitudo” di cui parla lo storico pagano Tacito nella sua descrizione della persecuzione dei cristiani da parte di Nerone nel 64 (Annali XV, 44). Clemente non sta semplicemente riportando un fatto, ma sta evocando un evento storico specifico e traumatico, la persecuzione neroniana, ben noto sia al suo uditorio romano che a quello di Corinto.

Poco più di un decennio dopo, intorno al 110, un’altra voce esterna conferma la tradizione. Ignazio, vescovo di Antiochia di Siria, mentre viene condotto a Roma per subire il martirio, scrive una lettera alla chiesa della capitale. In essa, dichiara umilmente: “Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato” (Lettera ai Romani 4,3). La forza di questa affermazione risiede nella sua natura casuale e presupposta. Ignazio, un testimone esterno di grande autorevolezza, dà per scontato che i cristiani romani riconoscano una speciale autorità fondante che Pietro e Paolo hanno esercitato specificamente nella loro comunità. Ciò dimostra che la tradizione non era una mera rivendicazione locale romana, ma un fatto riconosciuto nei maggiori centri della cristianità, consolidandone ulteriormente la credibilità storica.

Il consolidarsi della tradizione (fine del II secolo)

Se nel I secolo le prove sono un mosaico di indizi, verso la fine del II secolo la tradizione della presenza e del martirio di Pietro a Roma si consolida, diventando esplicita, universale e incontestata. Questo processo è strettamente legato alla crescente necessità delle chiese di affermare la propria “apostolicità” di fronte alle sfide interne ed esterne.

I “trofei degli apostoli”: la testimonianza di Gaio e il ponte verso l’archeologia

Un punto di svolta si ha intorno all’anno 200 con la testimonianza del presbitero romano Gaio, riportata dallo storico Eusebio di Cesarea. In una disputa con un eretico frigio di nome Proclo, che vantava le tombe degli apostoli nella sua regione, Gaio replica con sicurezza: “Io posso mostrarti i trofei (τρόπαια) degli apostoli. Se infatti vorrai recarti in Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che hanno fondato questa chiesa” (Eusebio, Storia ecclesiastica 2.25.7).

Questa dichiarazione segna un passaggio cruciale dalla memoria letteraria alla topografia fisica e verificabile. Un tropaion non è un semplice ricordo, ma un monumento di vittoria, che in un contesto martiriale indica una tomba o un santuario venerato. Gaio fornisce due luoghi precisi e distinti: il colle Vaticano per Pietro e la via Ostiense per Paolo. Ciò indica l’esistenza, all’inizio del III secolo, di una tradizione topografica specifica e ben consolidata a Roma, legata a monumenti fisici. La testimonianza di Gaio diventerà la chiave di volta letteraria per l’interpretazione delle scoperte archeologiche del XX secolo, fornendo un ponte diretto tra le fonti scritte e i resti materiali.

Un coro di voci: il consenso pan-mediterraneo

Nello stesso periodo, testimonianze provenienti da tutto l’Impero confermano che la tradizione romana era ormai un dato acquisito per l’intera cristianità.

  • Dionigi, vescovo di Corinto (ca. 170), in una lettera ai Romani citata da Eusebio, afferma che Pietro e Paolo “dopo avere insegnato insieme in Italia, resero la loro testimonianza [subirono il martirio] nello stesso periodo di tempo”.
  • Ireneo, vescovo di Lione in Gallia (ca. 180), nella sua opera Contro le eresie, parla della chiesa di Roma come della “più grande e più antica e a tutti nota chiesa, fondata e costituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo”.
  • Tertulliano, da Cartagine in Nord Africa (ca. 200), è ancora più specifico, scrivendo che a Roma “Pietro eguaglia la passione del Signore [cioè fu crocifisso], dove Paolo è incoronato della stessa morte di Giovanni” (De praescriptione haereticorum 36).

A queste voci si aggiungono quelle di autori del III secolo che rafforzano ulteriormente questo consenso. Origene di Alessandria (ca. 185-254), uno dei più grandi teologi dell’antichità, riporta nel suo Commento alla Genesi, citato da Eusebio, che Pietro, “dopo aver predicato agli ebrei della diaspora, alla fine venne a Roma e fu crocifisso a testa in giù, come egli stesso aveva chiesto di patire”. Questa testimonianza, proveniente da un centro intellettuale fondamentale come Alessandria, non solo conferma il martirio a Roma ma aggiunge il dettaglio della crocifissione capovolta. Allo stesso modo, Cipriano, vescovo di Cartagine (morto martire nel 258), nei suoi scritti sulla disciplina ecclesiastica, fa costantemente riferimento alla “cattedra di Pietro” come fondamento dell’unità della Chiesa, presupponendo come fatto indiscutibile il legame fondativo dell’apostolo con la sede romana.

La convergenza di queste voci da Grecia, Gallia, Nord Africa ed Egitto, che si aggiungono a quelle di Roma e della Siria, dimostra l’esistenza di un consenso pan-mediterraneo ormai consolidato tra la fine del II e l’inizio del III secolo. Questa diversità geografica rende estremamente improbabile l’ipotesi di una tarda invenzione romana a scopo propagandistico. È molto più plausibile che queste fonti, così distanti tra loro, stiano tutte attestando una tradizione comune, più antica e radicata in un evento storico reale. È anche in questo periodo che si consolida l’abbinamento retorico di Pietro e Paolo come “co-fondatori”, una costruzione teologica che risponde alla crescente necessità della chiesa di Roma di affermare la sua “doppia apostolicità” nelle dispute ecclesiastiche, in particolare contro le rivendicazioni delle chiese orientali.

Pietro “fondatore” della Chiesa di Roma? Analisi di un’affermazione storica

L’affermazione di Ireneo e Gaio che Pietro e Paolo “fondarono” la chiesa di Roma sembra contraddire le prove, già esaminate, di una comunità cristiana pre-petrina. La soluzione a questa apparente aporia risiede nella comprensione del significato di “fondazione” nel contesto ecclesiastico del II secolo. Come già accennato, la testimonianza dello storico pagano Svetonio sull’editto di Claudio del 49 fornisce una prova esterna e inconfutabile di una presenza cristiana a Roma già negli anni ’40. Questo dato storico rende impossibile che Pietro sia stato il fondatore nel senso del primo missionario che portò il Vangelo nella capitale.

Il termine “fondare” (in greco θεμελιόω, themelioō), usato da Ireneo e altri, deve quindi essere interpretato non in senso cronologico, ma in senso ecclesiologico e autoritativo. Per gli autori del tardo II secolo, Pietro e Paolo non “fondarono” le prime chiese domestiche, ma “fondarono” la sede apostolica di Roma, conferendole la loro autorità, la loro tradizione e la gloria del loro martirio. La loro opera fu quella di strutturare e dare un fondamento apostolico a una comunità già esistente. Questa distinzione è essenziale per una corretta analisi storica: essa risolve la contraddizione apparente e illumina l’evoluzione della tradizione, che passa dal semplice ricordo del martirio alla costruzione teologica della sede apostolica.

Sotto la basilica: le prove e le controversie dell’archeologia

Se le fonti letterarie costruiscono un caso solido basato su una memoria convergente, l’archeologia del XX secolo ha fornito una straordinaria corroborazione materiale, spostando il dibattito dal regno del testo a quello del suolo. Gli scavi condotti sotto la Basilica di San Pietro in Vaticano tra il 1939 e il 1949, e proseguiti negli anni successivi, hanno rivelato una sequenza stratigrafica che si allinea in modo impressionante con la tradizione letteraria.

La necropoli vaticana: un contesto storico verificabile

Le esplorazioni archeologiche hanno portato alla luce una vasta necropoli pagana e cristiana, in uso dal I al IV secolo, situata sul pendio del colle Vaticano. Questo cimitero si trovava immediatamente adiacente al Circo di Gaio e Nerone, l’impianto dove, secondo lo storico Tacito, ebbe luogo la brutale persecuzione dei cristiani del 64. Questa scoperta è di per sé di enorme importanza. La legge romana imponeva che le sepolture avvenissero al di fuori delle mura cittadine (extra pomerium), e il ritrovamento di un’area cimiteriale attiva nel I secolo proprio accanto al luogo del martirio fornisce il contesto archeologico perfetto per la sepoltura di una delle vittime di quella persecuzione. L’archeologia, quindi, conferma la plausibilità topografica della tradizione: il luogo conservato dalla memoria come sito della tomba di Pietro era effettivamente un cimitero funzionante al momento della sua morte.

L’edicola del II secolo e la decisione di Costantino: il “trofeo di Gaio”

Il cuore della scoperta archeologica è stata l’identificazione di una semplice tomba a fossa (designata come “Tomba P”), risalente al I secolo, situata in un’area modesta della necropoli. Sopra questa umile sepoltura, intorno al 160, fu eretto un piccolo monumento a edicola, addossato a un muro intonacato di rosso (il “Muro Rosso”). Questa struttura corrisponde perfettamente, per datazione e tipologia, al “trofeo” menzionato da Gaio intorno al 200. La monumentalizzazione di una tomba così povera, in netto contrasto con i ricchi mausolei circostanti, è la prova archeologica che quel punto era oggetto di una venerazione speciale da parte della comunità cristiana della metà del II secolo.

La prova più potente, tuttavia, è la decisione presa dall’imperatore Costantino nel IV secolo. Per costruire la sua grandiosa basilica in onore di Pietro, Costantino intraprese un’opera ingegneristica colossale e costosissima. Fece sbancare parte del colle Vaticano e interrare gran parte della necropoli, un atto che violava le leggi romane e la sacralità delle tombe, pur di centrare l’altare della sua basilica esattamente sopra quella piccola edicola del II secolo. Nessun imperatore avrebbe affrontato tali difficoltà tecniche e costi esorbitanti, né avrebbe commesso un tale sacrilegio, se non fosse stato mosso da una convinzione assoluta e incrollabile che quel preciso punto custodisse le spoglie del Principe degli Apostoli. L’archeologia dimostra così, senza ombra di dubbio, l’esistenza e la precisa localizzazione di questa credenza nel IV secolo, legandola direttamente al monumento del II secolo e, di conseguenza, alla tomba del I secolo.

I graffiti votivi e le reliquie contese: culto e controversia

Ulteriori scoperte hanno arricchito il quadro. Su un muro costruito successivamente a fianco dell’edicola (il “Muro g”), sono stati rinvenuti centinaia di graffiti cristiani, incisi da pellegrini tra il III e l’inizio del IV secolo. Molti di questi contengono invocazioni e acclamazioni a Cristo, a Maria e a Pietro, fornendo la prova diretta di un culto petrino attivo in quel luogo preciso, che colma il vuoto cronologico tra il monumento di Gaio del II secolo e la basilica di Costantino del IV. Sullo stesso Muro Rosso, l’epigrafista Margherita Guarducci identificò il famoso graffito ΠΕΤΡ… ΕΝΙ (PETR… ENI), da lei interpretato come Πέτρος ἔνι, “Pietro è qui [dentro]”.

La questione più dibattuta riguarda i resti ossei. All’interno di un loculo ricavato nel Muro g, rivestito di marmo e ritenuto una sistemazione di epoca costantiniana, furono trovate delle ossa umane. Analisi successive determinarono che appartenevano a un unico individuo di sesso maschile, di corporatura robusta, di età compresa tra i 60 e i 70 anni, e che le ossa, incrostate di terra, erano state avvolte in un prezioso tessuto di porpora intessuto d’oro. La datazione al radiocarbonio, eseguita decenni dopo su alcuni frammenti, ha indicato una compatibilità con il I secolo. Sebbene l’identificazione di queste ossa con quelle di Pietro non possa essere provata con certezza scientifica assoluta e rimanga oggetto di dibattito, la loro presenza in quel contesto è un ulteriore, straordinario tassello di un puzzle coerente. La posizione storica non si fonda sull’autenticità delle reliquie, ma sulla sequenza archeologica ininterrotta: una tomba del I secolo, venerata con un monumento nel II, oggetto di un culto con graffiti nel III, e infine suggellata da una basilica imperiale nel IV, tutto concentrato sullo stesso, umile punto della necropoli vaticana.

Sintesi storica e consenso storiografico

L’esame congiunto delle fonti letterarie e dei dati archeologici permette di formulare una conclusione storica solida. La persuasione degli storici non deriva da un singolo elemento decisivo, ma dalla forza cumulativa e dalla coerenza interna di un insieme di prove eterogenee.

La forza della convergenza e l’assenza di tradizioni alternative

Il caso della presenza e del martirio di Pietro a Roma si basa su un principio di convergenza. Abbiamo una tradizione letteraria che nasce nel I secolo con allusioni e profezie (Giovanni, 1 Pietro, Clemente), si consolida nel II secolo in un consenso pan-mediterraneo (Ignazio, Dionigi, Ireneo, Tertulliano) e diventa topograficamente precisa all’inizio del III (Gaio). Parallelamente, abbiamo una tradizione archeologica che testimonia la venerazione di una specifica tomba sul colle Vaticano a partire dalla metà del II secolo, un culto che si intensifica nel III e riceve la sua consacrazione definitiva nel IV con la costruzione della basilica costantiniana. Le due linee di prova, letteraria e materiale, si sostengono e si illuminano a vicenda.

A questa convergenza si aggiunge un potente argomento ex silentio: nessuna altra città del mondo antico ha mai rivendicato di possedere la tomba di Pietro. In un’epoca caratterizzata da un’intensa competizione tra le sedi episcopali per vantare origini apostoliche, il silenzio di rivali potenti come Antiochia (dove Pietro soggiornò a lungo) o Gerusalemme è estremamente significativo. Esso suggerisce che la tradizione romana era così antica, così forte e così universalmente accettata da non poter essere messa in discussione. La combinazione di una tradizione positiva convergente e l’assenza totale di una tradizione alternativa rende l’ipotesi della sua storicità di gran lunga la più economica e plausibile.

Distinguere storia e leggenda: il martirio e il mito del “Quo vadis?”

Una corretta analisi storica richiede di distinguere il nucleo storico dagli abbellimenti leggendari successivi. Un esempio classico è la famosa vicenda del “Quo vadis, Domine?”, secondo cui Pietro, in fuga da Roma, avrebbe incontrato Cristo sulla via Appia e, dopo il dialogo con lui, sarebbe tornato indietro per affrontare il martirio. Questo racconto non compare in nessuna fonte antica, ma ha origine negli Atti di Pietro, uno scritto apocrifo della fine del II secolo, ricco di elementi fantasiosi e non attendibile come fonte storica per i dettagli degli eventi.

Tuttavia, anche la leggenda, se letta criticamente, può fornire una conferma indiretta. Le leggende non nascono nel vuoto; esse fioriscono attorno a un nucleo di verità percepita o di tradizione consolidata. L’esistenza stessa di una narrazione come quella del “Quo vadis?” presuppone che, per l’uditorio della fine del II secolo, il quadro generale fosse già un dato di fatto: Pietro si trovava a Roma e lì subì il martirio durante la persecuzione neroniana. La leggenda serve a drammatizzare e a dare un significato teologico a questo nucleo storico, non a inventarlo. Pertanto, anche la letteratura apocrifa, pur essendo inaffidabile per i fatti, rafforza la storicità della tradizione di fondo.

Lo stato della questione: il consenso della critica moderna

Oggi, la stragrande maggioranza degli storici del cristianesimo antico — protestanti, cattolici e laici — accetta come un fatto di alta probabilità storica che Pietro abbia subito il martirio a Roma sotto Nerone. Questo consenso è il risultato di un lungo processo di depolarizzazione della questione. Per secoli, la negazione della presenza di Pietro a Roma è stata una bandiera della polemica anti-cattolica. Il punto di svolta si ebbe a metà del XX secolo, in particolare con l’opera dello studioso protestante Oscar Cullmann, Petrus. Jünger, Apostel, Märtyrer (1952).

Cullmann e altri dopo di lui hanno dimostrato in modo convincente che è possibile e necessario separare la questione storica (la presenza e morte di Pietro a Roma) da quella dogmatica (la successione e il primato papale). Questa distinzione ha permesso alla critica storica, libera da preclusioni confessionali, di valutare le prove per quello che sono. Il consenso moderno non è quindi un compromesso ecumenico, ma il risultato di un’analisi critica rigorosa e multidisciplinare che riconosce il peso schiacciante della convergenza delle fonti letterarie e archeologiche.

Conclusione: un fatto storico svincolato dal dogma

In conclusione, l’affermazione che l’apostolo Pietro soggiornò e morì martire a Roma si basa su un fondamento storico eccezionalmente solido, costruito non su una singola prova, ma su una fitta rete di testimonianze convergenti. Le prime tracce letterarie del I secolo, pur essendo indirette, delineano già un quadro coerente: una profezia della sua crocifissione, un saluto da “Babilonia” (Roma) e il ricordo del suo martirio “tra di noi” da parte della comunità romana. Nel II secolo, questa tradizione diventa un consenso universale, attestato da scrittori in tutto il Mediterraneo, e si ancora a una topografia precisa con i “trofei” sul colle Vaticano.

Questa catena ininterrotta di memoria letteraria trova una straordinaria conferma nella sequenza archeologica scoperta sotto la Basilica di San Pietro: una tomba del I secolo, monumentalizzata nel II, oggetto di un culto devozionale nel III e infine consacrata da una basilica imperiale nel IV. L’assenza totale di qualsiasi tradizione rivale in altre città apostoliche rafforza ulteriormente la storicità della rivendicazione romana.

È essenziale, tuttavia, ribadire che questa conclusione storica è indipendente dalla sua complessa e vasta eredità teologica. Affermare che Pietro morì a Roma non implica alcuna presa di posizione sulla natura del suo ministero, sulla sua durata o sulla dottrina della successione apostolica. Significa semplicemente riconoscere che, sulla base delle prove disponibili e secondo i canoni della moderna critica storica, la tradizione che lega indissolubilmente la fine della vita del pescatore di Galilea alla capitale dell’Impero Romano possiede un grado di probabilità storica così elevato da rasentare la certezza.

Bibliografia

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  • Ehrman, B.D. (2008) Pietro, Paolo e Maria Maddalena. Storia e leggenda dei primi seguaci di Gesù. Milano: Mondadori.
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  • Svetonio. Vite dei Cesari. (es. a cura di F. Dessì, (2009)). Milano: Rizzoli.
  • Tacito. Annali. (es. a cura di A. Garzetti, (2003)). Torino: UTET.
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The Paradoxical Structure of Existence di Frederick D. Wilhelmsen

The Paradoxical Structure of Existence di Frederick D. Wilhelmsen

Introduzione: riscoprire l’essere in un’epoca di crisi

Nel panorama della filosofia del XX secolo, poche opere riescono a coniugare con la stessa intensità rigore speculativo, passione didattica e una profonda consapevolezza della propria collocazione storica come The Paradoxical Structure of Existence di Frederick D. Wilhelmsen. La sua ripubblicazione, arricchita da una nuova e illuminante introduzione di James Lehrberger, non è un mero atto di archeologia intellettuale, ma un intervento quanto mai attuale nel dibattito contemporaneo. Il testo si presenta fin da subito come una risposta diretta a quella che Lehrberger, seguendo l’autore, definisce la “crisi della filosofia occidentale”. Questa crisi, maturata lungo trecento anni di pensiero moderno, è caratterizzata da un progressivo allontanamento dalla realtà e da un diniego sistematico dell’intelligibilità dell’essere. Il suo esito pratico è un mondo in cui le cose, e infine gli stessi esseri umani, vengono ridotti a “materia prima” da plasmare e dominare secondo la volontà di potenza umana, una traiettoria che, come la storia del XX secolo ha tragicamente dimostrato, ha portato a Passchendaele, Auschwitz e Hiroshima.

Al centro di questa imponente opera si colloca una tesi tanto audace quanto feconda: l’esistenza, l’atto di esistere (esse), possiede una struttura intrinsecamente paradossale e irriducibile a qualsiasi schema dialettico. Wilhelmsen stesso, nella sua introduzione, lancia la sfida con una provocazione che costituisce il cuore del suo argomento: “non solo l’esistenza manca di una struttura, ma l’esistenza stessa non esiste. Pertanto l’esistenza stessa non può essere affermata”. Questa affermazione non è un gioco di parole, ma il fondamento di una metafisica che intende trascendere la dialettica hegeliana non attraverso una sua confutazione, ma abbracciando, con spirito chestertoniano, la “tensione irrisolta” che caratterizza il paradosso. L’essere, per Wilhelmsen, non si lascia catturare nelle maglie del “sì” e del “no” concettuali, ma li trascende entrambi.

A rendere il volume un’esperienza unica contribuisce la sua origine, che Lehrberger opportunamente ricorda: il testo nasce dalle leggendarie lezioni universitarie che Wilhelmsen teneva all’Università di Dallas, affettuosamente soprannominate dagli studenti “Metafritz”. Questa genesi didattica si riflette in uno stile vibrante, a tratti poetico, ricco di analogie evocative e di una passione contagiosa.

The Paradoxical Structure of Existence non è dunque solo un trattato di metafisica tomista, ma un vero e proprio testamento filosofico, un invito a pensare l’essere non come un concetto astratto, ma come l’atto più intimo e drammatico della realtà.

Un viaggio attraverso la storia dell’essere: la preparazione della scena tomista

Wilhelmsen apre la sua indagine con una convinzione metodologica fondamentale: “La filosofia, sola tra le discipline puramente razionali, porta con sé la propria storia”. Il riassunto storico che occupa il primo capitolo non è un semplice preambolo erudito, ma una parte integrante e indispensabile dell’argomentazione. Attraverso di esso, l’autore traccia la genealogia di quello che Martin Heidegger chiamerà l'”oblio dell’essere”, mostrando come il pensiero occidentale si sia progressivamente allontanato dall’intuizione originaria dell’esistenza per perdersi nelle astrazioni dell’essenza, preparando così il terreno per la rivoluzione metafisica di Tommaso d’Aquino.

La lezione degli antichi: il fallimento greco

Il viaggio inizia con i presocratici. Parmenide, secondo Wilhelmsen, ebbe la geniale intuizione dell'”È” (Is) come fondamento trascendente che sfugge a ogni oggettivazione. Tuttavia, egli stesso “tradì” questa intuizione nel momento in cui la trasformò nel sostantivo “Essere” (Being), un’entità statica e monolitica che, per coerenza logica, lo costrinse a negare la molteplicità e il divenire del mondo sensibile. Platone, nel tentativo di sanare la frattura tra l’uno e i molti, propose una soluzione grandiosa ma altrettanto problematica. Identificando l’essere con la “medesimezza” (sameness) e relegandolo nel mondo intelligibile delle Forme, lasciò al mondo concreto e sensibile solo lo statuto di un’ombra, una partecipazione imperfetta. La critica di Wilhelmsen, che riprende quella di Étienne Gilson, colpisce al cuore il platonismo: “come possono le cose essere attraverso forme che di per sé non sono?”. Se le Idee non hanno un’esistenza propria, ma sono pura intelligibilità, non possono in alcun modo rendere conto dell’esistenza concreta e fattuale delle cose che in esse “partecipano”.

Aristotele compie un passo decisivo localizzando la forma all’interno delle cose, riconoscendo così la struttura immanente della realtà. La sua analisi della potenza e dell’atto fornisce gli strumenti per comprendere il divenire. Ciononostante, anche il suo pensiero, secondo Wilhelmsen, incorre in un fallimento decisivo. Identificando illecitamente l’essere con la sostanza, e la sostanza con il sinolo di materia e forma, Aristotele non riesce a rendere conto dell’atto d’esistere in quanto tale. La forma, principio di attualità, di per sé non esiste; solo il composto esiste. Ancora una volta, ci si trova di fronte a un principio (la forma) che, essendo privo di esistenza in sé, non può conferirla al composto. Questo “ricadere dell’essere nella natura” è, per Wilhelmsen, “il fallimento metafisico definitivo dell’intero spirito greco”, che confina la metafisica a una sorta di “super-filosofia della natura” incapace di una vera trascendenza.

La svolta di Avicenna e il contesto scolastico

La vera svolta, che apre la strada alla soluzione tomista, avviene con l’innesto del pensiero greco sul tronco della Rivelazione giudaico-cristiana e islamica. È la dottrina della creazione ex nihilo a porre la domanda filosofica radicalmente nuova: qual è il rapporto tra l’essenza di una cosa (ciò che essa è) e la sua esistenza (il fatto che essa sia)? Wilhelmsen individua in Avicenna il pensatore che per primo articola filosoficamente questa problematica. Il filosofo persiano, notando che una stessa essenza (ad esempio, “cavallo”) può esistere sia nella realtà singolare sia nella mente come universale, deduce correttamente che l’esistenza deve essere distinta dall’essenza.

L’errore fatale di Avicenna, tuttavia, fu quello di concepire questa distinzione stabilendo una priorità dell’essenza sull’esistenza. Per lui, l’essenza pura, considerata in se stessa, è una sorta di possibilità ontologica che “precede” l’atto di esistere, al punto che l’esistenza le “accade” come un accidente. Questa posizione, definita “essenzialismo”, riduce l’atto di esistere a una determinazione secondaria e pone le radici di una metafisica in cui il possibile è più fondamentale dell’attuale.

Per apprezzare appieno la radicalità della successiva mossa di Tommaso, è utile collocarla in un contesto scolastico più ampio di quello delineato da Wilhelmsen. La distinzione tra essenza ed esistenza non fu un problema che ammetteva solo la soluzione avicenniana o quella tomista. Altri grandi pensatori medievali proposero soluzioni alternative e sofisticate. Duns Scoto, ad esempio, introdusse la sua celebre “distinzione formale” (distinctio formalis a parte rei), un tipo di distinzione intermedia tra quella puramente di ragione e quella reale, per salvaguardare l’unità del concetto di essere pur riconoscendo la non-identità dei suoi aspetti. Attraverso il concetto di haecceitas (“questità”), egli spiegava l’individuazione non come un’aggiunta esterna, ma come l’ultima attualità della forma stessa. Più tardi, Francisco Suárez proporrà una “distinzione concettuale con fondamento nella realtà” (distinctio rationis cum fundamento in re), negando la distinzione reale tomista per preservare l’unità intelligibile dell’ente. Queste posizioni, pur complesse, condividevano una preoccupazione comune: mantenere la coerenza del concetto di essere. La grandezza rivoluzionaria di Tommaso, come Wilhelmsen la presenta, risiede proprio nell’aver osato spezzare questa unità concettuale per rimanere fedele alla radicalità dell’atto d’esistere, un atto che, come si vedrà, non può essere contenuto in alcun concetto.

Il cuore della tesi: l’atto d’esistere paradossale nel tomismo esistenziale

Superata la disamina storica, Wilhelmsen conduce il lettore nel nucleo della sua argomentazione: l’esposizione della metafisica tomista dell’esistenza. Qui, la tesi del libro si dispiega in tutta la sua forza, rivelando l’atto di esistere non come un dato pacifico, ma come un paradosso che sfida le categorie abituali del pensiero.

La rivoluzione tomista: esse come atto primo

Il punto di partenza è la celebre “distinzione reale” tomista tra essenza ed esistenza. Wilhelmsen, seguendo la linea interpretativa del “tomismo esistenziale”, sottolinea come questa non sia una semplice distinzione tra due “cose”. L’esse non è un’entità che si aggiunge all’essenza, ma è l'”atto supremo e perfetto” che la rende reale. L’essenza, di per sé, è pura potenzialità all’esistere; è nulla al di fuori dell’atto che la pone in essere. Questo capovolge radicalmente la gerarchia aristotelica all’interno dell’ordine dell’essere: mentre per Aristotele l’atto (la forma) determina la potenza (la materia), nella metafisica tomista dell’esistenza, l’atto per eccellenza (esse) non determina, ma è determinato dalla potenza (l’essenza). L’essenza agisce come limite intrinseco, come il “quanto” e il “come” di un determinato atto di esistere.

L’influenza di Gilson e il tomismo esistenziale

In questa ricostruzione, è palese e dichiarata l’influenza di Étienne Gilson, il pioniere del tomismo esistenziale del XX secolo. Wilhelmsen si inserisce pienamente in questa corrente, che ha avuto il merito di riscoprire il nucleo più autentico e rivoluzionario del pensiero di Tommaso: il primato assoluto dell’atto di esistere (più propriamente “atto d’essere”, actus essendi) sull’essenza. Per Gilson, e per Wilhelmsen dopo di lui, tutta la storia della metafisica può essere letta come una lotta per afferrare questa verità, una lotta in cui molti, persino tra i discepoli di Tommaso, hanno fallito, ricadendo in varie forme di essenzialismo.

Qui conviene fare una breve digressione attorno alla complessità del “tomismo esistenziale”. Un’altra figura monumentale del pensiero tomista del Novecento, il sacerdote italiano Cornelio Fabro, pur condividendo l’enfasi sull’esse, propose una lettura parzialmente diversa e per certi versi critica nei confronti di quella gilsoniana. Secondo Fabro, la chiave di volta della metafisica tomista non risiede tanto nell’atto del giudizio (come sottolineato da Gilson), quanto nella dottrina neoplatonica della partecipazione. Per Fabro, l’essere creato è un ens per participationem, un ente che partecipa dell’Essere per essenza (Esse per essentiam), che è proprio di Dio. La distinzione reale tra essenza ed esistenza è la conseguenza di questa struttura partecipativa. Sebbene Wilhelmsen segua la via gilsoniana, che privilegia il giudizio come atto in cui la mente coglie l’esistenza, menzionare la prospettiva di Fabro permette di situare l’opera in un dibattito più ampio e di riconoscere che esistono diverse vie per valorizzare il primato dell’esse nel pensiero di Tommaso. Questo dimostra una consapevolezza matura del campo di studi, che va oltre l’orizzonte immediato del testo in esame.

I paradossi dell’esistenza

Una volta stabilito il primato dell’esse, Wilhelmsen ne esplora la natura attraverso una serie di “paradossi” che ne costituiscono la struttura.

Il primo paradosso riguarda la coppia analisi-sintesi. L’essenza, o la natura, con la sua complessa rete di cause (materiale, formale, efficiente e finale), costituisce l’ordine analitico. La mente umana, e la scienza, procedono analiticamente, scomponendo la realtà nei suoi elementi costitutivi. L’esistenza, al contrario, è l’atto della sintesi: essa è il “catalizzatore” che fonde essenze disparate in un’unità indivisa. Wilhelmsen vede in questa dialettica una chiave per la critica della modernità: l’età del razionalismo, con la sua ossessione per l’analisi e la scomposizione (simboleggiata dalla tecnologia meccanica), ha prodotto una “frammentazione” della realtà, un oblio della funzione unificante dell’esistenza.

Il secondo concetto chiave è quello di extramentalità radicale. L’esistenza, a differenza delle cose esistenti, non è mai una “presenza”, un oggetto che si offre alla mente o ai sensi. È un atto che sfugge a ogni tentativo di oggettivazione, rimanendo radicalmente “fuori” dalla mente (extra-mental), non nel senso banale di essere nel mondo esterno, ma nel senso profondo di non poter mai diventare un contenuto di coscienza.

Infine, si giunge al paradosso centrale, quello che dà il titolo al libro: l’esistenza “né è, né non è”. Non “è”, perché non è una cosa, un ente che possiede l’essere; se lo fosse, si innescherebbe un regresso all’infinito. Non “non è”, perché senza di essa nulla sarebbe. L’atto di esistere, che Wilhelmsen descrive vividamente con il neologismo “izz-ing” per catturarne la pura attualità verbale , trascende la logica binaria dell’affermazione e della negazione. È questa la sua “trascendenza negativa”: un andare oltre l’ordine del pensabile che non approda a un vuoto, ma all’atto più fondamentale e inafferrabile di tutti.

Dialogo e confronto: Wilhelmsen, Hegel e Heidegger

Armato di questa metafisica paradossale, Wilhelmsen ingaggia un confronto serrato con i due giganti del pensiero tedesco moderno che più di tutti hanno posto al centro della loro riflessione l’essere e la storia: Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Martin Heidegger. Il suo obiettivo, come nota Lehrberger, non è solo difendere Tommaso, ma mostrare come la metafisica tomista contenga le risorse per superare le loro posizioni e ponga ad esse delle sfide implicite che rimangono senza risposta.

La sconfitta della dialettica: oltre Hegel

Il confronto con Hegel è frontale e radicale. Wilhelmsen definisce la dialettica hegeliana come la “risoluzione delle tensioni”, in opposizione al paradosso, che è la “tensione irrisolta”. La dialettica, afferma, “è nemica del paradosso”. Il sistema di Hegel, secondo l’analisi di Wilhelmsen, prende le mosse da un errore fondamentale: l’oggettivazione dell’Essere. Hegel concepisce l’Essere come il concetto più ampio e, proprio per questo, più vuoto e indeterminato. Un Essere così svuotato si identifica immediatamente con il suo opposto, il Nulla, e da questa contraddizione iniziale (tesi e antitesi) scaturisce il divenire (sintesi), dando avvio all’intero processo dialettico dello Spirito che si dispiega nella storia.

La contro-argomentazione di Wilhelmsen è netta: l’essere (esse) non è un concetto, per quanto vuoto o universale, ma è l’atto inconcepibile mediante il quale esistono i concetti stessi. Poiché l’esse non può essere oggettivato, non può essere posto come tesi e non può generare una contraddizione. La metafisica paradossale di Wilhelmsen “blocca efficacemente qualsiasi dispiegamento dialettico del reale” perché si rifiuta di giocare secondo le regole della logica concettuale che la dialettica presuppone.

Risposta a Heidegger: l’essere non è presenza

Il dialogo con Heidegger è più sottile ma non meno decisivo. Wilhelmsen riconosce la grandezza di Heidegger nel riproporre la questione dell’Essere e nel denunciare l'”oblio dell’Essere” (Seinsvergessenheit) che ha caratterizzato la tradizione metafisica occidentale. Tuttavia, sostiene, con altri tomisti esistenziali, che questa critica non coglie nel segno per quanto riguarda Tommaso d’Aquino, per il quale l’esse è precisamente il centro della riflessione.

Ma Wilhelmsen va oltre questa difesa standard. La sua critica più originale si appunta contro la nozione heideggeriana dell’Essere (Sein) che si rivela e si nasconde nella “radura” (Lichtung) dell’esistenza umana (Dasein), manifestandosi come “presenza”. A questa concezione, Wilhelmsen oppone la sua idea di “extramentalità radicale”. L’essere (esse) non può mai diventare una “presenza” nella mente; non può mai apparire sullo schermo della coscienza. È l’atto che rende possibile ogni presenza, ma che di per sé rimane inaccessibile, inconcepibile. La gloria della metafisica, suggerisce amaramente Wilhelmsen, è la sua stessa agonia: essa anela alla visione dell’essere, ma deve accontentarsi dell'”oscurità”, pur rimanendo “fedele alla luce dell’intelligenza”.

La domesticazione del nulla

Questa critica a Heidegger trova il suo culmine nel capitolo quinto, “The Domestication of the Nothing”. Qui, Wilhelmsen sostiene che la fascinazione contemporanea per il Nulla, così centrale nel pensiero di Heidegger, non è un’intuizione originaria, ma una conseguenza storica e filosofica precisa: è il sintomo del “fallimento dell’essenza” e dell'”oblio dell’essere” che caratterizzano l’epoca moderna. Una cultura interamente costruita sull’ordine analitico, sulla scienza e sulla tecnologia—una cultura dell’essenza—quando esaurisce le sue possibilità, “non ha nulla su cui ripiegare”. L’angoscia di fronte al Nulla sorge proprio da questo vuoto, da questa povertà metafisica.

La risposta tomista, secondo Wilhelmsen, è radicale: l’esse, in quanto atto puro, non ha un contrario. La dialettica essere/nulla è impossibile perché l’esse non è un “qualcosa” che possa essere negato o contraddetto. Il Nulla non può insinuarsi nel cuore dell’essere, perché l’essere stesso, nella sua attualità, lo esclude. Il paradosso finale è che proprio la “non-esistenza” dell’esistenza (il fatto che non sia una cosa) le impedisce di avere una contraddizione, sigillando così la sua assoluta positività.

Dalla metafisica alla vita: persona, storia e mito

Una delle maggiori forze del pensiero di Wilhelmsen, e uno degli aspetti più illuminanti di The Paradoxical Structure of Existence, è la sua capacità di mostrare come le più sofisticate verità metafisiche abbiano conseguenze dirette e concrete sulla comprensione della vita umana, della politica, della storia e della cultura. Per Wilhelmsen, la metafisica non è un gioco accademico fine a se stesso, ma il fondamento ultimo per una diagnosi e una critica della condizione umana. Il suo pensiero politico, storico e culturale non è un’appendice, ma la derivazione logica della sua metafisica dell’esistenza.

Il mondo moderno, avendo abbracciato una visione del mondo “essenzialista” e “analitica”, ha frammentato la realtà e ha dimenticato l’atto unificante dell’esse. Questo “oblio dell’essere” è ciò che il filosofo politico Eric Voegelin, citato da Wilhelmsen, ha definito “Gnosticismo”: il tentativo di riplasmare la realtà secondo un’idea umana, di “immanentizzare l’escaton”. Questo impulso gnostico si manifesta politicamente nel liberalismo e nelle altre ideologie moderne che rifiutano un ordine trascendente e dato. La “politica sacrale” di Wilhelmsen, il suo interesse per il Carlismo spagnolo e il suo lavoro con la rivista Triumph rappresentano il tentativo di rifondare l’ordine politico sull’essere (una realtà data e trascendente) anziché sull’essenza (un concetto o un’ideologia costruiti dall’uomo).

La persona come “chi” esistenziale

Nel settimo capitolo, Wilhelmsen applica la sua metafisica alla comprensione della persona umana. Egli sostiene che il concetto stesso di “persona”, così come l’Occidente lo intende, non è una scoperta della filosofia classica, ma un contributo squisitamente cristiano, nato dalla necessità teologica di distinguere la persona dalla natura nella riflessione cristologica. Il mondo pagano conosceva l’individuo, ma ne misurava il valore in base alla sua capacità di incarnare la natura o il tipo universale. Il cristianesimo, insistendo sul valore infinito di ogni singolo uomo, per cui Cristo è morto, ha spostato il baricentro dalla natura all’esistenza.

La persona è il “Chi”, irriducibile al “Cosa” della sua natura. La sua dignità non risiede nelle sue qualità o nella sua essenza, ma nel suo atto unico e incomunicabile di esistere, in quell’esse che è un “di più”, un “eccesso” rispetto all’ordine analitico e che costituisce una relazione diretta “verso Dio”. Questa visione fonda metafisicamente il rifiuto di ogni ideologia che subordini la persona al collettivo, allo Stato o a un tipo astratto.

L’esistenza come storia

L’analisi si estende poi alla filosofia della storia. Wilhelmsen sostiene che la storia stessa, come la concepiamo in Occidente, non è un dato universale, ma una “forma dell’essere” creata dal “salto nell’essere” giudaico-cristiano, che ha spezzato il tempo ciclico e cosmologico del paganesimo. La storia, con un inizio, uno svolgimento e una fine, nasce dalla coscienza di un rapporto con un Dio personale che agisce nel tempo.

Per corroborare la sua tesi sulla dipendenza della filosofia dalla storia, Wilhelmsen si avvale del concetto di ricorso (storico) del filosofo italiano Giambattista Vico. Il ricorso (storico) è il “ripiegarsi” di una cultura sul proprio passato per recuperarne razionalmente le origini. Questo dimostra, secondo Wilhelmsen, che “l’intelligibilità viene vissuta come un atto prima di essere pensata come una conclusione”. La filosofia, quindi, non è un’attività di pura ragione astratta, ma è materialmente e psicologicamente condizionata dall’incontro vissuto e storico con la realtà.

La critica della cultura moderna: gnosticismo e mito

Il capitolo finale è una potente sintesi della critica culturale di Wilhelmsen. Utilizzando il concetto di “Gnosticismo” di Eric Voegelin, egli diagnostica la malattia spirituale della modernità. La modernità è un progetto gnostico che cerca di realizzare il paradiso in terra, di riplasmare la realtà secondo un piano umano. Questo progetto è la conseguenza diretta del suo “oblio dell’essere”.

Questo impulso gnostico genera una cultura di “miti malevoli” , cioè di presupposti inarticolati che sono ostili all’esistenza. Si manifesta nella “dissociazione della sensibilità” (una frattura tra pensiero e sentimento) e in un mondo tecnologico fatto di “funzioni, non di esseri”. Il compito del filosofo, conclude Wilhelmsen, è quello di diventare uno “psichiatra della cultura”, utilizzando la metafisica per smascherare e analizzare questi miti e contribuire a guarire “un’epoca che può essere guarita solo da uomini temprati nell’Essere”.

Stile, tono e valore didattico

Qualsiasi recensione di The Paradoxical Structure of Existence sarebbe incompleta senza un’analisi del suo stile letterario, che è tanto parte del suo messaggio quanto il suo contenuto argomentativo.

La prosa di un maestro

Lo stile di Wilhelmsen è inconfondibile: vigoroso, appassionato, a tratti lirico e persino combattivo. La sua prosa non è quella distaccata e impersonale di molti trattati accademici. È una scrittura che riflette la personalità del suo autore: un pensatore che, come testimoniano i suoi studenti, viveva la filosofia come un’avventura totale. Il testo è costellato di analogie memorabili e neologismi audaci, come il già citato “izz-ing”, “extramentalità radicale” o “il cuore barocco della creazione”. Questi strumenti retorici non sono meri abbellimenti, ma tentativi di evocare la dinamicità dell’atto d’esse, di farne “sentire” la presenza attiva che i concetti, per loro natura statici, non possono catturare.

Un’introduzione accessibile?

Lehrberger nota che il libro nasce da lezioni per studenti non specialisti, e questo ne spiega in parte la vivacità e la chiarezza espositiva. Tuttavia, sarebbe un errore considerarlo un’introduzione “semplice” alla metafisica. La densità filosofica, il dialogo costante con Hegel e Heidegger, e la sottigliezza delle distinzioni concettuali ne fanno un’opera impegnativa, che richiede al lettore una certa familiarità con la storia della filosofia. Si potrebbe concludere che si tratta di un’introduzione “profonda” più che “elementare”: un testo che, pur potendo essere letto con profitto da chi ha una solida base, si rivela in tutta la sua ricchezza a chi è già addentro alle questioni metafisiche. La sua forza didattica non risiede nella semplificazione, ma nella capacità di trasmettere la passione per la ricerca della verità e di mostrare la drammaticità delle questioni in gioco.

Una filosofia cristiana

Infine, è necessario sottolineare il carattere non-apologeticamente cristiano e cattolico dell’opera. Wilhelmsen si definisce con orgoglio un “filosofo cristiano”. Questo non significa, nella sua prospettiva, che la fede fornisca le risposte filosofiche, ma che la Rivelazione cristiana ha “innescato” domande nuove e più profonde sull’essere, la creazione, Dio e la persona, domande che erano inaccessibili al pensiero pagano. La dottrina della creazione ex nihilo e il dogma dell’Incarnazione non sono premesse di un sillogismo, ma l’orizzonte storico e culturale che ha reso possibile la metafisica dell’esistenza di Tommaso d’Aquino. Per un lettore secolare, questo approccio può rappresentare una sfida, poiché richiede di prendere sul serio la fecondità filosofica di presupposti teologici. Per Wilhelmsen, tuttavia, questa non è una limitazione, ma la condizione storica per l’accesso alla verità più piena sull’essere.

Conclusione: l’eredità di una struttura paradossale

In conclusione, The Paradoxical Structure of Existence di Frederick D. Wilhelmsen si conferma un’opera di eccezionale valore e perdurante attualità. Non è possibile non esprimere un profondo apprezzamento per il coraggio intellettuale, la lucidità argomentativa e la passione civile che animano ogni pagina del libro. Wilhelmsen non si limita a esporre la metafisica tomista; la rivitalizza, la mette in dialogo con le sfide più radicali del pensiero moderno e la trasforma in un potente strumento di diagnosi culturale.

Il suo più grande merito è forse quello di aver mostrato che la metafisica non è una disciplina astratta e polverosa, ma una sapienza che tocca le radici dell’esperienza umana e illumina le grandi questioni del nostro tempo. La sua critica alla frammentazione, all’essenzialismo e al nichilismo della modernità, fondata sulla riscoperta dell’atto sintetico e unificante dell’esistenza, risuona oggi con una forza profetica.

L’opera di Wilhelmsen è un invito a “temprare” nuovamente l’uomo moderno nell’Essere, un compito che egli vedeva come un imperativo filosofico e una necessità per la sopravvivenza della civiltà. Pur nella consapevolezza delle derive disumanizzanti della tecnologia, egli nutriva una “cauta speranza” che la nuova era elettronica potesse, proprio per la sua natura simultanea e sintetica, superare la frammentazione dell’era meccanica. Questa speranza, radicata non in un ottimismo ingenuo ma nella sua profonda e paradossale visione dell’esistenza, costituisce l’eredità più preziosa di questo libro straordinario: un’eredità che invita a pensare l’essere non come un problema da risolvere, ma come un mistero da abitare.

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La donna, il silenzio e la legge: Paolo scrisse davvero 1 Corinzi 14,34-35?

La donna, il silenzio e la legge: Paolo scrisse davvero 1 Corinzi 14,34-35?

Introduzione

All’interno della Prima Lettera ai Corinzi, uno degli scritti più vibranti e pastoralmente complessi del Nuovo Testamento, si annida un passaggio che ha causato secoli di dibattito e, per molti, di profondo disagio. Si tratta dei versetti 34 e 35 del capitolo 14, dove l’apostolo Paolo sembra imporre un silenzio assoluto e inappellabile alle donne durante le assemblee cristiane: “Come si fa in tutte le chiese dei santi, le donne tacciano nelle assemblee, perché non è loro permesso di parlare; stiano sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualcosa, interroghino i loro mariti a casa; perché è vergognoso per una donna parlare in assemblea”.

Queste parole suonano come una sentenza definitiva. Tuttavia, esse creano una stridente dissonanza con quanto lo stesso Paolo aveva scritto solo tre capitoli prima. In 1 Corinzi 11,5, l’apostolo non solo permette, ma regola con precisione le modalità con cui le donne possono “pregare o profetizzare” durante il culto. Come può Paolo regolamentare un’attività in un capitolo per poi proibirla categoricamente in un altro? Questa palese contraddizione ha spinto un numero crescente di studiosi a sostenere una tesi radicale ma persuasiva: questi due versetti non furono scritti da Paolo. Sarebbero un’interpolazione, una glossa marginale aggiunta da un copista successivo.

Questo articolo intende esplorare la questione, analizzando gli argomenti a favore e contro l’autenticità del passo. Lo faremo attingendo agli strumenti dell’esegesi biblica, come quelli offerti nei commentari di studiosi come C.K. Barrett, Rinaldo Fabris, Friedrich Lang e Giancarlo Biguzzi, e cercando di valutare la coerenza teologica di questi versetti all’interno del quadro più ampio del pensiero paolino, con un’attenzione particolare alla visione di Paolo proposta da Gabriele Boccaccini.

Il caso a favore dell’interpolazione

La tesi che 1 Corinzi 14,34-35 sia un’aggiunta posteriore non si basa su un singolo indizio, ma su una convergenza di prove di diversa natura: testuali, contestuali e teologiche. Come vedremo, il peso di questi argomenti è considerato da molti, tra cui Giancarlo Biguzzi nel suo studio specialistico Velo e silenzio, quasi schiacciante.

Primo, la prova testuale. La critica testuale, la disciplina che studia le antiche copie manoscritte per ricostruire il testo originale, offre l’indizio più forte. Sebbene la maggior parte dei manoscritti greci contenga questi versetti nella posizione attuale, un’importante e antica famiglia di testi, nota come “tradizione occidentale”, presenta un’anomalia decisiva. In questi manoscritti, tra cui spicca il Codex Claromontanus (VI secolo), i versetti 34-35 sono assenti in questo punto ma vengono inseriti alla fine del capitolo, dopo il versetto 40. Come spiega la maggior parte dei commentari critici, ad esempio quello di Barrett (1979), questo fenomeno di un testo “vagante” è un classico segnale di una glossa marginale. È facile immaginare uno scriba che, in un’epoca successiva, scrive un commento o una norma a margine del testo. I copisti successivi, incerti se quella nota facesse parte del testo originale, l’hanno inserita nel corpo del testo per non perderla, ma non essendo sicuri della sua posizione esatta, l’hanno collocata in punti diversi. La presenza di questi versetti in due posizioni differenti è una prova quasi inequivocabile della loro natura secondaria.

Secondo, la prova contestuale. Anche senza considerare i manoscritti, una lettura attenta del capitolo 14 rivela come i versetti 34-35 interrompano bruscamente il flusso del ragionamento di Paolo. L’intero capitolo è dedicato alla gestione ordinata dei doni spirituali, in particolare la glossolalia e la profezia. Paolo sta dando istruzioni su come questi doni debbano essere esercitati per l’edificazione (oikodomé) di tutta la comunità. Come notano commentatori attenti alla struttura letteraria come Rinaldo Fabris (1999), l’argomento scorre in modo perfettamente logico leggendo direttamente dal versetto 33 al versetto 36. Il richiamo a “tutte le chiese dei santi” nel v. 33 funge da introduzione alla domanda retorica e sferzante del v. 36 (“Forse che la parola di Dio è partita da voi?”), con cui Paolo rimprovera l’arroganza dei Corinzi. I versetti 34-35, con il loro divieto specifico per le donne, appaiono come un cuneo inserito in questo discorso, deviando l’attenzione su un argomento completamente nuovo.

Terzo, la prova teologica. Questo è l’argomento più potente. La contraddizione con 1 Corinzi 11,5, dove Paolo presuppone attivamente che le donne preghino e profetizzino, è palese. È teologicamente incoerente che Paolo dedichi sedici versetti a regolamentare un ministero femminile per poi, tre capitoli dopo, proibirlo senza appello. Inoltre, come sottolinea Biguzzi (1994), il linguaggio stesso dei versetti suona estraneo a Paolo. L’appello vago alla “legge” (“come dice anche la legge”) è atipico. Quando Paolo cita la Torah, è solitamente specifico. Qui, non è chiaro a quale legge si riferisca, dato che non esiste alcun comando esplicito nell’Antico Testamento che imponga il silenzio alle donne nelle assemblee. Questo stile di appello generico è, invece, molto più caratteristico degli scritti deutero-paolini, come le Lettere Pastorali (1 Timoteo 2,11-12), che riflettono una fase successiva di istituzionalizzazione della Chiesa.

Le difese dell’autenticità e i tentativi di armonizzazione

Nonostante la forza di queste prove, è doveroso presentare le argomentazioni di chi, come Friedrich Lang (2005) o Heinz-Dietrich Wendland (1976) nei loro commentari, espone anche le ragioni per cui si potrebbe difendere l’autenticità del passo. La prima linea di difesa si basa sul fatto che la stragrande maggioranza dei manoscritti, inclusi i più antichi papiri, contiene i versetti nella loro posizione attuale. Per alcuni, l’evidenza esterna a favore dell’autenticità è più forte di quella contraria.

Per risolvere la contraddizione teologica, vengono proposte diverse strategie di armonizzazione. Una delle più comuni, discussa anche da Franco Manzi (2014), è quella di restringere il significato del verbo “parlare” (lalein). Secondo questa tesi, Paolo non starebbe proibendo ogni forma di espressione vocale, ma solo un tipo specifico di “parlato”, come chiacchiere o domande inopportune che disturbavano lo svolgimento del culto. In questo caso, il divieto non si applicherebbe alla preghiera o alla profezia. Un’altra ipotesi, più raffinata, suggerisce che il “parlare” proibito sia l’atto di “discernere” o “giudicare” le profezie (menzionato in 14,29), un compito che Paolo potrebbe aver riservato ai leader della comunità.

Sebbene ingegnose, queste armonizzazioni, come nota Biguzzi (1994), appaiono spesso forzate. Il verbo lalein è usato da Paolo in tutto il capitolo per indicare sia il parlare in lingue sia la profezia. È difficile sostenere che, solo in questi due versetti, assuma improvvisamente un significato così ristretto.

La coerenza teologica e la prospettiva di Gabriele Boccaccini

Per una valutazione più profonda, è utile chiederci: questo divieto si inserisce coerentemente nel quadro generale della teologia di Paolo? Qui, la prospettiva di Gabriele Boccaccini (2019) diventa particolarmente preziosa. Boccaccini, nel suo Le tre vie di salvezza di Paolo l’ebreo, insiste nel ricollocare Paolo all’interno del suo mondo, quello del giudaismo del Secondo Tempio. Il Paolo di Boccaccini non è il fondatore di una nuova religione in rottura con l’ebraismo, ma un apostolo ebreo con una missione specifica: portare i gentili all’interno del popolo di Dio attraverso la fede in Gesù Cristo, senza imporre loro l’osservanza completa della Torah.

Le comunità fondate da Paolo, in questa visione, sono laboratori escatologici, luoghi in cui la potenza dello Spirito Santo anticipa all’interno delle riunioni di culto la realtà del Regno di Dio, superando barriere sociali. L’effusione dello Spirito, come profetizzato da Gioele, è per tutti, “figli e figlie” (Atti 2,17-18). La libertà carismatica e la partecipazione attiva di tutti i membri al culto sono il segno distintivo di queste comunità. Se consideriamo questo quadro teologico, il divieto rigido e legalistico di 1 Corinzi 14,34-35 appare come un corpo estraneo. Sembra un passo indietro rispetto alla visione di una comunità in cui “non c’è più uomo né donna” (Gal 3,28) in termini di accesso allo Spirito e al ministero. La logica di Paolo nei capitoli 11-14 è quella dell’ordine per l’edificazione, non della soppressione per gerarchia. Un divieto assoluto basato sullo status e sul genere sembra contraddire questo principio fondamentale.

Inoltre, l’appello alla “legge”, visto attraverso la lente di Boccaccini, risulta altamente problematico. Il Paolo storico ha un rapporto complesso con la Torah. Un suo appello così generico e non argomentato alla “legge” per imporre una norma sociale suona molto problematico (quale legge?). Sembra proprio il tentativo di una generazione successiva di “addomesticare” la radicalità dello Spirito reintroducendo strutture gerarchiche più familiari al mondo greco-romano.

Conclusione

Alla luce delle prove testuali, contestuali e teologiche, la tesi dell’interpolazione di 1 Corinzi 14,34-35 risulta la più convincente e coerente. La contraddizione interna con il capitolo 11, l’instabilità della tradizione manoscritta, l’interruzione del flusso argomentativo e, non da ultimo, l’incoerenza con la visione paolina di una comunità carismatica e inclusiva, come quella delineata anche dal quadro di Boccaccini, rendono quasi certo che queste parole non appartengano alla penna dell’apostolo.

Molto probabilmente, si tratta di una glossa aggiunta in un’epoca successiva, forse tra la fine del I e l’inizio del II secolo. In questa fase, come molti storici del cristianesimo primitivo sostengono, la Chiesa stava attraversando un processo di istituzionalizzazione. La spinta carismatica delle origini veniva progressivamente incanalata in strutture più rigide e gerarchiche, e il ruolo pubblico e ministeriale delle donne, così evidente nelle lettere autentiche di Paolo, veniva progressivamente ridimensionato. Uno scriba, leggendo il capitolo 14 e la sua enfasi sull’ordine, potrebbe aver aggiunto a margine una nota che rifletteva la prassi della sua epoca, magari ispirandosi alle norme delle Lettere Pastorali, per “correggere” o “precisare” il pensiero di Paolo. Riconoscere questi versetti come un’interpolazione non significa manomettere la Scrittura, ma praticare un atto di fedeltà storica e teologica, che ci permette di ascoltare con maggiore chiarezza la voce autentica di Paolo.


Bibliografia

Barrett, C.K. (1979). La prima lettera ai Corinti. Bologna: EDB.

Biguzzi, G. (1994). Velo e silenzio: Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-36. Bologna: EDB.

Boccaccini, G. (2019). Le tre vie di salvezza di Paolo l’ebreo: L’apostolo dei gentili nel giudaismo del I secolo. Torino: Claudiana.

Fabris, R. (1999). Prima lettera ai Corinzi. Milano: Paoline.

Lang, F. (2005). Le lettere ai Corinti. Brescia: Paideia Editrice.

Manzi, F. (2014). Prima lettera ai Corinzi. Cinisello Balsamo (MI): San Paolo.

Wendland, H-D. (1976). Le lettere ai Corinti. Brescia: Paideia Editrice.

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